Some of the stories that I'd like to print (cit. Ochs feat. Zuc)
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La Befana del quasi golpe Usa: Trump, quel bischero dello sciamano e la nostra post-democrazia

di Mauro Zucchelli

«Alle 7,03 dell’8 gennaio 2021, due giorni dopo il violento assalto sferrato a Capitol Hill dai sostenitori del presidente Donald Trump, il generale Mark Milley, principale rappresentante delle forze armate del Paese e capo dello stato maggiore congiunto, fece una telefonata urgente su una linea top secret e criptata al suo omologo cinese, il generale Li Zuocheng, comandante dell’Esercito popolare di liberazione». È il secondo anniversario di quell’assalto alla democrazia nel tempio della liturgia parlamentare del Paese che la democrazia vuol insegnarla al mondo (talvolta con qualche ragione, spesso proprio no), e vale la pena raccontare quel giorno a partire da un paradosso: anziché guardare a quel che è successo sotto gli occhi di mille telecamere nel giorno della Befana, facciamoci accompagnare a scoprire quel che è accaduto due giorni più tardi in un ufficio riservatissimo e potentissimo, lontano da qualsiasi riflettore.

L’incipit l’ho preso dal più bel libro di Bob Woodward e Robert Costa. Si intitola “Pericolo”, lo stampa Solferino e sono una ventina di eurini ben spesi.
Con occhi italiani di prim’acchito viene da dire: et voilà, eccoli lì i Fenomeni. Non bastasse che rivelano una telefonata ultrariservata e fuori da tutti i canoni, ci tengono a farti sapere  anche il minuto esatto in cui i due generalissimi hanno alzato la cornetta.
Fiocchettini yankee, tanto mica ci sarà qualcuno che ti querela se lo squillo l’hanno fatto mezz’ora più tardi o dopo pranzo. Detto per inciso, teniamo presente che sì, da quella parte dell’Atlantico ogni tanto pizzicano qualcuno a inventarsi storie per andare alla conquista del Pulitzer, il premio Nobel del cronista, ma laggiù talvolta sono talmente pignolini da datare la corrispondenza dall’Italia “Portoferraio” invece che “Roma” semplicemente perché il reporter l’ha inviata dall’Elba dov’è in vacanza.
Sì, Woodward e il suo socio ci mettono un particolare accanimento nel fare i fenomeni: spiegano che di telefonata ce n’era stata anche un’altra («a quattro giorni dalle elezioni presidenziali») ma sfortunatamente non si sa a che ora), che a un certo punto il vento si alza a 50 all’ora e fa fallire il colpo «a una buca par 4» o che poi ci «si sposta sul retro perché il cellulare prende meglio».
Come ognuno facilmente capirà, il punto non è l’orario della telefonata o se ci fosse un libeccio fastidioso per la mattinata di golf ma cosa si sono detti i numeri uno alla testa delle forze armate più spaventose del mondo, quelle americane e quelle cinesi.
C’è anche quello nel libro ma evito di spoilerare troppo. Anche perché Woodward è il cronista-mito che fece dimettere Nixon con le rivelazioni del Watergate. Viene dall’Illinois e a fine marzo avrà 80 anni: in carriera ha sfornato uno scoop dietro l’altro.
Nel giorno dell’anniversario di quell’assalto a Capitol Hill, il libro ci porta  fuori dalle secche del clamoroso e del pittoresco. Via da quell’arma di distrazione di massa che è il volto dello “sciamano” Jacob Anthony Angeli Chansley. Si sa che gli yankee sono un po’ bambinoni cresciuti a vitamine, burro d’arachidi e omogeneizzati e dunque a noi che ci siamo fatti il terrorismo brigatista e le stragi di stato può venire da sorridere davanti all’eversione che prende il volto di quel che un bischero dell’Arizona mal cresciuto pensa sia un guerriero vichingo fra pelli e amuleti, corna e faccia a stelle e strisce.
Quel giorno di Befana 2021 al Campidoglio statunitense c’era anche un pezzetto di Livorno: con una specie di corno tradizionale era presente David Wood,  campione di basket arrivato alla Libertas con targa Enichem in quel 1989 del quasi scudetto, prima di volarsene via, prima a Barcellona e poi fra le star Nba (Spurs, Milwakee, Dallas e Houston). Terrà poi a spiegare all’Osservatore che era lì nella  fase pacifica della protesta.
Non è un caso se ci siamo messi nella zucca che un tipo così strampalato ckne lo sciamano vichingo sia stato il protagonista del più clamoroso tentativo di colpo di stato nello stato-guida dell’Occidente: una roba da operetta, mica un golpe tipo Pinochet ma nel Paese più potente che esista sul mappamondo. Lo spiega invece benissimo l’altissima preoccupazione del generalone di Pechino: Woodward e Costa spiegheranno poi come la catena di comando militare si era di fatto riorganizzata per dribblare eventuali ordini di Trump che magari mettessero a repentaglio la pace. Tradotto: stiamo benino se la possibilità di evitare davvero  la terza guerra mondiale è nelle mani della disobbedienza da parte della nomenklatura del Pentagono. Del resto, era da mesi che le gerarchie militari sia Usa che cinesi tenevano d’occhio la tentazione di The Donald di farsi venire una alzata d’ingegno per togliersi dal rischio di una sconfitta alle presidenziali magari con un attacco militare alla Cina per chiamare a raccolta gli americani in nome dell’emergenza patriottica
In quel minestrone di consiglieri mal-destri faceva capolino anche qualche teorico del “vantaggio della prima mossa”. In una situazione indecifrabile, vince chi attacca prima.
Come ho ricordato sul Tirreno, né Woodward-Costa né Milley hanno alle spalle una cultura di tipo europeo: altrimenti la memoria sarebbe balzata alla prima guerra mondiale, che nessuna potenza europea voleva scatenare ma venne innescata da un incredibile concatenarsi di eventi. Salta però fuori l’analogia con la fase in cui, prendendo la palla al balzo dopo il rogo del Parlamento tedesco, Hitler nel ’33 getta la croce sui comunisti e si veste dei panni di salvatore della patria in nome dell’emergenza.
L’avrebbero fatto anche Trump dopo aver perso le elezioni? Il generale Milley ha un chiodo fisso: l’ordinamento statunitense mette nelle mani del solo numero uno della Casa Bianca il bottone dell’attacco, foss’anche l’ultima guerra del genere umano su questo pianeta, e lui di era dato il compito di allontanare Trump da quel bottone. Lo fa così: prende da parte uno per uno ciascuno degli esponenti dei vertici militari e costruisce una procedura inventata per costruire un fossato attorno a quel benedetto bottone e lui si piazza sul ponte levatoio. Il presidente non può fare da solo, è indispensabile anche l’ok di Milley. Spende tutta la sua autorevolezza per blindare la procedura con tre puntelli: 1) di fronte ai cinesi si fa garante che gli Usa non attaccheranno e mette sul tavolo la propria affidabilità mostrata nei cinque anni precedenti con il suo omologo; 2) “consiglia” all’ammiraglio Philip Davidson, capo dell’Indo-Pacific Command, di sospendere esercitazioni che rischiavano di essere interpretate «come una provocazione»; 3) su richiesta di Nancy Pelosi, leader dei democratici, intreccia un rapporto fra conflitto e fiducia per proteggere gli Usa da gesti inconsulti di Trump.
Accade qualcosa che era già avvenuto, ad esempio nel ’74 con Nixon: una “camicia di forza” per cui nessun comando militare avrebbe dovuto obbedire a “strani” ordini di Nixon senza una loro controfirma.
Non c’è solo Milley. Trump trova sulla strada del golpe il vicepresidente Mike Pence. E quest’ultimo si appoggia a Dan Quayle, che tantissimi anni prima era stato vicepresidente con George Bush senior: quando era in carica aveva collezionato più  gaffe del principe Filippo di Edimburgo e l’avevano fatto a fette a suon di battutacce, ma stavolta si spende al fianco di Pence, anche lui senatore dell’Indiana, parlandogli «da vicepresidente a vicepresidente».
 «Il pericolo rimane», sono le ultime tre parole di un libro di 512 pagine, 74 capitoli e 490 note in cui compaiono 415 persone. Adesso c’è tutta la vicenda della commissione che ha indagato su quel giorno di follia. Ma non è tanto su quest’aspetto che vale la pena di richiamare l’attenzione: anziché sulla follia dello sciamano, meriterebbe di indagare sulle coperture che hanno permesso a una confraternita di squinternati senza preparazione militare di prendere possesso del cuore delle istituzioni di Washington. Ma bisognerebbe avere informazioni che non ho: certo non mi convince che, dopo gli attentati alle Torri Gemelle nel 2001, basti una manifestazione di protesta per veder la democrazia più  armata del mondo squagliarsi come neve al sole.
A me qui interessa semmai fissare lo sguardo sugli aspetti con cui le democrazie parlamentari liberali devono fare i conti in questa fase. Lo dico a partire da un elemento: così come nella storiografia anni ’60-70 il modello economico made in Italy era bacato dalle “tare d’origine” del capitalismo, da Berlusconi in poi ci siamo raffigurati come un sistema politico arretrato. Indietro rispetto al resto d’Europa. In realtà, ci siamo accorti poi che in Germania i neonazisti ottengono valanghe di voti; nella civilissima Scandinavia le spinte xenofobe sono fortissime; nelle Filippine è tornato al potere il casato dei Marcos con Bongbong e una campagna all’insegna di canzoncine sceme (dopo il periodo in mano a un altro figurino di nulla come Duterte); in Brasile ha faticato moltissimo Lula ad aver ragione di un personaggio come Bolsonaro; in Sudafrica soffiano venti di una sorta di sub-apartheid contro altri africani; senza contare l’aria che Orban in poi tira sull’Est Europa…
Non eravamo in coda al treno, eravamo in cima a far da apripista: la crisi della sinistra – anzi, del centrosinistra – in Italia come nel resto dell’Occidente postindustriale sta dentro questa storia. Stretta com’è fra una globalizzazione dei mercati che non globalizza i diritti, da un lato, e la difesa dei diritti che furono senza capire granché delle logiche di funzionamento del presente. Risultato: la sinistra è in campo solo “contro”, ha bisogno della costruzione del nemico per avere una propria ragion d’essere. Ma l’esito catastrofico delle ultime elezioni politiche dicono chiaro e tondo quanto i cittadini se ne infischino di una slot motivazione di voto. E questo spalanca alle destre un terreno politico più ampio delle praterie del Far West. E una possibilità di scelta: svoltare verso un centrodestra fra Merkel e Chirac rimanendo nell’alveo della sponda destra dell’ex Balena Bianca Dc oppure radicalizzare le posizioni fasciste-populiste per buttare alle ortiche la democrazia che abbiamo conosciuto fin qui e inventarsi un trumpismo di casa nostra. Avete fatto caso che i regimi democratico-parlamentari sono ormai una piccola minoranza, non più del 25% del pianeta? Del resto, lo stile di vita americano è costruito sul debito pubblico in mano al Partito comunista cinese e anche gli imprenditori di qui provano ammirazione per il modello decisionale non di Londra o Berlino bensì dei regimi autoritari (turco, cinese, indiano o kazako che sia).
Piantiamola qui, sono solo un cronista di provincia e mi manca l’armamentario intellettuale. O anche solo una bussola: e qui è facile perdersi.

10 Comments

  1. Paolo borghi ha detto:

    Oltre la bussola, che non garantisce da sola una rotta adeguata, occorre un porto e una terra di arrivo, altrimenti ci troviamo a girovagare scansando solo tempeste e scogli. Ecco, forse dal muro che tolse i diversi porti di una intera epoca di rivoluzioni, occorreva far partire nuove riflessioni e strategie per il pianeta. Siamo sempre in tempo ma i tempi si fanno sempre più stretti e le sfide sempre più complicate

    1. Mauro Zucchelli ha detto:

      Il vescovo Coletti insisteva sul fatto che bisogna decidersi a prendere il largo

      1. Claudio Frontera⁷ ha detto:

        Caro Mauro, ho letto “Pericolo” di Woodward e Costa, molto interessante. Condivido la tua preoccupazione per la fragilità e la vulnerabilità delle democrazie.
        D’altra parte è questa vulnerabilità che giustifica l’esistenza e la necessità dei democratici. Se le democrazie fossero sistemi invulnerabili di per sé, che bisogno ci sarebbe dei democratici? Va aggiunto inoltre che finora la debolezza delle democrazie e la forza delle dittature (oggi si dice autocrazie) si sono rivelate più apparenti che reali. Per questi due motivi e nonostante tutto ho fiducia nella forza della democrazia.

  2. MarcoFilippi ha detto:

    Ottimo affresco Mauro
    Evito di replicare alle molte suggestioni perché … la farei più lunga di te … e non sono più nemmeno un cronista di provincia .
    Comunque è innegabile che è facile perdersi … e allora due per me sono le alternative:
    O mi rivedo la quarta puntata di Star Wars oppure corro in libreria
    Credo opterò per la seconda visto che ho finito il libercolo de “L’Africa rossa” storia di fatti e misfatti della Cina nel vecchio continente… te lo consiglio
    Poi ci troviamo e passiamo un mezzo pomeriggio
    Un abbraccione grande

    1. Mauro Zucchelli ha detto:

      Ciao Marco, mi ricorderò dell'”Africa rossa” in salsa cinese. Ci vorrebbe un’Europa. C’è una scena che racconterò: vedo Gallanti che dice cose di assoluto buon senso (cioè intelligenti) in un consesso con un direttore generale della tecnocrazia di Bruxelles. In breve: affrontare il problema dei barconi con una politica estera diretta alla sponda africana del mediterraneo. La risposta: non possiamo fare le autostrade del mare fino al Nordafrica perché è fuori dai confini Ue. Ecco, basta questo

      1. Claudio Frontera ha detto:

        Caro Mauro, concordo: una politica europea verso l’Africa è indubbiamente indispensabile e mi auguro che l’Italia ne sia promotrice indipendentemente dal colore del governo in carica.
        Aggiungo solo che l’elenco delle politiche indispensabili per l’Europa è molto lungo e che un eccesso di priorità e di aspettative è rischioso anche per chi ha il fisico.
        Ciao

  3. paolo borghi ha detto:

    prendere il largo da porti in cui siamo arrivati con tanta fatica e sacrificio, senza rotta? forse dobbiamo prima intenderci sui nuovi valori e strumenti per il nuovo mondo da scoprire per costruire nuove relazioni tra umani e con l’ambiente.

  4. Filippo Arru ha detto:

    Non sono del mestiere e quindi ne sai molte ma molte più di me, però da utente passivo e pigro certe “cose” il giornalismo le fa passare (ma sempre ben criptate dietro il gergo di turno) anche a noi mortali… insomma ci si sente accerchiati da pazzi/furbi scatenati o da aristocratici intellettuali con la puzza sotto il naso che pretendono di sapere tutto su tutti senza mettere mai un piede nella realtà quotidiana… e io a scuola devo fare lo spezzatino di educazione civica per creare il cittadino attivo…
    Un abbraccione e spero di vederti presto

  5. Laura Bandini ha detto:

    Letto con grande interesse. Preoccupazione, amarezza, senso di sconfitta. E intanto tutti a guardare San Remo….

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