di Mauro Zucchelli
Càpita che nel presente riaffiorino tracce d’un trapassato remoto. Quasi archeologiche: come il nome di Antonio Pallante, la cui morte da quasi centenario è stata resa nota dai familiari a distanza di sei mesi dal decesso. È un nome che ci riporta indietro nel tempo: a quel 14 luglio di 75 anni fa quando sparò a Palmiro Togliatti, leader del Partito Comunista più forte di tutto l’Occidente in una Italia al confine fra i due blocchi nati dalla spartizione di Yalta fra Urss e Usa. Lo ridusse in fin di vita, solo la mano del chirurgo-mago Pietro Valdoni riuscì a salvarlo.
Lasciamo nel cassetto il fatto che la storia sembra essersi messa a correre. Sono trascorsi tre quarti di secolo sì, ma il “tempo percepito” è ben più lungo: è come se avessimo fatto un balzo all’indietro in un “ultra-ieri” ormai cristalizzato nei libri di storia, un po’ come se parlassimo di Cavour o Crispi. Colpa degli smartphone e di tutta quanta la rivoluzione digitale? Forse, ma non solo. È come se, spiaccicati su un presente senza inizio né fine, non avessimo profondità di campo e fossimo costretti a campare in un fumetto a due dimensioni.
Ma evitiamo di lambiccarci il cervello con questioni teoriche che maneggio male (non ho il cacciavite o il saldatore adeguati), se mi colpisce la morte di Pallante – un giovane siciliano liberale, fascista o qualunquista ma comunque duramente anticomunista che, mai pentito, dice di aver fatto tutto da solo (ci crediamo?) – è per misurare un’altra (lunga) distanza. Talmente lontana che l’abbiamo praticamente cancellata dalla memoria collettiva. Riguarda quel che accadde a Livorno nelle ore immediatamente successive all’attentato che quasi ammazzò il Migliore, così chiamavano tutti il numero uno del Pci di allora. Vale perché Livorno era per i comunisti un “santuario” nell’immaginario collettivo, uno dei feudi “rossi” dove il consenso era più alto (oltre il 56% per il Fronte popolare nelle urne del 18 aprile ’48) e fra le città italiane di quel rango (fra le prime venti del Paese per dimensioni) era una delle poche a guida comunista.
Non è solo questo il motivo: dopo l’attentato a Togliatti gli operai e gli ex partigiani insorgono, lo scontro frontale del ’48 con la rottura dell’alleanza resistenziale tipo Cln era freschissima e a Genova o Napoli le proteste di piazza arrivarono a un passo dall’insurrezione rivoluzionaria. Senza contare quel che avvenne a Torino (con Valletta, l’uomo al timone della Fiat, rinchiuso in fabbrica come fosse sequestrato) o a Piombino. Idem sul monte Amiata, con i rivoltosi che prendono il controllo della situazione finendo quasi per dar vita a una “repubblica rossa”. Bruciava la delusione per l’esito della Resistenza che aveva fatto sognare una nuova era di giustizia sociale e invece ci si era ritrovati con le istituzioni riempite dalla vecchia casta capace di dribblare ogni tentativo di pulizia dopo il crollo del regime fascista.
C’era anche l’idea di riprendere le armi nascoste dopo la fine della seconda guerra mondiale o comunque di arrangiarsi a procurarsele: gli anziani militanti tramandano che nel corso della demolizione dello scalo Morosini, riattivato solo pochi anni prima (nel ’98), vennero ritrovati alcuni fucili. Chissà se nella fabbrica-mito della classe operaia li avevano nascosti per conquistarsi il paradiso nell’ “ora x” della rivoluzione. Racconterà sul Tirreno l’indimenticato collega Luciano De Majo l’episodio del gruppo di operai che, nei giorni dopo il tentativo di assassinare Togliatti, un gruppo di operai prese un camion e lo trasformò in un blindato, praticamente un piccolo carroarmato «per fare la rivoluzione», e con orgoglio lo consegna ai vertici della federazione livornese del Pci. Soltanto un tipo come Ilio Barontini – il mitico comandante Dario che aveva combattuto ad ogni latitudine, compreso in Cina al fianco di Mao – può avere la possibilità di dire loro: «L’avete fatto in tre giorni? Ecco, bravi: ora in tre giorni lo smontate».
Barontini getta acqua sul fuoco della rivoluzione? La solita storia del Pci che frena la combattività delle masse? Fatto sta che era stato per primo Palmiro Togliatti a farlo: cari compagni, niente sciocchezze insurrezionali. È ancora in gravissime condizioni: o lui o comunque la gestione delle parole del Capo che fanno i suoi luogotenenti – incluso l’atteggiamento di Di Vittorio alla guida della Cgil – tengono a mostrare i “muscoli” dopo la batosta di tre mesi prima (18 aprile ’48) ma, al tempo stesso, cercano di evitare la guerra civile. Anche perché consapevoli del fatto che Yalta aveva assegnato l’Italia alla sfera occidentale, dunque tirare la corda avrebbe voluto dire pagare un prezzo altissimo.
Altro che la leggenda di Bartali che salva l’Italia dal caos vincendo il Tour de France (ha salvato semmai tanti ebrei beffando i controlli dei nazisti con i suoi allenamenti in bici, ma questa è un’altra storia…).
C’è un Togliatti sul filo fra la vita e la morte con un proiettile in testa eppure il gruppo dei dirigenti più stretti attorno a lui fa filtrare la frase del Migliore: compagni, state calmi. Prudente, era prudente. Ma forse quella frase è la scelta con cui lo stato maggiore del Pci vuol gestire quella fase che oltrettutto deve fare i conti con quel che accade nella vicina Grecia: una sanguinosa guerra civile che il fronte comunista pagherà a carissimo prezzo.
Era chiara la direttiva che arrivava dal quartier generale di Botteghe Oscure, ma vale la pena di affidarsi alla ricostruzione di Andrea Grillo, in un libro pubblicato nella prima metà degli anni ’90 dalla Biblioteca Serantini (con la prefazione dello studioso livornese Ugo Spadoni), per notare sulla base di una serie di testimonianze dei protagonisti dell’epoca che fin da subito in sede locale a Livorno «i quadri della sinistra si erano già autonomamente orientati verso un atteggiamento piuttosto cauto».
Certo, la situazione restava incandescente: al ponte girante del Porto Mediceo tranciano i cavi dell’elettricità per bloccare il passaggio dalla Darsena Nuova, gli operai del polo petrolchimico sono già in sciopero per una loro vertenza interna, gli operai del Cantiere erano stati fatti uscire a scaglioni ma «avevano disarmato i guardiani e i finanzieri di servizio». Non basta: ci sono «almeno tre tentativi» di scardinare gli accessi a tre negozi di armi (in piazza Colonnella, in via de Larderel e in via Maggi) e in un caso il negozio viene saccheggiato. Per prudenza, lo stato maggiore del Pci livornese trasloca provvisoriamente nella sede della sezione San Marco in via Garibaldi: quartiere popolare, dunque ritenuta più difendibile.
Per organizzare (e dunque poter cercare di controllare) la rabbia popolare, ecco che la federazione annuncia un comizio in piazza della Repubblica. È tutt’attorno al Voltone – e all’enorme fiumana di gente che sta accorrendo – che si incrociano i destini di militanti, celerini, dirigenti comunisti. All’Attias una jeep di agenti viene bersagliata da colpi di pistola, risponde con scariche di mitra centrando un operaio trentenne che morirà pochi giorni più tardi. È benzina sul fuoco.
Un poliziotto non si rende conto dell’ebollizione di una piazza in “fiamme”. La divisa in quei momenti è un bersaglio, soprattutto mentre i suoi colleghi stanno circondando il Voltone con una colonna di mezzi guidata da un blindato con mitragliatrice che a un certo punto viene girata verso i manifestanti. È un tentativo disperato di ristabilire l’ordine pubblico in un contesto in cui sono saltate tutte le regole e la rabbia la fa da padrone. Risultato: la folla circonda l’agente e ne fa il capro espiatorio di tutto, che sia la “Resistenza tradita”, la vittoria dei democristiani e la cacciata dei “rossi” dal governo, la repressione in fabbrica, i “consigli” del questore a chiunque fosse anche solo sospettato…
Si scoprirà paradossalmente che l’agente ucciso era uno dei pochi comunisti presenti nei ranghi della polizia: Ervè Pacini, numero due del Pci labronico e testimone diretto, spiega di esserselo visto venire incontro, ha provato a toglierlo dalle mani della folla inferocita ma in quello stesso frangente lo chiamano per andare a salvare un pullman di suore che, sfiga vuole, proprio in quel momento transita sull’altro lato della piazza e rischia di essere fatto a pezzi con le religiose dentro.
Il racconto potrebbe finire qui ma forse è utile allungare lo sguardo – un po’ meno Storia con la maiuscola, un po’ più amarcord – e vedere un giorno dell’autunno dell’anno dopo: sempre sulla nostra costa livornese, sempre con Palmiro Togliatti protagonista. Così com’era accaduto a Roma in via della Missione davanti alla pistola di Pallante, al suo fianco c’è Nilde Iotti. Stavolta è una gita da innamorati. Si sa che Togliatti e Iotti salirono a Piombino a bordo di un rimorchiatore della ditta Neri di Livorno e sbarcarono a Rio. Una bella mattinata, «saranno state più o meno le dieci», rammenta ai taccuini del Tirreno Elvio Diversi, per una vita sindaco rosso del paese in quell’isola “bianca” che è stata l’Elba, l’avamposto più a nord della Cassa per il Mezzogiorno (se si eccettua Capraia). «Togliatti era scortato da tre-quattro persone e accompagnato da Nilde Iotti più due rappresentati del Pci di Livorno, Otello Frangioni e Leonardo Leonardi» (che moriranno pochissimo tempo dopo insieme a Ilio Barontini in un tragico incidente stradale).
Tanti anni più tardi, sarà Enrico Berlinguer ad andare in vacanza all’Elba: se ne prenderanno cura i portuali di Livorno per cibo e sorveglianza. Una cura talmente affettuosa e protettiva che il caposcorta fece una scanagliata a Berlinguer il giorno che lui dribblò la loro cintura protettiva per andarsene sul pullman come uno qualsiasi in mezzo alla gente.
Torniamo a Togliatti. Terminò quel fuori programma datato autunno ’49 con una capatina in terraferma dalle parti di Suvereto, in una casa contadina che diventerà un’azienda vitivinicola di bel nome. Di quel giorno, della love story del Migliore e della futura prima deputata presidente della Camera, resta una foto: come dice Mario Lancisi, quello scatto lì ritrae «sorridenti, sereni, innamorati: si vede Togliatti ritratto quasi di profilo con l’aria di chi orgoglioso presenta ai compagni la sua donna». Anzi, una foto e una cantina: la “cantina Togliatti” dove nel ’49 trovarono rifugio per un bicchiere di vino questi due che in quel momento erano solo Palmiro e Nilde. Una coppia di innamorati in gita, prima ancora che il vertice del Partito comunista che aveva ancora i baffoni di Garibaldi (e quelli di Stalin). Potrebbe essere roba da gossip, chissà che invece sotto il profilo del costume sociale non valga (quasi?) quanto la svolta di Salerno.
Ancora Grazie. Quel “compagni state calmi”che è parte della storia di Togliatti mi fa pensare ai nostri giorni e come non ci sia proprio
bisogno di quel richiamo. Calma
piatta. su tutti i fronti. Grazie di ricordarmi quegli accadimenti storici. Io ne aggiungo uno del tutto personale. La mia mamma custodiva gelosamente in fondo ad un baule le gigantografie di Frangioni, Leonardi e Barontini e guai a chi le toccava. Te lo ripeto scrivi un libro.o solo una raccolta di queste tue preziose riflessioni. Poi, siccome si tratta di memoria, lo presentiamo come Amal……grazie ancora
Grazie a te (e alla tua mamma)
Bravo.Ricostruzione fedele e che dovrebbe fare riflettere.Tra gli arrestati ci fu anche Ceccherini che ebbe una qualche notorietà come scrittore.Dsluti
Grazie. Sì, sembra che questi fatti appartengano ad un passato già lontanissimo, ma per me, per tanti di noi, sono i racconti con cui siamo cresciuti . E quella foto… Grazie, Mauro
Bellissimo affresco Amarcord
Un salto in un tempo remoto che resta pensato solo in bianco e … rosso!
Altri tempi
Oggi i colori hanno trascolorato tutto facendo perdere alle persone e alle storie definizione e risalto
Grazie Mauro
Un abbraccione
Continua !