di Mauro Zucchelli
Eric Hobsbawm è un grande intellettuale che, la storia (con la minuscola) interpretando, la Storia (con la maiuscola) ha anche costruito: ha “fotografato” il Novecento come «il secolo breve», compreso fra la prima guerra mondiale e lo smottamento dell’Unione Sovietica. L’ha fatto “incollando” le due guerre mondiali in una sorta di lunga fase di massacri e orrori (una “età della catastrofe” che, siccome è lo scontro fra visioni del mondo opposte è paragonata alla “guerra dei trent’anni” che sconvolse l’Europa del Seicento). Ma quante volte ci siamo detti che abbiamo conosciuto il più esteso periodo di pace? Forse noi occidentali perché altrove i conflitti locali si sono moltiplicati. Ma a guardar bene è un po’ così ma non del tutto così: alle due guerre mondiali che tutti ricordano si potrebbero aggiungere – magari debordando dai confini temporali stabiliti da Hobsbawm – anche la guerra italiana in Libia, i conflitti nell’ex Yugoslavia e quelli fra sovietici e polacchi, la guerra civile spagnola e quella greca (oltre alle lunghe fasi di violenze dopo la Grande Guerra in realtà come la Germania e l’Italia). E questo solo per citarne alcune: senza contare che sul Mediterraneo si scaricano le guerre del Medio Oriente: fra arabi e israeliani, ma anche in Libano, in Siria, in Libia e in varie altre zone del Nord Africa…
Alla fine si scopre che armi, eserciti e bombardamenti l’hanno fatta da padrone per poco meno della metà del secolo. Dipende forse dall’eco dell’invasione dell’Ucraina? Per noi è una guerra così lontana (facciamo la vita di sempre fra spritz, calcetto e vacanze) e ugualmente così vicina (viviamo fra il rincaro choc delle bollette di gas-luce e la minaccia costante di qualche aggravamenti della situazione)…
Ma qui non vanghiamo il terreno dell’oggi, almeno per ora. Dietro la spinta indiretta di Hobsbawm (e quella ben più diretta dell’aggressione a Kiev) possiamo immaginare un radicamento della guerra anche qui e ora assai maggiore di quanto credevamo: un po’ come quando papa Bergoglio non si stanca di ripetere che la terza guerra mondiale, seppur in modo nascosto e a pezzetti, la stiamo già combattendo.
Ecco c’è un episodio di casa nostra dentro una sfilza di tragici eventi simili – così lontani, così dimenticati– in grado di rovesciare uno schema consolidato con cui molti di noi guardano alla Lunga Guerra qui da noi, che la si cataloghi come da tradizione in due distinte guerre mondiali o che la si ritenga due fasi di una stessa guerra: è l’affondamento dell’incrociatore Etruria nel porto di Livorno pochi giorni prima del Ferragosto 1918. Particolare curioso: praticamente sparito dalla stampa locale, che pure magnifica qualsiasi conquista degli alleati («I tedeschi precipitano la loro ritirata sotto la spinta vigorosa delle truppe francesi»), accusa il nemico («i pirati dell’aria austriaci approfittano delle notti lunari per compiere le solite infamie»), rende familiari luoghi chissà dove che segnano l’avanzata dei Nostri, ma con noi al sicuro («gli alleati progrediscono sulla Somme» oppure «Bapaume interamente conquistata dagli inglesi» o anche «La Decima Armata avanza con successo dalle Grave di Papadopoli» così come «imminente conquista di Tournai e Valenciennes» o i successi militari «sul massiccio fra la Matz e l’Oise»).
Detto per inciso, non vi sembra familiare rispetto a quel che accade oggi con altre guerre, a cominciare da quella in Ucraina? Beninteso, in Kosovo non era andata diversamente, in Siria e in Vietnam neppure. Le indicazioni geografiche sono insistite ma sono “mute”: devono essere lontane e fuori contesto così valgono come elementi mitologici: Soledar diventa il centro del mondo, anche se è tutt’al più un piccolo borgo di 11mila abitanti. Assomiglia alle tante “quota qualcosa” per cui nella Grande Guerra del ’15-18 flotte di generali mandavano al massacro contadini analfabeti, magari minacciando la decimazione (un fucilato a caso ogni dieci in caso di guai e diserzioni), pur di centrare un obiettivo che era davvero strategico solo sotto il profilo della loro carriera.
Nel frattempo finisce in due-righe-due la condanna all’«ergastolo previa degradazione» (con confisca di tutti i beni) per un poverocristo livornese del 90° fanteria «imputato del reato di diserzione». Idem per una popolana cinquantottenne arrestata dalle guardie municipali perché al mercato dava al re la colpa del rincaro dei prezzi. D’altronde, non c’è bisogno di attendere la dittatura fascista per vedere ampi buchi bianchi al posto delle notizie in giornali già molto prudenti: chissà cosa c’era in settima colonna il 30 agosto 1918, resta stampata solo la parola “censura”. Queste righe sbianchettate in mezzo alle colonne le ritroveremo spesso: paradossalmente proprio quanto più si avvicina la vittoria finale.
Torniamo a casa nostra. È solo sul numero del 16-17 agosto che la Gazzetta Livornese mette su una colonna un righino di titolo: «Lo scoppio di esplosivi nel porto». E tanto per sottolineare con quanta scarsa bramosia pubblicano la notizia, precisano che «L’Agenzia Stefani ci comunica da Roma in data di ieri l’altro». Il fatto risale al 13 agosto, cioè meno di tre mesi prima della fine della Grande Guerra. Conviene farcelo raccontare da Carlo Adorni nel suo libro edito dal Quadrifoglio: l’incrociatore saltò per aria durante la sosta all’Andana degli Anelli. Mentre passava accanto all’ “Etruria”, è esplosa una bettolina che «trasportava il munizionamento di un cacciatorpediniere francese in riparazione».
«Il terribile boato fu avvertito in tutta la città». Ma un po’ distrattamente i cronisti si limitano a annotare che «si hanno a deplorare alcuni morti e parecchi feriti» (e comunque, manco a dirlo, sono «quasi tutti leggeri»). Anche qui qualcuno deve aver messo lo zampino in tipografia prima che la Gazzetta andasse in stampa: le righe sono troncate a metà e ci sono vari spazi bianchi. Si parla di quattro morti, ma i nomi sono tre. Quasi tutto l’articolo è occupato invece dai nomi di chi ha mandato le corone di fiori, di chi accompagna il feretro: si scopre che i funerali sono solennissimi, attraversano tutta la città ed è presente il ministro della Marina militare, Alberto Del Bono.
Quella nave era “livornese” anche per un altro doppio motivo: a Livorno era stata costruita al Cantiere della famiglia Orlando un quarto di secolo prima e a Livorno era tornata per l’addestramento degli allievi ufficiali dell’Accademia Navale.
Questa storia ribalta l’idea che solo negli anni ’40 la guerra ce la siamo ritrovati proprio in casa: un po’ un’eccezione, colpa del fatto che la linea del fronte fra alleati-partigiani e nazisti-repubblichini che risale pian piano la penisola dall’estate ’43 fino all’aprile ’45. Anch’io, lo ammetto, ho creduto che la guerra del ’15-18 si fosse combattuta solo lontano, ai confini nord: fra Caporetto, il Piave e le Alpi, insomma. Pagando un pesante tributo di sangue anche noi toscani, ma con un campo di battaglia solo lassù alle frontiere settentrionali.
È in gran parte così, ma fino a un certo punto. Le azioni al di là delle linee del fronte diventano importanti: e con questo l’importanza delle perdite da infliggere al nemico, ben oltre la contrapposizione fra i “professionisti della guerra”. Diventa fondamentale colpire lo stock infrastrutturale nemico: dunque, anche la sua popolazione.
Ecco che l’episodio dell’affondamento dell’ “Etruria” (che di lì a poche settimane sarà recuperato e nel novembre successivo demolito) non è il solo episodio di questo tipo. Lo attesta qualcuno che conosce bene il mestiere: nel 2010 “Gnosis”, la rivista della comunità dell’intelligence made in Italy, il controspionaggio interno, mette in fila una sfilza di attentati da parte degli austriaci fin dal settembre 1915: 1) la corazzata Benedetto Brin esplode nel porto di Brindisi, muoiono in 456 uomini, compresi il comandante della divisione navale e il comandante della nave; 2) nel febbraio seguente saltano per aria «la fabbrica di dinamite del Cengio, in provincia di Genova, alcune centrali idroelettriche, aviorimesse per dirigibili ad Ancona, magazzini viveri nel porto di Napoli e nella zona franca di Genova»; 3) scoppia a La Spezia un carro ferroviario carico di proiettili navali, uccise 265 persone, inclusi parecchi civili e militari; 4) in quello stesso angolo della Liguria salta un vagone con mezzo migliaio di granate cariche; 5) nell’agosto 1916 i sabotatori austriaci affondano in 5 minuti la corazzata Leonardo da Vinci all’ancora nel porto di Taranto.
Ma quel che interessa qui è il caso dell’incrociatore affondato a Livorno: come rileva Adorni «successive indagini appurarono che la rete spionistica austriaca in Italia non era estranea all’ “incidente”»: se inizialmente era sembrato un caso fortuito, poi la cosa «apparve sempre più come un atto di sabotaggio».
Intanto, era andato a vuoto il più ambizioso dei sabotaggi: la distruzione della centrale idroelettrica delle Marmore Alte nella zona di Terni. L’arresto di Giuseppe Larese aveva portato a scoprire che queste sequenza di sabotaggi gravissimi era stata preparata nel quartier generale dell’Evidenzbureau a Zurigo, agli ordini del capitano di fregata Rudolph Mayer. Ufficialmente veste i panni da vice-console, in realtà considerato un fuoriclasse delle spie del regime austroungarico.
Ma tutte le altre operazioni di sabotaggio appartengono alla prima fase del conflitto, non si può dire che i giochi siano già fatti quando viene affondato l’ “Etruria” ma un po’ sì. Il motivo? L’entrata in guerra degli Stati Uniti fa pendere decisamente da una parte l’equilibrio strategico. E allora cosa? Forse non è un caso che sia stato scelto il porto di Livorno: doveva essere un “castigo” per l’Italia ma soprattutto per la città. E se c’entra qualcosa il fatto che Livorno era la sede dell’istituzione militare che formava gli ufficiali della Marina sabauda, forse c’entra anche un sospetto che nello stato maggiore austriaco aveva preso a serpeggiare. Però questa è un’altra storia: anzi, come in ogni spy-story, è anche la stessa storia. Una storia matrioska in cui l’una contiene l’altra…
L’immagine sotto il titolo: lo scassinatore livornese Natale Papini all’opera nel “colpo di Zurigo” in una tavola pubblicata dal “Notiziario della Marina Militare” (citata anche dall’articolo di Claudio Rizza su “Rivista militare”). Quella del post su Papini è una tavola di Walter Molino pubblicata dalla “Domenica del Corriere”
La seconda metà della storia la trovate qui
Lo scassinatore livornese in missione per conto degli 007 della Marina
Anche per me la Grande Guerra era quella di Caporetto e del riscatto del Piave sul nostro fronte nord orientale
…. incredibili scherzi giocano la memoria e la censura in quella che pochi anni dopo diventa nella memoria collettiva quasi a dispetto talvolta la Storia ….
Il gioco di rispolverare episodi del nostro passato scrivendo storie: senza aver la pretesa di interpretare la Grande Storia, ma magari con l’idea di fornire una luce laterale, incidente o radente. Ckme il luminol sulla scena del crimine. Un sassolino nella memoria, questo è il piccolo compito che mi sono dato adesso. Tutto qui