Some of the stories that I'd like to print (cit. Ochs feat. Zuc)
Tempo per la lettura: 6 minuti
Lo scassinatore livornese in missione per conto degli 007 della Marina

di Mauro Zucchelli

Il primo strillo lo avevano sentito tutti e già da quel giorno non avrebbe più potuto nascondersi agli occhi del destino: adesso a un bebè che viene al mondo il 25 dicembre lo chiamano Jacopo o Kevin, ma si era nel 1881 e figuriamoci se babbo e mamma Papini non lo avrebbero chiamato Natale. Sarà lui il protagonista di una operazione ribattezzata “il colpo di Zurigo” che a giudizio dell’allora capo di stato maggiore della Marina, Paolo Thaon di Revel, era stata talmente clamorosa e importante nella Grande Guerra da essere, parole sue, «l’equivalente di una battaglia navale vinta». Il miglior tiro mancino di una squadra delle forze speciali mai compiuto, altro che quanto combinano Phelps in “Mission impossible” o Doron nella serie tv “Fauda” (oltretutto senza sparare manco un colpo): e pensare che lui avrebbe voluto starsene tranquillo come un onesto scassinatore, ovviamente il più bravo che c’era sulla piazza.

Era il carnevale 1918 e però c’era poco da ridere, anzi niente: l’Italia era alle prese con una serie di sabotaggi che, ben lontano dal fronte più in là del Piave, avevano fatto saltare per aria importanti navi, grossi impianti, rilevanti infrastrutture. Bisognava fargliela pagare a quegli austriaci.

A dire il vero, fra italiani e austriaci tira un’aria che neanche fra interisti e juventini: anche se sono formalmente alleati nella Triplice Alleanza creata dal cancelliere tedesco Bismarck. Per farsi un’idea dello spirito dei tempi: gli austro-ungarici sono stati praticamente il nemico numero uno a scapito del quale Cavour ha costruito l’unificazione dell’Italia sotto i Savoia. Vienna ricambia con affetto: nell’Italia in ginocchio nel 1908 per il terremoto di Messina (80mila morti), lo stato maggiore austriaco incalza l’imperatore perché dichiari guerra a Vittorio Emanuele III e si sbarazzi una volta per tutte di quei tipacci a sud del Brennero.

Si potrebbe inzuppare l’amarcord nei ricordi di liceo e ripescare tutto il clima in cui matura la capriola italiana delle alleanze, con la nostra iniziale voglia di starcene fuori. Meglio invece tornare a guardare il mondo con gli occhi di Natale Papini.

Fosse arrivato cinquant’anni più tardi, non solo si sarebbe risparmiato due guerre mondiali e il fascismo nel mezzo: con la sua passionaccia per la meccanica, coltivata nell’officina del padre Olinto, magari sarebbe diventato una superstar fra i tecnici specializzati della squadra di Enzo Ferrari. Al fianco di talenti livornesi doc come Giotto Bizzarrini e Aurelio Lampredi, due ingegneri che hanno segnato un’epoca delle quattro ruote. Già, perché Natale Papini era targato Livorno anche lui: nato a contatto con quell’anima plebea che aveva le radici lì dove proprio in quegli anni il Comune avrebbe costruito il Mercato Centrale.

E qui bisognerebbe aprire almeno un paio di parentesi graffe. L’una: per dire che un po’ più tardi proprio quella zona del centro di Livorno alle spalle del duomo la sventeranno per farne la City finanziaria della città, sbattendo in periferia le classi “pericolose” (Shanghai). L’altra: per spiegare che i Papini non se ne andranno nelle nuove periferie nord ma prenderanno casa a ridosso del cuore antico della città, prima in via della Campana, poi in via Arena Alfieri, quindi in  via Monte Grappa e infine via Terrazzini.

Barsanti & Matteucci il motore a scoppio l’avevano già inventato ma è solo agli inizi del Novecento che l’automobile diventa qualcosa di reale. A cosa poteva appassionarsi un ragazzo con un talento naturale per la meccanica? C’erano soprattutto due tipi di meccanismi in grado di ipnotizzare uno come lui: gli orologi e le serrature, e siccome suo padre non faceva il gioielliere o l’orologiaio…

È al fascino discreto dell’arte di raccontare che aveva uno studioso come Ugo Canessa che dobbiamo la sottolineatura di quel che accade un bel giorno quando il Nostro sta per spegnere le candeline sulla torta dei suoi 35 anni. Chi bussa all’uscio al terzo piano al civico 8 di via dei Materassai (non lontano da dove oggi c’è la prefettura) non è uno qualsiasi: è il maresciallo Donateo. Non è uno qualsiasi per noi: miracolo vuole che nella galleria degli ex voto del santuario di Montenero (Livorno) uno dei più celebri sia proprio quello della canotta insanguinata del maresciallo di P.S. che la medaglietta della Madonna ha salvato dal proiettile del bandito. Non è uno qualsiasi neppure per Papini: lui querelerà poi chi gli ha voluto appiccicare addosso l’identikit da ergastolano, tuttavia la sua “arte” con le serrature deve averlo fatto diventare un “mago della casseforti” se, ricordandone i trascorsi in carcere, è così che lo raffigura anche la rievocazione fatta dal quartier generale dell’Aisi, il servizio di controspionaggio del nostro Paese. E tuttavia c’è chi tiene a ribadire che è una leggenda metropolitana creata da chi voleva “colorire” il personaggio di un fabbro così abile con le casseforti

Stavolta il maresciallo non gli fa tintinnare le manette davanti, anzi prende Natale come fosse un vecchio amico e Papini s’ammosca di qualcosa: non era mai capitato che i poliziotti venissero per una sbicchierata. Men che meno per invitarlo a casa di un altro sottufficiale, come se fra il clima delle feste e l’aria da presepe, ci fosse da fare il giro dei parenti. Qualcosa non quadra e Papini vorrebbe fare il riluttante, ma alla fine gli spiattellano il menù: lui ha le mani d’oro e tutti lo sanno, pure le guardie e perfino i loro capi, sicché nel faccia a faccia riservato in casa del maresciallo Antonio Russo in piazza Ss. Pietro e Paolo – è ancora Canessa che parla – trova l’agente segreto Bini e il comandante Pompeo Aloisi, una “barba finta” che sarà il responsabile del blitz. In realtà, anche quello è un incontro a metà: chi ha deciso di puntare su Papini è il questore di Milano, Domenico Falcettano, che Papini l’ha beccato quando lui era in servizio a Livorno. Al fabbro livornese propone di andare a scassinare una certa cosa e in cambio avrà onori e gloria, ma soprattutto tutto quel che troverà nel forziere, eccettuato i documenti. Oltre al fatto che si sarebbe chiuso un occhio su questo e quello: insomma, ci siamo capiti.

Quando gliela spiegano per filo e per segno Papini ha una sola reazione: scappare e tornarsene ai suoi audaci colpi dei soliti ignoti o, meglio ancora, starsene tranquillo a costruire letti in ferro nella sua officina. Di guai non voleva più saperne.

La narrazione – questa storia verrà raccontata sul Tirreno non solo da Aldo Santini ma anche da Roberto Riu e da Paolo Morelli, oltre che esser al centro di una delle “stanze” di Emanuele Barresi dedicate in teatro ai livornesi illustri, e poi libri e indagini, non sempre senza contraddizioni – mette in campo come nelle fiabe una sorta di percorso iniziatico della conoscenza: cioè, a dar retta a quanto spiegato gli storici del controspionaggio interno, a questo punto la riluttanza di Papini ha anche un motivo più pragmatico e concreto. C’è da infilarsi nel quartier generale delle spie asburgiche che gli 007 italiani ritengono il covo in cui si progettano i sabotaggi ai danni del nostro Paese: ok, ma il comandante Rudolph Meyer la cassaforte dei segreti l’ha messa al di là di sedici porte, ciascuna delle quali ben chiusa.

Non è tutto: Bini, spesso indicato come fiorentino o talvolta empolese, ma che alcuni segnalano come livornese, nella preziosa ricostruzione fatta su “Rivista Marittima” da Claudio Rizza, capo sezione archivi dell’Ufficio Storico della Marina Militare, se l’è squagliata in Svizzera dopo aver piantato il chiodo di un pacco di cambiali non pagate. È un tipo scaltro: si infiltra fra gli anarchici, poi va alla polizia svizzera, annusa il clima e va dagli asburgici a vendere i segreti italiani e quando ha conquistato la fiducia degli austriaci va a venderli agli italiani. Una babele di doppiogiochismo che incasinerebbe all’inverosimile il racconto. Lasciamo perdere, basti dire che Rizza riferisce come Bini voglia far fallire il blitz perché nelle carte degli agenti c’è anche il suo nome e che nel dossier pubblicato su “Gnosis” salta fuori una diciassettesima porta. Livornese comunque è anche il complice che, come unica condizione, Papini chiede di portare con sé: pare si chiamasse Cesare ma le cronache glissano e i report ufficiali sono reticenti oppure spariti o anche distrutti durante la guerra. Lui e Papini avevano falsi documenti forniti dai nostri servizi segreti:  l’uno era stato ribattezzato come De Luca e l’altro come Palazzo.

Fatto sta che il primo tentativo va a vuoto. Si fa la copia anche di questa chiave n. 17. Qualche notte più tardi nuovo assalto per arrivare alla cassaforte usando la fiamma ossi-acetilenica. Ci vuole il triplo del tempo, salvo scoprire poi che dal buco esce un gas venefico a protezione dei segreti. Papini è ormai un “ecce homo”, si tampona il viso con asciugamani bagnati ed è mezzo stordito dai gas.

Ma alla fine la cassaforte cede: lo scassinatore livornese vede che in mezzo alle carte (che tanto interessano i suoi amici militari) c’è anche un gruzzoletto di gioielli (che tanto interessa lui). Pensa che quella è la svolta della vita, finalmente la sua famiglia vivrà un futuro nel bengodi. In effetti, il servizio segreto della Marina mette le mani sulla rete di spie e sabotatori, Papini sui gioielli no: anzi, a fine guerra l’Italia sabauda farà il bel gesto di restituire al console derubato i suoi gioielli personali. Peccato che li avessero promessi a Papini.

Al fabbro-scassinatore andrà l’imperitura riconoscenza dello stato maggiore e tutt’al più 30mila lire, circa 62mila euro di adesso: Papini impara che la prossima volta invece di scassinare la sede delle spie austriache e rischiare la forca, se ne andrà in tv ai “Soliti Ignoti” per indovinare il “parente misterioso” da Amadeus.

La sua storia non finisce benissimo, e non solo perché gli piomberà sul collo un’altra guerra mondiale: non avrà nemmeno la pensione e negli anni ’50 in Parlamento ci sarà battaglia da parte di vari deputati per fargli avere un vitalizio. L’ultima beffa: morirà prima lui.

5 Comments

  1. salvatore ha detto:

    Natale Papini nell’immaginario collettivo di chi contava in quei tempi fu ripagato con la libertà pareggiando i conti con la giustizia, sicuramente fu ingannato economicamente. Oggi i disonesti in carcere possono studiare, non lavorare ed essere a carico della collettività, godono di sconti di pena con il patteggiamento in beffa ai danni prodotti alle vittime. Nessuno a Livorno gli ha dedicato una via. La Marina Militare 30 sett 2015 ha pubblicato sul Notiziario della Marina la storia.

  2. Fiorella Cateni ha detto:

    Inutile, sei scrittore nato. È un vero piacere leggerti. E quante storie reali e sconosciute. Grazie di cuore Maurozu…un abbraccio

  3. Sirio Grassi ha detto:

    Sei coinvolgente e puntuale come sempre, piacevole leggerti e scoprire.

  4. MarcoFilippi ha detto:

    Bellissima storia per me particolarmente coinvolgente.
    Mia nonna Iris Billi figlia di Amedeo (che, detto per inciso, avrebbe dovuto/potuto essere il nome di mio figlio Romeo) come mi hanno sempre raccontato i miei familiari visse la sua sventurata infanzia e preadolescenza da orfana proprio in casa PAPINI in via dei Terrazzìni … nei nostri racconti familiari PAPINI è sempre stato un mito e una sorta di orgoglio familiare oltre che nel caso di specie un vero benefattore
    Grazie Mauro

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Potrebbe interessarti

In evidenza

Categorie