Some of the stories that I'd like to print (cit. Ochs feat. Zuc)
Tempo per la lettura: 4 minuti
Dimenticare mai/2. L’ironia stralunata del prof deportato: così cercava rifugio contro gli orrori

In mostra a Villa Trossi Uberti i disegni del prof. Luciano Castelli, per anni preside del liceo sperimentale Cecioni a Livorno: così un internato di 23 anni cerca di non far imprigionare la propria dignità

di Mauro Zucchelli

 

C’erano una volta i disegni degli internati nei lager che raccontano l’Olocausto nella crudezza atroce per denunciarne la disumanità: li avevano lasciati rimpiattati nelle intercapedini, sotto i letti, dentro quando nascondiglio possibile. Confidando in un mix di speranza: che qualcuno li avrebbe trovati e che, almeno loro se non chi li aveva fatti, sarebbero sopravvissuti fino a quel momento. Dunque: “quel momento” non soltanto sarebbe arrivato ma l’avrebbe fatto abbastanza presto, prima che quelle testimonianze si deteriorassero e smettessero di “parlare”. Un grido disperato come quello dell’omino di Munch: gli esempi non si contano, tanto come libri che come mostre.

Ma c’è anche l’esempio di chi, come Giorgio Allori, catturato dai nazisti dopo l’8 settembre ’43 quand’era un ventenne livornese all’accademia degli allievi ufficiali dell’esercito: adesso ha superato i cento anni e per lunghi decenni ha tenuto nascosto in un cassetto il quaderno che gli ha detto compagnia nelle peregrinazioni di lager in lager. Pensieri sparsi e anche ricette di ogni ben di dio per raccontarsi cosa ci si sarebbe cucinati alla prima occasione di poter fare cuccagna. Il pezzo di carta che diventa la proiezione del sogno: del fatto che ti hanno imprigionato il corpo ma il tuo cuore ti porta là dove non ci sono catene (e nemmeno aguzzini). L’abbiamo visto con i disegni dei bambini del lager di Terezin.

È in questo filone che possiamo collocare la mostra di disegni e documenti che a Livorno, nelle sale della bella villa di via Ravizza, la Fondazione Trossi Uberti dedica a Luciano Castelli in occasione della Giornata della Memoria. L’abbiamo incrociato tanti tanti anni fa come prof: qualcuno di persona, altri come autore del manuale di latino. L’abbiamo conosciuto come preside del Secondo Liceo Scientifico di Livorno, diventato poi una delle sperimentazioni più interessanti dell’istruzione superiore con il liceo intitolato al matematico Francesco Cecioni. L’abbiamo scoperto come pittore, basti ricordare che ha presentato le sue opere anche alla Biennale di Venezia nel 1950.

Ma pochi ne conoscono il lato da disegnatore, un tratto ironico quasi da vignettista: l’esposizione di Villa Trossi Uberti consente di scoprirne questa dimensione. Quel che lo porta qui è l’aspetto singolare di questa cosa: i tratti anche buffi di questi quadretti di vita quotidiana riguardano il periodo della sua deportazione in un campo di lavoro del Terzo Reich hitleriano.

La selezione e l’elaborazione dei materiali e del video intervista a Francesca Castelli è stata realizzata da Farah Vece nell’ambito di un tirocinio curricolare per il corso di laurea in scienze dei beni culturali del Dipartimento di civiltà e forme del sapere dell’Università di Pisa, con il coordinamento della prof. Antonella Capitanio.

È una rassegna di queste situazioni in cui compare un tipo magro e un po’ stralunato con un bel naso, tant’è che girava un soprannome “Marabù” per una buffa rassomiglianza con l’uccello africano. Figurarsi che la situazione al campo di Kirchmoser è tale che lui si raffigura in cima a un castello di letti a cinque piani o in alto su una lunghissima scala che buca le nuvole. Non basta: lo mettono in un ufficio a far da contabile e lui, anziché tirarsela comunque, dice che faceva poco o nulla finché a un certo punto per una serie di errori arriva un capoufficio a dirgli che lo sbattono fuori (per curiosa coincidenza proprio mentre Marabù è costretto a nascondere la caricatura che stava facendo al suo superiore). Lo trasferiscono a fare il pompiere e Castelli si disegna a cavalcioni di un tetto mentre in un rogo cuoce il proprio pranzo. È la verve che mette quando lui prigioniero si immagina a tavola con ogni leccornia possibile o ancora, parecchio stranito, si vede assediato da qualunque arma possa esistere.

Come Allori aveva reagito annotando le ricette più gustose, così Castelli aveva utilizzato l’arma dell’ironia per mettere fra sé e il campo di lavoro una barriera protettiva. Se vi sembra troppo scontato il riferimento all’ironia indistruttibile di Guido Orefice (Roberto Benigni) in “La vita è bella” basta che googliate “disegni lager” per accorgervi quali imperscrutabili giri compia la mente per mettersi al riparo dall’orrore che non cessa di essere orrore. Nessun ridimensionamento di quel che resta atroce, è semmai l’idea che neanche nell’ultimo girone dell’inferno c’è qualcosa che possa cancellare quel “quid” di dignità umana che è in ciascuno, e il sorriso non è una sciocchezza bensì l’arma più potente. A patto ovviamente di essere nella condizione di poterlo fare.

Cosa era accaduto a Castelli? Qualcosa di così semplice e così terribile in quell’estate ’44 con i tedeschi che rastrellavano i civili a ridosso della linea gotica (anche a suon di stragi pianificate): lui ventitreenne aveva fatto quel che aveva fatto la gran parte dei livornesi, era sfollato in campagna come nove cittadini su dieci. Era dalle parti di Avane, nella zona di Vecchiano: l’avevano beccato in cammino in direzione di Lucca.

Era solo nel posto sbagliato al momento sbagliato: era un giovane qualunque che non aveva motivo per essere considerato un “nemico pericoloso” da parte delle truppe hitleriane, visto che non era un militare alleato prigioniero di guerra in fuga e non era un oppositore politico, e nemmeno era ebreo. Semplicemente era un essere umano vivente: ma quelli sono anni terribili e devastanti per ogni paradigma di umanità, sicché di fronte a un destino tanto inspiegabile dove si “muore per un sì o per un no”, come gridano un verso di Primo Levi che apre “Se questo è un uomo”: l’arbitrio eretto a normalità quanto il sopruso, la precarietà dell’esistere che diventa abitudine. Sono disegni trasognati raccolti in una “autobiografia” messa insieme nel 50° anniversario della fine di una tal odissea, nel ’95.

 

 

4 Comments

  1. Massimo Bianchi ha detto:

    Conoscevo il Preside non l’artista.Grazie

  2. Laura Bandini ha detto:

    Luciano Castelli è stato un personaggio straordinario. Ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente e di apprezzarne ,oltre alla vastissima cultura, l’umorismo tagliente e la battuta pronta .Mi fa molto piacere che lo si ricordi, ha dato così tanto a questa città.

    1. Mauro Zucchelli ha detto:

      Io invece non l’ho conosciuto bene se non come tutti dall’esterno, diciamo così. A distanza di 30 anni mi ricordo ancora parola per parola una stupidaggine che scrissi, così scioccamente ideologica. Avevo l’attenuante di essere un cronista ancora alle prime armi…

  3. Maurizio. pannocchia@gmail.com ha detto:

    mi dispiace sapere solo oggi 20 marzo 2024 della nostra dei disegni del prof Luciano . Non è un caso che Francesca e Paola Previti mi regalarono il libro ” se questo d’un uomo, ”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Potrebbe interessarti

In evidenza

Categorie