Some of the stories that I'd like to print (cit. Ochs feat. Zuc)
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Noi e i nostri trisavoli di Aleppo: l’ultra-terremoto ha picchiato più vicino di quanto dica la geografia

Il filo rosso fra il cuore multicolore di Livorno, le radici levantine di Aleppo e le lapidi in arabo fuori dal santuario della Madonna di Montenero

di Mauro Zucchelli

La soluzione ce l’avevo avuta sotto gli occhi. Come Auguste Dupin la “lettera rubata” di Edgar Allan Poe: solo che un conto è vedere e ben altra cosa è guardare, e l’ingresso del santuario di Montenero l’avevo visto chissà quante volte ma senza che la vista diventasse sguardo.

Mi ci sono voluti giorni e giorni per capirlo, e allora bisogna cominciare là dov’era iniziata: covavo l’idea sommersa e indecifrabile che non so come sentivo il terremoto in Turchia come fosse avvenuto all’uscio di casa. Uno sconquasso ben più vicino della guerra in Ucraina che pure, è ovvio e inevitabile, occupa militarmente da un anno intero ogni discorso pubblico. Eppure la terra trafitta dal terremoto è quasi mille chilometri più lontana di Kiev: come si spiega che, alla fin fine, devo confessare che l’eco dei cannoni lo sento molto più distante di quei palazzi crollati e muti?

La mappa delle placche tettoniche: in quell'area se ne incrociano quattro

Di fronte all’apocalisse incombente, fuori da ogni mia capacità di intervento – le scellerate regole dell’aggressività militare degli uomini, da un lato, e la sconvolgente forza della natura, dall’altro – mi sono rincantucciato in una giustificazione rassicurante il giorno in cui ho sentito al tg una cadenza chiaramente toscana nel susseguirsi di testimonianze di vigili del fuoco impegnati laggiù, fra le macerie. Prima Massimiliano Porcu, pompiere pisano, poi Simone Olivieri, livornese, ai microfoni dell’inviato Rai, quindi Giulia Paolinelli, infermiera del 118 labronico, nelle cronache del Tirreno. Ecco cos’era: l’orgoglio di sentire che, per quanto io sia piccino picciò nelle mie piccole cose quotidiane da “umarell” con il naso affacciato ai cantieri altrui, la mia gente ha avuto il cuore di andare laggiù a mostrare che siamo solidali. Rimasti finalmente human, prima che hungry e foolish come da cit. firmata Steve in maglioncino cool.

Mi sbagliavo, non era lì la radice di quel ravoglio che mi girava in testa. L’ho capito il giorno in cui, forse inciampando nello scalino o, al contrario, forse per evitare di farlo, il naso l’ho quasi sbattuto in qualcosa a lato dell’entrata nel santuario che mette Livorno ai piedi del manto d’un blu straordinario di una icona mariana trecentesca: nel 2006 ho potuto osservare a meno di un metro, con il restauratore Fausto Giannitrapani che mi indicava i buchi dei chiodi dei gioielli appesi e gli sfregamenti causati dal dondolio durante le processioni (i preziosi sparirono con l’audacissimo furto dei soliti ignoti nell’estate 1971).

Davanti al naso, cosa? Quel qualcosa sono tre lapidi monumentali: in fondo al portico ce n’è perfino una dedicata a Agustin de Iturbide, leader politico-militare che conquistò l’indipendenza per il Messico all’inizio dell’Ottocento, una specie di Napoleone centroamericano che divenne imperatore dalle Montagne Rocciose al Costarica e, una volta deposto dai giacobini, se ne venne in esilio a Livorno per scrivere il “manifiesto de Liorna” che avrebbe dovuto riportarlo in sella. Era «hijo fiel de Mexico e de la Iglesia catolica», dice la lapide che porta la data del 2005. Ma quella che interessa me non è questa: sono le tre in cui il marmista, dopo il “qui riposa” ha inciso anche una lunghissima iscrizione in arabo.

E già qui c’è da sottolineare un aspetto che abbiamo perso per strada nell’idea che abbiamo di noi città multietnica: i levantini. Per dire: nella legge-manifesto di Ferdinando I sono citati al primo posto dell’elenco, gli ebrei all’ottavo. Anche se è l’atteggiamento verso gli ebrei l’emblema di quell’apertura: ed è sacrosanto, visto che le “livornine” del granduca renderanno Livorno la città senza ghetto (e già da mezzo secolo il casato fiorentino ha preso provvedimenti, con Cosimo I marito di quella star che è Eleonora di Toledo, per richiamare a Livorno gli ebrei e proteggerli, mentre altrove si creava il Sant’Uffizio per reprimerli ancor di più). Beninteso, non facciamoci illusioni: l’ha messo in rilievo Tamar Herzig, prof all’università di Tel Aviv, in un saggio sull’ “American Historical Review”, rivelando come il primo “sindaco” di Livorno nel 1610 avesse orchestrato il rapimento di un gruppo di ragazze ebree per farne schiave e chiedere un riscatto alla comunità ebraica labronica.

Chiusa parentesi: torniamo ai levantini e alle nostre lapidi monteneresi. Ce n’è una del «cavaliere Giovanni marchese d’Andrea maronita nato in Aleppo nell’anno 1770»: nel 1839 «dal bagno di Casciana presso il monte Parlascio ove cercando all’egro corpo salute trovò la morte». Le altre due si riferiscono invece al casato dei Ghantuz Cubbe, anch’esse in quegli stessi anni in cui la città conosceva uno straordinario sconvolgimento del proprio volto: con l’ampliamento del porto franco, le nuove mura e lo sfondamento del limite del Fosso Reale (con le piazze-ponti sul Voltone e l’attuale Cavour), il teatro Goldoni, l’inizio della trasformazione del lungomare e una fase politica rivoluzionaria culminata nella difesa dall’attacco degli austriaci.

Ghantuz Cubbe non è un nome del tutto sconosciuto: dovremmo ricordarci che proprio in quello stesso periodo la nuova diocesi livornese appena istituita (nel 1806) aveva avuto come vescovo Raffaello Ghantuz Cubbe, classe 1772, radici maronite nel cuore siriaco di Aleppo, pastore della Chiesa cattolica livornese dal 30 giugno 1834         alla morte nel dicembre di sei anni più tardi. Un episcopato breve e contrassegnato dalla malattia: ma anche con l’epidemia di colera che colpisce duramente la città (e con la decisione di costruire la chiesa di Santa Maria del Soccorso per celebrare lo scampato pericolo).

Nel frattempo, come ricorda la raccolta dei blasoni delle famiglie toscane dell’araldista conte Enrico Ceramelli Papiani, questa famiglia presente a Livorno dagli inizi dell’Ottocento aveva visto il vescovo e il fratello Luigi «ammessi alla nobiltà livornese nel 1836» con uno stemma che mette insieme una torre e un albero. In realtà, gli studi di Guido Bellatti Ceccoli portano indietro di un bel po’ queste date: dice che la famiglia Cubbe giunge a Livorno attorno al 1776-1778, due anni più tardi nasce la Ditta Antonio Ghantuz Cubbe & Figli, già nel 1818 una bolla di Pio VII riconosce ai Cubbe il titolo di marchesi.

Questa stessa ricerca sulla presenza degli arabi cattolici a Livorno messa nero su bianco da Bellatti Ceccoli indica che è da prima della metà del Settecento che i maroniti hanno messo radici a Livorno. C’è una doppia sottolineatura relativa all’attività dei corsari di parte cattolica che avevano fatto del porto labronico il proprio campo-base, ma quest’idea di una contro-pirateria “di Stato” su mandato del granduca che rispondesse per le rime ai pirati barbareschi abbiamo forse preferito dimenticarcela perché fa un po’ a pugni con l’immagine che vogliamo tenerci della nostra città.

Fatto sta che: 1) nel 1712 il granduca aveva fatto restituire a un mercante maronita la merce che i nostri “santi” corsari gli avevano depredato nei mari di Terra Santa; 2) questo non toglie che l’anno successivo un sant’uomo di corsaro livornese, il capitan Franceschini, depredi il mercante maronita Giuseppe Francesco. Il primo insediamento di un padre maronita all’ombra della Fortezza Vecchia viene indicato nell’arrivo di Girunimus Nunziata di Aleppo nel 1734 qui da noi. Tempo due anni ed eccolo ufficialmente incaricato come «primo regio confessore degli orientali di lingua araba». È ancora lui ad avere la prima nomina come cappellano quando, grazie al testamento di Niccola Frangi viene istituita la cappellania araba. Di lì a qualche anno arriva anche un altro religioso maronita, padre Diab, a prendersi cura dei cristiani di parte araba.

 

Lo sbarco dei Cubbe a due passi dai Quattro Mori – viene sottolineato – fa capire quanto «Livorno, nel tardo Settecento, potesse essere una città interessante per stabilirvi il fulcro di una attività commerciale internazionale»: l’impresa di questa famiglia realizzava da Aleppo «rilevanti scambi con l’India e la Cina e anche, più in generale, fra l’Europa e l’Asia».

Riccardo Burigana, per anni al timone del centro ecumenico labronico nato sotto le insegne del vescovo Alberto Ablondi, mette l’accento sul fatto che «la storia religiosa di Livorno  costituisce un caso pressoché unico nel panorama europeo dell’età moderna e, per certi versi, della storia contemporanea».

Non è soltanto a Montenero che sono rimaste tracce della presenza arabo-cristiana: la mappa dei riferimenti locali di questo tipo di comunità comprendeva anche la chiesa della Madonna e quella di Santa Caterina. E soprattutto quella del Rosario: anzi, della “Santissima Vergine del Rosario della Valle di Pompei”. Al suo posto, ora vediamo la chiesa di via Mangini. Quella siro-maronita non c’è più: paradossalmente ha ottenuto il riconoscimento come parrocchia solo nel 1900 (e addirittura l’elevazione al rango di santuario negli anni ’20), quando ormai la presenza reale di siro-maroniti era in declino. Anche se era dal 1889 che il vescovo livornese aveva accettato di istituire un oratorio in quella che allora era via delle Siepi.

La parrocchia maronita sparisce appena prima della guerra. Forse i danni bellici o, ancor di più, forse per il drastico assottigliarsi della presenza di esponenti mediorientali cattolici escono di scena anche i mattoni di quell’edificio sacro: ne nascerà uno nuovo negli anni ’50. Con la leggenda popolare che vuole in cima al campanile attuale le ex campane di quella piccola chiesetta ad uso della gente di Aleppo e dintorni.

Non era il valore architettonico in sé bensì quello culturale-religioso multietnico a contraddistinguere quella piccola parrocchia nel puzzle di soggettività che animavano la Livorno di un tempo. La convivenza fra popoli differenti – sia chiaro, tutt’altro che rose e fiori – si era materializzata nell’esperienza straordinaria di quella città che è stata Livorno. Ha ancora molto da raccontarci adesso: il Novecento e anche l’inizio di questo nuovo secolo ci hanno raccontato quanto sia radicata l’idea di estirpare con la violenza la possibilità di far vivere l’una accanto all’altra, con tutte le gomitate e gli sganassoni inevitabili, varie culture, realtà, tradizioni.

Ce lo racconta anche nell’oggi di questo terremoto che, guardando alla sola fascia colpita da danni gravissimi, ha interessato una striscia di territorio più grande della Toscana e dell’Umbria messe insieme. Lungo una doppia grande faglia, e questo ha a che fare con le scienze della terra. Al crocevia fra il confine turco, le frontiere dello stato siriano, i territori in mano agli islamisti delle varie fazioni, fino a toccare in parte anche alcune zona sotto controllo curdo: e questo ha invece molto a che fare con guerre e dittatori. Perfino di fronte a un’apocalisse così terribile gli aiuti sono diventati l’occasione per giochetti diplomatici e strumentalizzazioni geopolitiche: l’ennesima riprova dell’abisso verso il quale stiamo correndo con il mondo che torna a spaccarsi in blocchi contrapposti con nuove “cortine di ferro”.

 

 

15 Comments

  1. lucyluxλουτσια ha detto:

    Ampia conoscenza della storia locale e desiderio di portare alla luce aspetti poco conosciuti della realtà livornese sono i punti di forza di quest’ultimo articolo!! Grande!!

    1. Mauro Zucchelli ha detto:

      Ampia no, desiderio di trovare cose sì. Grazie mille

  2. Ivo ha detto:

    Grande Mauro come sempre!

  3. Maurizio Vernassa ha detto:

    Ottimo! A proposito di Augustin de Iturbide ti devo mandare un mio articolo.

    1. Mauro Zucchelli ha detto:

      Iturbide è stata per me montenerese una scoperta recente

    2. Mauro Zucchelli ha detto:

      La lapide di iturbide è stata una scoperta recente. Per caso

    3. Mauro Zucchelli ha detto:

      Manda il tuo articolo, mi farà un gran piacere leggerlo. Se ti serve la mia mail è zucchelli.m@virgilio.it

  4. Pardo Fornaciari ha detto:

    Bell’articolo; mi ha commosso la citazione da Guido Bellatti Ceccoli, un caro amico scomparso, per me, ieri, anche se è stato una decina d’anni fa

    1. Mauro Zucchelli ha detto:

      Non lo conoscevo, è stato una sorpresa anche per me. Crediamo di sapere almeno grossomodo il nostro passato e invece ci sono praterie fuori dal radar

      1. pardo ha detto:

        poi son andato a vedere, e se n’è andato nel 2017. Ma il 20\21 di pandemia ha scombussolato anche la memoria storica

  5. Laura Bandini ha detto:

    Imparato cose. Grazie

    1. Mauro Zucchelli ha detto:

      Anch’io, cara prof. Io so poco ma dal mio mestiere ho imparato che prima delle risposte (che non ho e cerco solo di cercare) vengono le domande.

  6. Andrea ha detto:

    Pezzo davvero interessante. Mi hai fatto venire voglia di andare a dare un’occhiata al Santuario. Mi resta una domanda: che vuol dire ravoglio? Ciao

    1. Mauro Zucchelli ha detto:

      Dicesi ravoglio: dial. confusione, bailamme, soqquadro. Credo sia un termine toscano, in particolare versiliese. Io la conoscevo come rovoglio ma non è contemplato dal dizionario. Gliuommero come Gadda del commissario Ingravallo?

    2. Mauro Zucchelli ha detto:

      Quanto al santuario, il prof. Vernassa mi ha mandato un chiarimento su iturbide. Pensi che farò una extended version con gli aggiornamenti: di levantini c’è anche Ciribì…

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