Esattamente dodici anni fa, la “sua” gente dava l’ultimo abbraccio a Luciano De Majo, indimenticato cronista del Tirreno. E’ il mio fratello più piccolo, quell’addio è stato la summa theologica di una esistenza dalla parte giusta, vissuta con ironia e generosità: soprattutto mettendo insieme “1500 mondi” che presi a sé non si sarebbero nemmeno parlati (“istituzioni e immigrati, no global e parrocchie nell’abbraccio dell’ultimo giorno”) Lo segnalavo così sul Tirreno di quel giorno.
di Mauro Zucchelli
Vedi alla voce: cuore. Singolare (perché ognuno è sé stesso e nessun altro) eppure plurale (perché basta tenerlo spalancato ed ecco che tante facce, fatiche e storie ci s’infilano dentro). Luciano De Majo era fatto così: invece di chiudere la porta blindata di sé stesso aveva lasciato la chiave nella serratura e aveva permesso al mondo di entrare, di invaderlo. Nel giorno dell’ultimo abbraccio, quest’invasione non si moltiplicava per dieci, per cento e per mille. Non solo folla, numero, quantità: ognuno con una storia, un aneddoto, un qualcosa. Un “pezzetto” di Luciano da rivendicare per sé e portarsi a casa.
Neanche tutta l’area attorno alla camera mortuaria dell’ospedale ce la fa a contenere l’alluvione di gente che vuole accompagnarlo nel viaggio più difficile: quello del distacco definitivo, del vascello senza ritorno in partenza da Orfalese. Ecco che l’onda di piena tracima sul marciapiede e poi sul viale Alfieri. Più di millecinquecento persone, forse molte di più.
C’è il sindaco Alessandro Cosimi, che con Luciano ha diviso litigate e politica fin da quand’erano appena ragazzi ed erano andati in Sicilia nella primavera dell’antimafia. C’è il senatore Marco Filippi, che giocava a tennis con Luciano vestito con una maglietta falce & martello talmente singolare che in un circolo un po’ conservatore volevano vietargli di indossarla («è la bandiera di uno stato nazionale sovrano», disse Luciano con facciatosta inox). C’è Nereo Marcucci, il potente numero uno di Assologistica che raggruppa la grande imprenditoria privata nazionale dei porti: quanti bisticci con Luciano su riformismo, diritti e mercato.
Ci sono il procuratore capo Francesco De Leo e il pm Antonio Giaconi. Ci sono i carabinieri il comandante Francesco Zati e il responsabile del radiomobile Claudio Gallù, per la questura il vicequestore Paolo Rossi e il capo delle volanti Stefano Caroti con Luca Filippi e Luigi Canu, per la Finanza Claudio Vallati responsabile della sezione di polizia giudiziaria. Ci sono il presidente della Provincia Giorgio Kutufà e il sindaco di Collesalvetti Lorenzo Bacci, ex timonieri dell’Authority come Roberto Piccini, ex parlamentari come Annamaria Biricotti e Marida Bolognesi, ex sindaci come Gianfranco Lamberti, intellettuali come Emanuele Rossi.
Una lista infinita di politici e amministratori di sinistra (come Alfio Baldi e Nicola Solimano, Mario Tredici e Carla Roncaglia, e poi Bogi, Di Rocca, Trotta, Gangemi, Ruggeri, Mannucci, Bufalini…) ma anche di destra (come Ghiozzi, Capuozzo e Vaccaro, per citarne alcuni). C’è la “gente” di Luciano: il popolo delle cantine remiere e quello dell’associazionismo Arci e antifascista, c’è la galassia dei partigiani Anpi e c’è un po’ di mondo baskettaro, ci sono gli anziani dell’Auser, le organizzazioni degli inquilini, il volontariato sociale, i pacifisti e gli obiettori di coscienza come lui. Ci sono gli immigrati e ci sono gli amici del Fantacalcio (manco a dirlo, la sua squadra era una “Dinamo” ultracomunista). C’è tanto sindacato: compreso un gruppo di operai del Cantiere, che sono stati suoi compagni di viaggio negli anni della cooperativa.
C’è la tribù dei giornalisti: noi del Tirreno — dal più giovane praticante fino all’amministratore delegato passando per tanti cronisti di redazioni anche lontane — e i colleghi della Nazione più qualche ex del Corriere di Livorno, senza contare il giornale della diocesi “La Settimana” o Granducato tv e gli ex di Radio Flash, come pure il mondo fiorentino dell’Unità e dell’Agi…
Ci sono i no global e ci sono i ragazzi di parrocchia. Fra i ricordi che l’arcipelago antagonista gli dedica sul proprio sito spunta un fotogramma: in un consiglio comunale incandescente per la contestazione dei centri sociali, De Majo guarda malissimo uno di loro e gli dice «Se c’era Alì Nannipieri vi arrestavano tutti». Controreplica: «Forse sì, Luciano, ma di sicuro ti sarebbe dispiaciuto».
Salta fuori una battuta che circola fra i suoi amici: «Solo per Berlinguer ci sono state più suore che hanno pregato per un comunista». Stanotte all’abbazia di Sept Fons, il più importante monastero trappista di Francia, la messa sarà per Luciano. La sua sfida al tumore l’hanno accompagnata anche le liturgie al santuario di Montenero e alla clausura carmelitana di Antignano, oltre che in alcune parrocchie.
Tutti pezzi di città che non si incrociano neanche per sbaglio, che non si parlerebbero nemmeno per telefono. Luciano ce l’ha fatta a metterli insieme. E non si creda che fossero lì, alla camera mortuaria o al cimitero, solo per dovere istituzionale: ai Lupi spuntano i gonfaloni, ma sono uomini e donne in carne e ossa, non uniformi o fasce tricolori.
Guai però a pensare che Luciano sia stato un po’ di collante neutro da spalmare: buono come la nutella sul pane di Nibbiaia e stop. Fosse stato così, non gli avrebbero una volta rovistato nell’auto senza rubare nulla, un’altra bucato le gomme e una terza sfondato i vetri. Fosse stato così, non gli avrebbero detto che quei nomi (regolarmente finiti sul giornale) doveva scordarsi di pubblicarli.
Se domenica mattina il cielo lacrima pioggia, ieri c’è un bel solicchio primaverile a stiepidire lo gliòmmero del dolore nel D-Day dell’addio. Il carro funebre della Svs porta il feretro al cimitero dei Lupi, zona tempio cinerario: lo lascia all’ingresso della sala del commiato. Appena la vettura lascia libero la piazzetta, quasi per riflesso il mare della folla fa qualche passo avanti e si stringe attorno a quel parallelepipedo di legno lucido. Più vicino, ancora più vicino: se non è un abbraccio questo…
Luciano l’addio al “suo” Cantiere l’aveva dato con l’ultimo pezzo che ha scritto: adesso sono gli operai a restituirgli il saluto con le parole di Maurizio Pracchia («le persone come lui non muoiono, si sono solo allontanate: ne terremo vivo il ricordo»).
Roberto Bernabò, direttore del Tirreno, ricorda che «Luciano mi piacque subito: di Livorno mi colpì come la conoscesse in profondità, come quei vecchi capocronisti che le hanno viste tutte. Aveva in mano storia, personaggi, retroscena». Non solo: «Più di tutto lasciò il segno dentro di me la volontà di mettersi in gioco pur di tentare di fare il giornalista al Tirreno, anche se fosse dovuto passare da un contratto a tempo che lo avrebbe costretto a rinunciare a un lavoro a tempo indeterminato che invece aveva».
La presenza di “don” Paolo Razzauti è fuori da ogni protocollo: non s’era mai visto un prelato di questo “grado” (vicario per la città) a un funerale civile, senza rito religioso. Anzi, un precedente c’è e forse solo qui poteva esser possibile: è il vescovo Ablondi che “celebra” le esequie civili della senatrice comunista Edda Fagni facendosi il segno della croce.
Razzauti descrive Luciano come «un cercatore»: di notizie, di storie, di persone. In «cerca degli altri» ma anche dell’ultimo altrove di sé stesso: il rapporto di un non credente alle prese con Dio, soprattutto con Cristo. Tutto nasce — racconta — una sera di acquazzone in cui don Paolo si vede piombare in duomo un tipo imbacuccato. Era Luciano: curioso di capire cosa c’era davvero dietro quel che in una intervista gli aveva detto lui, prete, amico d’infanzia di suo padre. Di fronte a questa morte anche Razzauti resta senza fiato sull’uscio di quel “perché?”: «Non c’è sapienza umana che ci dia risposta, come credente io credo che il Signore accoglierà nella sua pace come uomo giusto. E per questo gli dico: arrivederci».
Si rivolge al cielo anche il sindaco Alessandro Cosimi: lo fa, piegato dai singhiozzi, quasi gridando che «veder finire qui il progetto di vita di Luciano, con la sua famiglia e questi due bimbi meravigliosi, è una enorme ingiustizia». E, ricordando gli anni in cui lui era segretario Pds e Luciano giornalista dell’Unità, aggiunge: «Aveva una interezza talvolta difficile, finanche a scontrarsi» ma «era buono e voleva bene alla gente: gli interessava unire invece che spaccare». Soprattutto: «Lo chiamo compagno perché voleva cambiare talmente lo stato di cose presente che per primo voleva mettere in gioco sé stesso». L’aveva fatto — rincara — «senza chiedere certezze né garanzie, con coraggio».
Ora resta la voglia di non disperdere questo tesoro, in una città che spesso si accapiglia sul nulla. Chissà come: se lo chiedono politici, amministratori. Con quel sorrisetto beffardo che perfino ieri gli sbucava sul viso dentro la bara, potrebbe ripescare da quel libro di Giorgio Caproni il “Biglietto lasciato prima di non andar via”: «Se non dovessi tornare / sappiate che non sono mai partito».
(da: Il Tirreno, 22 febbraio 2011)
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