Nel lettino di oncologia sembrava il Cristo del Mantegna: l’icona di ogni persona crocifissa dalle sofferenze. Con coerenza e leggerezza, comunista nel nome di Gaber: si può esser vivi e felici solo se lo sono anche gli altri
di Mauro Zucchelli
Hanno tanto guardato il mondo — scrutandolo, scandagliandolo, svelandolo — gli occhi del mio fratello Luciano: quel mondo che non somiglia a lui. L’ultima volta che li ho visti, quegli occhi erano spenti: così, almeno, apparivano nel letto di oncologia ieri mattina. I capelli e la barba incredibilmente più scuri del solito, il viso più scavato di sempre senza le gotone rassicuranti.
Era lui e non era lui: l’ultima trasfigurazione l’ha così rassomigliato a un viso palestinese. A lui, uomo con radici ostinate e contrarie, sarebbe piaciuta quest’idea bislacca di sentirsi senza terra né patria. Invece no: sembrava il Cristo morto del Mantegna. Un gesùcristo icona di tanti povericristi che ha raccontato giorno dopo giorno: crocifisso dal tumore — il male che riassume in sé tutti i mali — come se nell’ultimo spizzico di esistenza non gli fosse bastato più scrivere delle rabbie e delle sofferenze dalla parte dei diseredati, come se avesse voluto condividerle nella carne e nelle ossa.
L’aveva già fatto da genitore: aveva saltato monti e attraversato mari per adottare, insieme alla moglie Valeria, prima Alessandro e poi Teresina. Se il rapporto con l’altra metà del mappamondo era sempre stato stretto a doppio nodo fin dagli anni delle responsabilità al Centro per la Pace, adesso non l’aveva più tenuto al di là dell’uscio: l’aveva fatto entrare in casa e ne aveva fatto la cifra dell’esistenza.
Il risultato è stato un mix fatto di tre ingredienti: 1) è prima di tutto a sé stessi che bisogna chiedere rigore e dirittura morale, diceva, perché è così facile mettersi su un panchetto a far la predica agli altri; 2) per dividere a metà con gli altri i guai e le speranze non c’è che da tenere aperta la porta, cioè le orecchie, e ascoltare cosa hanno da dire (e forse qualcosa di più: il gusto e la curiosità, anche dispettosa e ironica, di farlo); 3) non bisogna tirarsela tanto in lungo con l’aria di fare i guru, aveva quasi teorizzato l’insostenibile leggerezza della testimonianza. Da cronista, da uomo, da genitore.
Con leggerezza proprio perché con la schiena dritta. Imitava proprio bene la cadenza di D’Alema quando ricordava quella volta che, sotto il sole a palla della festa dell’Unità, il “lìder maximo” aveva pensato di metterlo a cuccia dicendogli che lui era già un big della sinistra quando «lei, caro signor giornalista, portava ancora i pantaloni corti». Qualche ruvidezza e i toni sopra le righe, forse li avrebbe accettati da un chissàchi: da un potente, no. Tempo un nanosecondo, gli rispose che «caro signor segretario, i pantaloni li avevo lunghini e comunque ero corrispondente del giornale di cui lei era direttore».
Ma dietro quest’aneddoto c’è anche un altro tassello del puzzle di Luciano (che ha fatto tappa anche al Cantiere nell’era della coop): una gavetta che l’ha portato, nella carta stampata, al “Telegrafo”, all’“Unità” (nell’edizione toscana di “Mattina”) e poi al “Tirreno”; nelle agenzie di stampa all’Agi; nel web a fondare il quotidiano on-line “Greenreport” con la Eco; nelle emittenti radiofoniche a Radio Flash e alla lunghissima striscia di appassionate radiocronache di basket che ne avevano fatto un punto di riferimento per il popolo della palla a spicchi.
Anche qui casca a fagiolo un altro aneddoto che racconta come la verve umana gli facesse bucare limiti e barriere: durante un viaggio negli States, il suo pellegrinaggio di baskettaro incrocia un match dei Los Angeles Lakers. Fine partita, Kobe Bryant si avvicina al pubblico: Luciano lo aggancia per dargli «i saluti di Livorno» e di un comune amico. Finirà che il divo del basket Nba se lo porta a cena con Shaquille O’Neal e il resto dei giganti giallo-viola…
Bisognerebbe raccontare qui il suo mestiere di cronista: ricordare di quando, in una notte di mezz’estate di quattro anni fa, scoprì il rogo che si era portato via quattro bambini rom; di quando, nel giugno 2007, in una inchiesta sulla massoneria deviata scoprì in un ristorante gli indagati a cena con il commissario che avrebbe dovuto castigarli; di quando nell’estate 2008 si tuffò nello scandalo Asl degli esami oncologici con la risposta falsata…
Brillanti exploit professionali ma Luciano non ha mai rincorso lo scoop in nome della bramosia individualistica di far carriera: è nella quotidianità del faccia a faccia con le rogne del mondo che si misura l’onestà intellettuale, la curiosità di incontrare l’altro, la voglia di capire e magari di lottare. Colpa del fatto che, direbbe il Poeta, non si era sentito assolto: anzi, semmai coinvolto. Perché, dopo l’ultimo giro di nera a notte fonda, se ha il coraggio di girare al largo dalla fasulla retorica del giornalista cinico e nottambulo, è l’ora giusta per chiedersi «cosa sarà / che ti spinge a picchiare il tuo re / che ti porta a cercare il giusto / dove giustizia non c’è».
Anche nelle piccole cose: come quando, poco più che ragazzo, entrò in consiglio alla circoscrizione 4, dal ’95 al ’99 con i Progressisti. Per dirne una: ci sono ragazzini che devono la loro passione per il basket al fatto che Luciano era andato a spaccarsi la schiena per creare il campo di gioco alla Valle Benedetta (e quello a Nugola). Alla Valle l’hanno ribattezzato il “Pala-DeMajo”: segno che c’è qualche bimbetto che non ne dimenticherà la generosità, anche se non è che un fazzoletto assediato dai cespugli.
Difficile credere che sia solo un capriccio del destino se le ultime volte in cui la firma di Luciano è finita su queste pagine è stato per parlare della memoria del “suo” Cantiere e per analizzare cos’era rimasto della speranza comunista nata a Livorno 90 anni fa.
Le ragioni del suo essere comunista — del comunismo di Enrico Berlinguer — Luciano lo raccontava specchiandosi nei versi di Gaber: «Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri» E poi: «Qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso, era come due persone in una: da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita».
Ma non era solo nel suo recinto che cercava le risposte: non dev’esser un caso nemmeno se l’ultima cosa che abbiamo seguito insieme è stato il funerale di Ablondi.
Lui che addormentava Alessandro cantandogli la ballata dell’anarchico Caserio al posto della ninna nanna, non so se avesse un posticino per Ivano Fossati in mezzo al guazzabuglio di cantautori che amava. Avessi ancora un po’ di fiato, glielo canterei io — oggi — che «se c’è una strada sotto il mare / prima o poi ci troverà / se non c’è strada dentro al cuore degli altri / prima o poi si traccerà».
(da: Il Tirreno, 21 febbraio 2011)
Hai fatto bene a riproporlo sul tuo blog. Un mirabile affresco del grande Luciano. Per ricordarlo a mo’ di esempio a chi gli ha voluto bene e fa questo lavoro
Grazie Furio di averlo ricordato insieme a me: era il mio fratello minore
Un altro bel ricordo lo ha fatto Giacomo Niccolini su Quilivorno
Ciao Mauro, è stato bello rileggere il tuo articolo di allora in ricordo del grande Luciano
Grazie ale, ciao
Ricordo Luciano, con il quale ho avuto modo di relazionarmi in più circostanze. Ottimo professionista, un uomo verace e gentile, capace come pochi di riconoscere quando non aveva colto la visione giusta,. Magari dopo anni. La stampa ed i media in genere avrebbero ancora e soprattutto bisogno di persone capaci di riflettere e scrivere. Soprattutto in una società così complessa. Bene hai fatto a ricordarlo. Marco
Non finiremo mai di ricordare cosa ha lasciato. Grazie
Grazie, Mauro, di aver riproposto questi articoli che ora come allora spaccano il cuore. Per me Luciano è il ragazzino con una meravigliosa testa di riccioli biondi che gioca con la mia figliola nel giardino della Circoscrizione 6 mentre io e il suo babbo facevamo riunioni e assemblee. E’ l’ adolescente inquieto e polemico che incontravo tutti i giorni nei corridoi dell’ Enriques. E’ l’allegro compagno, insieme a a Valeria , delle cene con le cozze ripiene di mamma Ivana. Per diventare poi con la maturità un uomo di cui sentivo il bisogno di conoscere il pensiero quando dovevo affrontare scelte difficili. Un vuoto che in dodici anni è rimasto come un buco nell’ anima , una ferita che non si chiude.
C’è una assonanza curiosa fra me e te. Pensa un po’: anch’io quando parlo di lutti che ti fanno a fette, parlo di buco e di ferita irrimarginabile.