di Mauro Zucchelli
Potenza dei simboli, quasi effetti speciali: ad accompagnare il voto delle primarie Pd è un vento del nord (forse del nordest) così differente da quello del ’45. Un ventaccio diaccio e una pioggia maligna nel giorno di quelle decine di povericristi morti nel barcone schiantato in fondo agli abissi e nel giorno in cui si vota laggiù in Nigeria: ma le urne si aprono anche quaggiù a casa nostra, nei circoli e nelle sedi dem per eleggere la nuova leadership del Pd.
È il principale partito di opposizione alle destre mandate al governo dagli elettori. E tuttavia non è scontato neppure quello, anche se l’ultimo round elettorale ha respinto l’Opa del M5s sulla guida della minoranza. Ecco, un bel problemone per un partito “a vocazione maggioritaria”, una delle poche bussole strategiche che i dem si sono dati fin dal principio. Fino alla sciagurata teorizzazione (renziana ma non solo) del “partito della nazione”. Qualcosa di simile al partito pragmatico acchiappatutti che si era visto in quel faro di democrazie parlamentari del Sud Est asiatico o, ma proprio nel migliore dei casi, in alcuni sistemi realmente bipolari. Non c’è bisogno di spendere troppe parole per acceetarne la scarsa applicabilità in un contesto con quattro schieramenti (destre, Pd, Cinque Stelle e Renzi-Calenda che è riuscito a farsi chiamare paradossalmente Terzo Polo mentre è ben che vada il quarto). Non solo: questo accade in un contesto sociale in cui sembrano assottigliarsi le fette di torta da redistribuire in termini di “quantità” e, sotto il profilo della “qualità”, aumentano le disuguaglianze.
L’ho detto, nel corso degli anni, in iniziative che ho avuto a tu per tu con Romano Prodi e con Walter Veltroni, cioè il meglio di quanto quest’idea di politica abbia saputo esprimere. Detto senza livore, eravamo in un campionato che sembrava la Champions o la Bundesliga rispetto alla mesta serie D attuale che è un po’ quella degli amaranto del Livorno senza brillare. L’ho chiesto – il mio mestiere nknnoretende altro che fare domande – e nemmeno da loro ho avuto risposta. Figuriamoci dopo: quando – ricordo di aver scritto sgomento dello sbarco di Renzi alla Svs del Picchianti – “I don’t care” (cioè “I love it” di Icona Pop) ha preso il posto di “I care” (di don Milani). Tradotto: “me ne frego” invece di “ho a cuore”…
Non mi identifico con il PD anche se sono un elettore di sinistra o anche di centrosinistra per realismo e disperazione, visto che la sinistra sinistra mi sembra perfino messa peggio se volessimo uscire dalla pura e semplice testimonianza astratta e ultraminoritaria, la nicchia di quelli pacificati con sé stessi perché tanto il destino è cinico e baro, e comunque i poteri forti e via salmodiando.
Francamente non sapevo cosa fare, ma questo non interessa nessuno: alla fine sono andato anch’io al circolo. È che a me interessa la sopravvivenza dell’opposizione perché si vede che il fronte al governo ha la simpatica tendenza di far slittare la frizione ogni tanto: senza evocare i soliti ingombranti fantasmi, c’è tutta una galassia di tipi che non vedono l’ora di regolare i conti.
Vediamo se Giorgia Meloni pagherà tutte le cambiali di consenso e clientela nera che hanno fatto finire nel nulla Gianni Alemanno a Roma o se, come potrei immaginare se avesse un po’ di ambizione, vorrà convertire la propria base di riferimento in quella di una destra conservatrice confindustriale: un po’ Merkel un po’ Thatcher un po’ Giscard con una spruzzatina ma giusto una scorza di limone al gusto di destra sociale delle origini.
Il partito a vocazione maggioritaria è l’esatto opposto di quel che teorizzò Berlinguer dopo il golpe in Cile con la strategia del compromesso storico. In Italia neanche la Dc quando era la Dc ce l’ha fatta. Basterebbe questo per liquidare tale opzione: diciamocelo una buona volta che il dogma del partito a vocazione maggioritaria è una baggianata idiota.
Viene risposto che l’aggregazione di un fronte composito può consentire di vincere le elezioni ma, diciamo così, non di “vincere il governo”, cioè non di avere una maggioranza coesa. In effetti, per il centrosinistra già vincere le elezioni non sarebbe tutto questo gran male. Ma è vero: Prodi è stato assassinato dall’interno sia al governo sia nella corsa al Quirinale. Il problema però più che la formula sono le idee: si vede benissimo che i dem possono tutt’al più avere una piccola faticosa bussola sui diritti civili ma parlano di ufo quando si avventurano sui diritti sociali. Giorgio Amendola invitava i comunisti alla dignità del vestire mica perché era un influencer o avrebbe baciato Rosa Chemical: ne faceva una questione di dignità. Ma sapeva stare con i minatori sardi e con gli operai di Mirafiori, con i mezzadri toscani e con i camionisti calabresi. Capita di essere imbarazzati dal sistema di valori reali che tanti dirigenti dem esibiscono sui social al di là delle solite chiacchiere da tecnici della costruzione del consenso: non chiedo morigeratezza e atteggiamenti da suore carmelitane scalze ma un po’ sì. Se il tuo sistema di quel che dà senso alla vita è quello di Naomo e di Briatore, mi domando cosa pensi di avere a che fare con il mondo di chi la sinistra deve rappresentare.
Non è l’unica incongruenza. Se alla sinistra sinistra difficilmente affiderei la gestione anche della mia bici (l’unica idea è una spesa pubblica moltiplicata per mille), mi accorgo che nel ventaglio delle alternative che offre questo centrosinistra c’è qualcosa di curioso. A cominciare dal fatto che, eccetto Cuperlo, sono tutti emiliani. Si scopre l’acqua calda a dire che è una regione a tradizionale radicamento elettorale delle sinistre di governo, quel che balza agli occhi è quanto, al contrario, siano spariti i toscani (che pure erano il “giglio magico” che dominava l’apparato dirigente ai tempi di Renzi).
Altro aspetto, è da notare che sono tutti rossi, per così dire. Eppure sono stati proprio i postcomunisti a soffrire di più nel mix di carriere nate dopo la fusione fredda che ha creato il Pd.
Terza cosa, la singolare inversione degli identikit: la sponda sinistra è Elly Schlein, che è l’unica a non provenire da un dna ex-Pci, mentre gli altri interpretano il solco della tradizione allontanandosene. Soprattutto sotto un profilo: il Pci rivendicava l’arrivo nella stanza dei bottoni con una idea di trasformazione della società, qui invece proprio gli ex-Pci fanno puramente del buon amministrare la propria bussola. Il riformismo riduce l’orizzonte: non più il cambiamento o comunque ls trasformazione dello stato di cose presente (“un altro mondo è possibile”) bensì efficienza e equità.
In mancanza di una idea di rappresentanza di blocchi sociali di riferimento, il partito pigliatutto immagina che la soluzione sua un “minestrone” di spunti acchiappa-audience: la visibilità è ovviamente cosa importante ma se diventa l’unico parametro…
Il rimedio fin qui utilizzato è il puzzle di posizioni “contro” più che una idea “per”. Tradotto: la costruzione del nemico è il collante supplente che fa da Vinavil per darsi una linea che non c’è.
Sia chiaro, i guai del berlusconismo e la presenza di rigurgiti fascistoidi non li neghiamo qui. Quel che non va è farne l’unico elemento, magari additandolo come una “tara d’origine” o un fattore di arretratezza mentre Berlusconi e fascisterie varie sono stati l’apripista che ha anticipato una stagione visibile a varie latitudini, perfino civilissime realtà del Nord Europa, a cominciare da Germania e Svezia devono vedersela con neonazisti doc. Ma c’è una cosa che l’ultimo round elettorale di inizio autunno ha detto con chiarezza: l’elettorato ha risposto picche a una campagna costruita su rischi causati da una destra destra alla guida del governo.
C’era un fortunato spot datato primavera 2009 che contrassegnò le elezioni comunali che videro Cosimi prevalere su Taradash: il regista prof Lamberto Giannini, un tipo assai poco piddino, che ammiccando al fatto che le destre potessero espugnare la roccaforte rossa, si limitava a dire sornione “Paura, eh?”.
Chissà cosa accadrà alla galassia che si muove a sinistra del Pd. Nel 2019 al primo turno Marco Bruciati, leader di Buongiorno (alleato con Potere al Popolo), aveva sul dischetto del rigore la possibilità di incidere sulla formula di giunta ma la sprecò malamente. Niente trattativa anche ruvida con il centrosinistra, rimase inutile il pur lusinghiero 14,3% (con Bruciati che capitalizzò oltre 1.200 voti personali e la miglior performance fra tutti i candidati sindaci nel trainare personalmente la coalizione). Risultato: a dar retta all’analisi dei flussi elettorali fatta dall’autorevole istituto Cattaneo, ci pensarono i suoi elettori a toglier le castagne dal fuoco e z votare in massa Salvetti.
Funzionerà nel voto per il sindaco fra un anno? Su cosa si basa la strategia del centrosinistra? Sul fatto che tanto si andrà il ballottaggio, poco importa se ci si arriva in testa o come secondo. Poi si conta di avere margini di espansione nel secondo voto, proprio per la paura delle destre. Balle, come harakiri non c’è male. Basta guardare quel che emerge dall’analisi seggio per seggio relativamente alle urne di fine settembre, è difficile che possa essere sufficiente. Alle destre, ammesso che vogliano davvero vincere anziché come al solito regolare i conti al proprio interno, basterebbe tirar fuori dal cilindro una figura non particolarmente connotata con il fez, l’orbace e la camicia nera: un esponente della borghesia delle professioni, forse un commerciante. Un Guazzaloca qualsiasi. Guardate quanti e quali seggi a Livorno città vedono la destra in testa già ora. Nella strategia delle destre potrebbe esserci la suggestione di ripetere quanto fatto in vista del vito del settembre scorso: zero mosse in sede locale, aspettando l’onda lunga riscontrabile a livello nazionale. Certo, in un voto per il.m municipio non ci si può nascondere fino a quel punto ma basta un candidato che non faccia danni e loro possono coltivare la segreta speranza che l’onda lunga di Giorgia non si sua ridotta a risacca. È vero che il Pd parte dal 27%, cioè non molto sotto quel che raccolse al primo turno nel 2019 (neanche due punti percentuali in meno ma con una emorragia di 2.500 elettori reali, cioè oltre un elettore su dieci). Ma può bastare senza una capacità di allargare il consenso oltre i propri recinti? Può essere sufficiente sperare che alla fin fine siano i livornesi a risolvere il rebus incasinato? È un po’ come le primarie: i potenziali elettori hanno finora evitato di disertarle soprattutto grazie a un atto di volontarismo che sa di disperazione. Diciamo che nel mio piccolissimo mi proclamo innocente ma anche noi elettorato di centrosinistra non è che siamo stati proprio geniali e coerenti: nel giro di pochi anni è stato approvato tutto e il contrario di tutto. Dalla parte di Bersani contro Renzi, sparatissimi su Renzi poco dopo, mai più in braccio al renzismo al giro successivo. Ma dicendo cosa?
Una volta accettata l’ idea che questo è il migliore dei mondi possibili, l’ elettore ha davanti due opzioni : 1) approfittare di ogni opportunità per crescere in potere e ricchezza, lui e i suoi sodali 2) cercare un po’ di onestà, di dignità e di giustizia per sè e per i più deboli. Spesso le carte si confondono, perchè i colori e i semi sono spariti . Ho paura, Mauro, che da dire ci sia ben poco.
Analisi corretta.Vediamo le primarie quali equilibri sposta anche da noi .Credo che il gruppo dirigente del PD non valuti la sconfitta con Nogarin e la perdita dei parlamentari come incidenti di percorso e non un disagio che tutt’ora esiste.Se il centro destra cercherà un candidato “vero” niente è scontato.
Se lo valutano come incidente di percorso vuol dire che abitano “oltre i bastioni di Orione”…