di Mauro Zucchelli
La Nigeria è andata al voto: e chissene, a giudicare dal fatto che a questa vicenda abbiamo riservato assai meno attenzione che al bacio di Rosa Chemical a Fedez al festival di Sanremo o, figuriamoci, alla scomparsa di Maurizio Costanzo o agli scazzi in casa Windsor. Noi bischeri ma anche giornaloni e tg (sì, qualcosa c’era ma si salvano dalla distrazione generale Federico Rampini sul Corriere, il Post di Luca Sofri e Francesco Costa). Eppure HuffPost ne parla addirittura come le «elezioni più importanti al mondo nel 2023». Non sto davanti al tg1 mattina pomeriggio e sera ma fravun sofficino e una melinda non mi sembra di aver visto granché nell’incomprensibile impaginazione guazzabuglio che impazza ora al tg-guida: con gli argomenti che si interrompono, poi si spedisce troupe e inviato a assaggiare la formaggella di Capopasserotto, quindi si ritorna sulle fosse comuni in Donbass.
In effetti, negli ultimi tre anni dovremmo aver imparato che quel che un bombardamento nell’Ucraina di Mariupol, gli ingorghi nei porti dell’Estremo Oriente o lo standard dei contagi di Covid nella Cina di Wuhan possono avere ripercussioni su noi qui e ora. Invece, in modo ottuso, con la complicità di noi opinione pubblica, quasi tutta la grande informazione continua a ritenere uno spreco inutile tenere aperti gli occhi anche su altre zone del mappamondo se non per le emergenze immediate.
Ci separano da Abuja, capitale del Paese africano, o da Lagos, la principale metropoli, quasi 4.200 chilometri: più del doppio della distanza che passa fra qui e i territori ucraini aggrediti da Putin. Ma nella geografia dell’attenzione è un altro sistema solare, più remoto di Plutone o di qualche buco nero intergalattico.
È inutile e forse sbagliato cullare il sogno nostalgico che la politica torni a quando le leadership si decidevano sulla base di alchimie liturgiche che, per parlare di piazza della Repubblica o di Ardenza, si illudevano di disegnare prima lo scenario mondiale e poi europeo, giù giù fino al quartiere, per dar corpo all’analisi. Quel tempo è passato, ma lo zero di oggi accomuna politica e pubblica opinione in una gara da audience e banalità che mette veramente tristezza e ci condannerà a finir male.
Prima cosa, i migranti provenienti dalla Nigeria li abbiamo già all’uscio di casa nostra. A Livorno città sono grossomodo 400 ormai da anni (394 gli ufficialmente residenti nel 2022) più altri 200 nel resto della provincia (ma pochi anni fa erano il doppio). Eccettuato Prato dove se ne contano più di 700, non c’è altra città Toscana che ne abbia un numero del genere, per quanto in proporzione al totale degli abitanti la presenza di nigeriani sia ben più alta, ad esempio, a Empoli e Pontedera o in Valdinievole. Sta di fatto che la Nigeria è nella top ten dei Paesi d’origine dei migranti che hanno messo radici a Livorno e, fra questi, è il gruppo che cresce di più.
Basterebbe questo a far capire che quel che accade nelle urne adesso fra Ibadan e Aba, fra Ilorin e Port Harcourt potrebbe interessarci.
Potrebbe. Anche perché la Nigeria è una realtà-chiave per gli approvvigionamenti energetici: Eni la tiene nel pool dei fornitori più importanti di petrolio (anche con qualche interessamento della magistratura per le modalità), è fra i primi sei fornitori di gas all’Italia (ma con una percentuale assai ridotta). Potrebbe diventare molto di più (e non è un caso che l’allora premier Mario Draghi aveva messo in programma una tappa in Nigeria per andare a caccia di gas): ma gli analisti vedono troppo alto il rischio-Paese per poterci contare a occhi chiusi e l’ambiente attorno ai campi pozzi è già parecchio devastato per immaginare di distruggerlo un po’ di più.
Al pari di tanti altri atleti africani, abbiamo imparato a vedere nel Continente Nero non solo un “giacimento” di enormi potenzialità atletiche ma anche la terra di campioni: dalla Nigeria proviene Victor Osimhen, straordinario bomber che traina il Napoli dei record, così come Alex Iwobi e Wilfred Ndidi (che si sono fatti notare in Premier), oltre all’atalantino Ademola Lookman. Non è una cosa che nasce oggi se è vero che nel ’96 a Atlanta la Nigeria di Okocha vinse la medaglia d’oro nel calcio alle Olimpiadi battendo l’Argentina di Crespo e Zanetti. Guai a dimenticare poi il talento di Giannīs Antetokounmpo, nigeriano di Atene, ora star del basket Nba: nella pallacanestro non è l’unico nome, la nazionale del Paese africano è al gradino 25 del ranking e ha una storia di oltre cento nomi conosciuti anche da noi (come Eze nel Mps o Anagonye sul parquet livornese).
Ma è qualcos’altro a farmi dire che dovremmo occuparcene come qualcosa che apre gli occhi sul futuro, non semplice “colore” o curiosità. Lo dice la demografia: l’Ispi, centro studi che sarebbe bene tener d’occhio, sottolinea che l’Africa già nel 2020 «ha superato l’Asia come principale origine della crescita demografica globale». E, attenzione, la Nigeria è fra i quattro paesi africani all’interno del gruppo di otto in cui si concentrerà «più di metà» dell’aumento della popolazione da qui al 2050. Con una sottolineatura a parte: la Nigeria «dal 2058 potrebbe contare più abitanti dell’intera Unione Europea». In effetti, quando parliamo di incremento della popolazione mondiale, continuiamo a pensare alla Cina: errore, dal prossimo anno l’India sorpasserà la Cina come paese più popoloso del mondo. «Cambieranno solo gli equilibri demografici o anche quelli geopolitici?», dice l’équipe dell’Ispi.
Non fermiamoci lì: già adesso la Nigeria è al sesto posto nel mondo fra i paesi con il maggior numero di abitanti, secondo le proiezioni “medie” dell’Institut National Études Démographiques (Ined) nel 2050 sarà al quarto (dopo India, Cina e Usa) e nella seconda metà di questo secolo la Cina si stima che vedrà crollare la popolazione (meno 41%) mentre la Nigeria esploderà superando di gran lunga il mezzo miliardo di abitanti (più 46%). Non parliamo di una distopia futuribile in mezzo a scenari da Blade Runner: , è il mondo in cui vivranno i nostri figli e i nostri nipoti. A meno di non pensare di lasciar loro in mano il cerino acceso…
Non è tutto. In base al Pil è insieme in tandem con l’Egitto la prima economia di tutta l’Africa. Il Fondo monetario internazionale la mette fra le cinque economie del continente alle quali guardare nel futuro immediato: «non è destinata ad arrestare la sua crescita» e quest’anno «raggiungerà i 574 miliardi di dollari». Più dell’Austria, quasi quanto la Norvegia. Al tempo stesso, come ricorda l’ “Atlante delle guerre” di ispirazione solidaristico-pacifista, la Nigeria è un gigante come dimensioni ma deve fare i conti con tante contraddizioni e fragilità: occhi puntati su «un tasso di inflazione che supera il 21%, rendendo i beni di prima necessità inaccessibili per molti, e la disoccupazione che raggiunge il 33%». A ciò si aggiungano: 1) i contraccolpi del cambio di moneta (per frenare riciclaggio e scambi molto informali); 2) la mancanza di carburante (in un Paese che è il settimo al mondo per export di petrolio); 3) i problemi di sicurezza («dovuti ad un mix di banditismo, attività terroristiche, conflitti tra pastori e agricoltori e agitazioni secessioniste nel Nord e nel Sud-Est del Paese», come scrive Marta Cavallaro nel citato report).
Una contraddizione fra grandi risorse naturali e povertà diffusa che Nigrizia, il prezioso mensile dei missionari comboniani, ha riassunto efficacemente. Da un lato: “l’abbondanza di minerali e di risorse naturali e umane ha contribuito a rendere la Nigeria il gigante economico del continente”. Dall’altro: l’Ufficio nigeriano di statistica parla di un enorme presenza di miseria: un esercito di «133 milioni di persone, pari al 63% della popolazione» (nella fascia degli “ultimi fra gli ultimi”, quella dei poveri estremi, «già nel 2018» era diventata la nazione che ne ha di più superando l’India); e tutt’attorno un contesto in cui «diminuiscono gli introiti del petrolio, principale fonte di entrata del paese» e ci sono «pochi investimenti nel sociale e in infrastrutture» (sarebbe necessario «investire 3mila miliardi di dollari entro il 2050»).
Capisco tutte le paure di noi europei, ma è sufficiente mettersi davanti ai numeri della demografia per accorgersi quanto possano durare le strategia dell’Europa che difende il proprio benessere come quello di una fortezza assediata: metterci a sparargli in mezzo agli occhi fa a pugni con quel che abbiamo imparato a essere, dunque o rinunciamo a essere cultura occidentale democratica o facciamo patti sugli standard di benessere. Finora la soluzione (controfirmata da dirigenti del centrosinistra) è stata quella di affidarsi ai tagliagole libici o alle brutalità turche: lontano dagli occhi, lontano da tutto.
Capisco le paure di chi si sente spaesato e non riconosce più la “sua” Livorno: non la mappa della criminalità di origine straniera ma semplicemente la mappa dettagliata dell’insediamento a Livorno delle famiglie di migranti è esattamente sovrapponibile all’andamento elettorale delle destre. A maggior ragione nelle zone dove più alta è la presenza di anziani soli: o fai il salto e la bimbetta nera ti diventa cara quanto una nipotina acquisita o “quelli lì” li vedi come una minaccia. Mica perché ti si sono fatti avanti con il coltello, ma perché fanno rumore, perché cucinano roba che non ti piace, perché non li comprendi.
Difficile invece digerire che un ministro (Piantedosi), di fronte all’apocalisse di morti in mare davanti alle coste di Crotone, abbia avuto l’aplomb di dire praticamente che quei migranti se la sono cercata: giusto è prendersela con l’ipocrisia di Bruxelles che decide di non decidere sul ricollocamento di quanti arrivano e sacrosanto è battersi contro i trafficanti di esseri umani, ma prendersela con il fatto che si sono messi in viaggio per mare e che i loro parenti non li abbiano bloccati, come lo definireste?
È accaduto partendo dalle coste turche: pochi mesi dopo che noi anime belle ci siamo scandalizzati per quel che accade nell’Afghanistan dei talebani; poche settimane dopo che ci siamo dati una spuntatina ai capelli per dire quanto siamo al fianco delle ragazze alle quali il regime oscurantista dell’Iran spara con i mitragliatori; pochi giorni dopo che un terremoto infame ha ammazzato più di 40mila disgraziati, molti dei quali alle prese già con Isis, dittatori e guerra. Le lezioni di etica a questi crocifissi le danno solo perché così i propri fan hanno la ricettina pronto uso per sentirsi ancora umani.
La disperazione non giustifica la decisione di partire (o di far partire i figli) ad ogni costo verso l’Europa, dice il ministro. Ma cosa ne sappiamo noi della disperazione? Cosa ne so io, figlio di un operaio metalmeccanico e di una impiegata di una piccola ditta artigiana, con casa di proprietà e lavoro assicurato, motorino appena compiuti i 14 e Dyane 6 appena i 18? Cosa ne sa il ministro, che i cronisti del Foglio descrivono come funzionario capace, figlio di un preside amico di ministro Dc e di una prof, marito di una altra dirigente di prefettura? Capace dal punto di vista tecnico ma, ascoltavo a novembre le sue parole in conferenza stampa, capace anche di parlare di questi povericristi come di «resto del carico che ne dovesse residuare». Mi interessavo di portualità, e non era la prima volta che sentivo questo tipo di terminologia: solo che l’avevano fatto parlando di sabbie, di caolino e feldspati. Chissà se è solo un infortunio linguistico o l’idea di quella “cultura dello scarto” contro la quale si alza la voce di papa Francesco. E comunque: alla fin fine siete sicuri che voi o io non saremmo i primi a indebitarci per mettere su un barcone della speranza un figlio o un nipote pur di farlo scappare da lì, anche dovesse traversare l’inferno?
Però, qui parliamo di elezioni prima che di demografia. Vale perciò la pena di sapere che in autunno dovrebbe andare al voto anche qualcun altro. Ad esempio, la Spagna: c’è il pericolo di veder saldare con la Grecia di Mitsotakis un fronte mediterraneo conservatore se le destre spagnole (con i destrissimi parafascisti di Vox in ascesa) dovessero ribaltare il “campo largo” di socialisti e Podemos che tiene in piedi Sanchez. Sullo stesso ring geopolitico mediterraneo a metà giugno va alle urne anche la Turchia di Erdoğan: quanto a grandeur se la gioca con Putin, l’uno sogna un po’ l’Urss un po’ lo zar e l’altro il ritorno all’impero ottomano. Dunque, sembra logico che il cuore dell’Africa resti sullo sfondo. Logico sì, ma se ragioniamo ancora guardando a domattina e tutt’al più al possibile ribaltone a Bruxelles che passerebbe ai conservatori in alleanza con il Ppe.
Qui proviamo però a gettare in avanti uno “sguardo lungo”. Con qualche difficoltà perché la Nigeria ha un sistema politico costruito in modo da cercare di evitare spaccature insanabili fra i pezzi del puzzle che compongono il Paese: a partire dalla divisione fra nord musulmano e sud cristiano che era stata finora ammortizzata da un bipolarismo partitico che aveva un bilanciamento di pesi e contrappesi (ad esempio, presidente islamico e vice cattolico) e di alternanze informali (in un mandato la presidenza tocca a un gruppo religioso e in quella successiva all’altro).
Solo che stavolta lo schema standard è stato scompaginato. Intanto, entrambi i contendenti del di questa sorta di duopolio sono musulmani. In secondo luogo, come nota l’agenzia Nova, «per la prima volta dalla fine della dittatura, nel 1999, nessuno dei tre principali aspiranti ha un passato nell’esercito». Ma soprattutto è sceso in campo un terzo pretendente. Accanto al duello tradizionale fra due ultrasettantenni, Bola Tinubu, leader del partito al governo (Apc), e Atiku Abubakar, alla testa della principale forza di opposizione (Pdp), c’è l’outsider Peter Obi, poco più che sessantenne, quasi un matusalemme in un Paese che ha una età media sotto i vent’anni, bandiera di sinistra di un malcontento diffuso. Soprattutto fra i giovani, in particolare ha l’appoggio della leader del movimento che si è battuto per far tornare a casa le ragazze rapite dai fondamentalisti islamici. È stato in passato governatore dello stato di Anambra: ha la seconda area metropolitana della Nigeria, il più grande polo commerciale di tutto il continente e una economia in trasformazione (perfino con una casa automobilistica, la Innoson).
In una semplificazione troppo grossolana, potrebbe essere visto più come Prodi che come Landini: non viene dalla fabbrica ma dallo stato maggiore della finanza: se gli volete proprio appiccicare addosso l’etichetta da radical chic, occhio che uno dei suoi mantra è la frugalità. Qualcosa di simile all’austerity berlingueriana rispetto all’ottimismo craxiano della Milano da bere anni ’80, quelli del boom della spesa pubblica corrente che, facendo entrare in orbita il debito pubblico, “pagò” la cattura del consenso all’indomani della sconfitta del terrorismo.
Resta il fatto che i risultati finali non sono ancora conosciuti: ma Obi è tutt’altro che sconfitto. Dopo Olof Palme e i sandinisti, Blair e Zapatero, Tsipras e Pepe Mujica, ora la sinistra italiana alle prese con mille difficoltà si aggrapperà a Peter Obi? Difficile, bisognerebbe che alzasse la testa dal proprio ombelico.
Le elezioni nigeriane potrebbero trainare il cambiamento del volto dell’Africa. Ma non è sensato lanciarsi nell’ottimismo. Uno dei più grandi Paesi del mondo potrebbe “esplodere”: le operazioni di voto si sono svolte sabato scorso e già durante l’apertura delle urne non era mancata confusione, anzi in molti seggi si era andati avanti a votare per ore e ore dopo il termine previsto. Di più: l’ingranaggio organizzativo informatico per la trasmissione dei risultati è di fatto saltato; sono state denunciate minacce contro i giudici che sorvegliano la regolarità delle operazioni; le opposizioni denunciano brogli e chiedono la ripetizione del voto. Insomma, un bailamme: se lo sommiamo alla complessità della formula di conteggio – non bisogna solo vincere ma occorre farlo secondo un complicato equilibrio che garantisca un consenso non localizzato – si capisce che le incertezze potrebbero durare.
Colpa ci una democrazia fragile: l’Africa non ha ancora solide radici come l’Occidente. Ah, dimenticavo: negli Usa il voto del 3 novembre 2020, quello della vittoria di Joe Biden, ha visto la certificazione del voto del Michigan solo 20 giorni dopo, e dopo una grandinata di beghe legali a malapena a 38 giorni dalle elezioni la Corte Suprema ha fatto chiarezza e nel 41° giorno a bagnomaria si è avuto il pronunciamento formale definitivo dell’assegnazione della vittoria a Biden. I nigeriani possono aver tempo fino a Pasqua senza che arrivi nessuno con il ditino alzato.
Bravo Mauro… quanta umanità nelle tue parole… in certi passaggi sfiori una dimensione quasi sacrale della vita
Grazie
Interessante e calibrato,guardare fuori porta e’ segno di cultura priva di paraocchi e di sesso della realtà’, bravo Mauro
Grazie Gianfranco. Vorrei capire (e aiutare a capire, che è il senso del mio mestiere): ma, come prosegue l’ultima straziante e straordinaria lettera di Aldo Moro dalla prigionia, ho con me solo “i miei piccoli occhi mortali”
OGGI
Ispi@ispionline.it
NIGERIA: TINUBU PRESIDENTE
Ciao
Claudio
Quasi mai le elezioni vanno come speravo. Ma stavolta in Nigeria lo schema del campionato potrebbe esser cambiato per sempre: ogni tanto vince anche il Leicester. O la Samp, il Cagliari, la Fiorentina. O il Napoli
Caro Mauro, fai bene a mandare anche per e.mail. Comunque, anche i piccoli occhi mortali, se sono davanti a un buon cervello, possono vedere, bene, e nel profondo, buona serata, Gianfranco
Grazie, Mauro . Non abbiamo altro: “i piccoli occhi mortali” però possono essere molto potenti