Livorno dovrebbe metterselo come fiore all’occhiello al pari del fatto di non aver rinchiuso gli ebrei in un ghetto. Nel ‘77 il comunista Alì Nannipieri fece qualcosa di sinistra: tolse il quotidiano locale dalle mani dell’editore che voleva chiuderlo. Lo fece perché l’informazione è un bene comune
di Mauro Zucchelli
Non amava né poco né punto i riflettori ma deve rassegnarsi: il protagonista di questa storia è lui. Cognome Nannipieri, nome Alì («glielo misero perché il padre, mentre stava andando a registrarne la nascita all’anagrafe, cercava qualcosa di unico»). Gli consigliarono quel con lontane ascendenze levantine: aveva a che fare con due dei Quattro Mori ma lui era pisano di Bagni di San Giuliano. Però la storia ha in serbo le sorprese più strane: certo che nessuno si sarebbe immaginato di ritrovarselo sindaco di Livorno in quel fine inverno ’77 e men che mai di vederlo compiere un gesto senza precedenti nella storia del nostro Paese (e non solo).
Erano i mesi in cui Livorno faceva fatica con il problema del lavoro e della casa mentre a livello nazionale eravamo nella morsa fra le prove tecniche di Brigate Rosse e il collaudato “stragismo di Stato” gestito dai neofascisti per la regia dei servizi segreti deviati. Non bastasse, a Seveso esplode l’Icmesa e la “pioggia alla diossina” ci spiega quanti veleni possono nascondersi dietro lo sviluppo che si mangia l’ambiente.
“Grigio”, in effetti Alì era “grigio”: mestiere funzionario di partito, verve oratoria così così, cursus standard per lunghi anni sempre come amministratore locale (quando invece i giochi veri si facevano nelle stanze del partito). E per giunta, negli anni in cui anche nel Pci emergono figure ben più smart, una fisiognomica quasi sovietica, praticamente brezneviana. Eppure, torno a dirlo perché non è mai abbastanza, capace di un gesto rivoluzionario: forse la cosa più di sinistra che sia mai stata fatta, e non solo a Livorno. Forse anche perché, al di là di bombe e morti ammazzati, non c’è più stata una tale “temperatura” nella società civile e nelle lotte per trasformare il presente.
Gli archivi raccontano che sono stati requisiti alloggi e cammelli, conti correnti e vaccini, automobili e loculi cimiteriali, tenute agricole e documenti. Ma giornali mai. Con un’unica eccezione: a Livorno quasi mezzo secolo fa – in questi giorni sono passati esattamente 46 anni da allora – accade che il sindaco Alì Nannipieri si prende la briga di firmare l’ordinanza con cui requisisce (per un mese) il quotidiano cittadino. A quel tempo si chiamava “Il Telegrafo”: con quel nome era stato fondato cent’anni prima da un garibaldino (Giovanni Bandi), dalla Liberazione era stata cambiata la testata (tramutata in “Il Tirreno”) per dare un segno di discontinuità con il giornale della fascistissima dynasty livornese dei Ciano. Di lì a poco tornerà a chiamarsi “Il Tirreno” durante il periodo dell’autogestione da parte di giornalisti e tipografi, prima di passare nelle mani della nuova proprietà Caracciolo che sotto la regia geniale di Mario Lenzi ne farà l’apripista di una serie di quotidiani locali (Finegil), poi smembrata dal colosso editoriale Gedi versione Elkann-Fiat.
Nannipieri l’aveva fatto in nome di una idea dell’informazione come diritto inalienabile per una comunità locale: un bene comune, si sarebbe detto poi. Eppure, a quanto è stato possibile ricostruire, benché i giornali abbiano continuato a morire, qualcosa del genere non si è avuto né prima né dopo: basti ricordare la sorte del “Giornale d’Italia”, proprio negli stessi giorni in cui l’editore Monti aveva deciso di chiudere il quotidiano livornese. La gloriosa testata romana moderata di sponda conservatrice tirò giù la saracinesca, l’ultima prima pagina è stata un eloquente “Silenzio, si chiude” (poi vi saranno tentativi di rianimarla ma senza fortuna). A Livorno non ci si limitò a prendersi la sberla da parte dell’editore: prima i lavoratori in assemblea permanente occuparono lo stabilimento e continuarono a far uscire il giornale, poi la città adottò questa battaglia.
No, non è stata una passeggiata. L’assedio degli avvocati della proprietà per riavere il possesso effettivo della testata e degli impianti era arrivato al dunque: alla fin fine aveva ottenuto dal giudice l’ordinanza di sgombero, i lavoratori si davano il cambio per presidiare di giorno e di notte la sede storica di viale Alfieri perché si aspettavano da un momento all’altro che partisse l’operazione di polizia con cui le forze dell’ordine li avrebbero sbattuti fuori dal loro posto di lavoro rimettendo le chiavi nelle mani del petroliere-editore. Sarebbe stato un evento «spiacevole», come disse qualcuno, e tuttavia nel solco della normalità: della sacralità della proprietà privata. Il giornale è dell’editore e, se lui decide di chiuderlo, si chiude, punto e basta.
Il 24 febbraio 1977 il consigliere pretore aveva emesso l’ordinanza di reintegro nelle mani del liquidatore e l’aveva depositata in cancelleria. Era dall’agosto dell’anno precedente che nella gerenza, accanto al nome del direttore Carlo Lulli, straordinaria figura di direttore senza eguali nello schierarsi al fianco dei suoi giornalisti anche a costo di andare contro l’editore, figura come editore e stampatore non più la Seit (Società editrice Il Telegrafo) bensì il Comitato unitario di difesa de “Il Telegrafo”. È il giudice a dire senza giri di parole che sì, l’azione dei lavoratori è stata lodevole dal punto di vista morale ma non ha rilevanza dal punto di vista giuridico. Dunque, o l’autogestione finiva con le buone o ci avrebbero pensato le forze dell’ordine a ristabilire l’ordine costituito, quand’anche fosse ingiusto.
Due giorni più tardi, il sindaco Alì Nannipieri si presenta di persona – come per dare la massima solennità all’evento – a consegnare l’ordinanza di requisizione che per un mese stoppa gli effetti della decisione del giudice. Lo ripeto: nessuno l’ha mai fatto prima e nessuno lo farà mai più dopo.
Nannipieri è stato tutto tranne che un profeta magari visionario ma avventurista: figuriamoci. Come raccontano tanto la figlia Sandra che il suo braccio destro Massimiliano Talini, teneva ad approfondire ogni minimo dettaglio giuridico. Della serie: combatto politicamente per cambiare le leggi ma rispetto quelle che sono in vigore.
Si chiama “politica”, anzi “politica delle alleanze”, il modo per non alzare le braccia e limitarsi a dire che di fronte alla scelta del consigliere pretore non poteva farci niente. Lui mette la firma e lui finirà per doverne rispondere di fronte a un giudice (e in primo appello gli daranno torto), ma la città di Livorno così come tutta la fascia di territorio che arriva fino a Sarzana scendono in campo per fare quadrato intorno al loro giornale. La “fotografia” la scatta il direttore Carlo Lulli nell’editoriale in cui annuncia che i lavoratori impediranno la chiusura (“Il Telegrafo continua”): «Lo si era capito quando giorni fa, senza il minimo sollecito, vescovi cattolici e deputati comunisti, pastori protestanti e consigli comunali al completo, rabbini, comunità ebraiche e consigli provinciali, ministri e giunta regionale, ammiragli e umili madri di famiglia, generali e operai “maoisti” e curati, metallurgici e rotariani, membri del Lions e consigli dei quartieri più popolari» si erano schierati a difesa. Insomma, c’era un pronunciamento degli apparati di giustizia e, se avesse preso alla lettera il mantra ossessivo per cui le sentenze «non si discutono ma si applicano», avrebbe potuto lavarsene le mani: cari amici e compagni, non ci si può far nulla. Tutt’al più un bel documentone all’insegna dell’ “occorre bisogna necessita”, gli astratti verbi-spia del rivendicazionismo vuoto quando ti interessa solo schivarla invece che fare una vertenza come si deve.
Quei sette mesi di autogestione erano andati avanti fin lì con i colleghi di allora che avevano continuato a fare il loro mestiere: erano abituati a scrivere notizie e anche in quei mesi “Il Telegrafo” racconta la propria lotta ma in modo quasi pudico. Ampi servizi all’interno ma senza esagerare, e comunque in prima pagina e nelle cronache locali vanno le notizie di sempre. Compreso qualche immancabile refusaccio: come quell’ “h” in mezzo al nome di Juantorena in un titolone a tutta pagina. E fra le notizie di sempre: il rapinatore solitario di Coteto che fa un colpo dietro l’altro, l’uomo che ammazza moglie e figlia (a proposito, i nostalgici del tempo che fu si guardino cosa accadeva allora, e mica c’erano gli extracomunitari a minacciare il nostro quieto vivere…).
Nannipieri, per parte sua, aveva evitato di fare il primattore e aveva fatto emergere la voce del consiglio comunale: poi si era preso la briga di prendere tutto e condensarlo in una firma. Non era però davvero la prima volta che si interessava al caso del giornale cittadino: la notte in cui le maestranze avevano deciso di far uscire il giornale ugualmente era lì fra le rotative. Come dire: se qualcuno fosse arrivato a bloccare tutto avrebbe dovuto sgombrare anche il sindaco.
Non sarebbe inutile tornare a leggersi i tanti passaggi di quei mesi. A cominciare dalla modalità con cui Monti fa chiudere il giornale. Nel novembre ’72 in un faccia a faccia con i sindacati nazionali nel quartier generale degli editori fa mettere a verbale che «non è intenzione del gruppo Monti sospendere le pubblicazioni della testata Il Telegrafo» e che «in ogni caso ai dipendenti in servizio sarà garantito il posto di lavoro». Nessuno nega le difficoltà ed è per questo che a fine aprile viene cancellato il numero del lunedì e vengono chiuse tre edizioni. Tempo nemmeno due mesi e mezzo ed ecco che arriva la bomba: in data 13 luglio si annuncia che a fine mese Il Telegrafo avrebbe chiuso e i lavoratori sarebbero stati sbattuti in mezzo alla strada, senza neppure provare a nascondersi dietro la sospensione: la società editrice cessa ogni attività e a ciascun dipendente, grazie tante, viene comunicato che sarà pagata la liquidazione.
Se siamo tornati a ripescare dall’album dei ricordi questa vicenda, ci sono almeno quattro ragioni.
La prima, la più contingente: ho messo il naso nel mondo dei giornali in quei mesi di autogestione grazie a Daniele Ciocca che a 17 anni mi portò a seguire i campionati minori, e a me toccò il minore dei minori (il Csi). Ora ho lasciato Il Tirreno: si è chiusa una pagina. Ma non è finita la voglia di raccontare: ci provo qui, anche se sono un analfabeta del web.
La seconda, la ricorrenza: in questi giorni cade il 46° anniversario del giorno in cui il sindaco Nannipieri ebbe il coraggio di fare un gesto che nessuno ha mai avuto il coraggio di fare.
La terza, la memoria: c’è bisogno che anche questo tassello – la scelta coraggiosa di requisire un giornale in nome del bene pubblico del diritto di una comunità a essere informata – sia infilato nella nostra memoria collettiva perché ne fa parte alla pari delle leggi livornine e delle tradizioni di tolleranza multiculturale.
Infine, la quarta: il destino della stampa locale, e sottolineo locale. Già, perché i giornali locali sono qualcosa di speciale: mentre a livello nazionale chiunque ha un ventaglio di giornali fra i quali scegliere in base alle proprie preferenze, magari variandole nel tempo o anche saltabeccando dall’uno all’altro, su scala locale sempre più spesso il giornale di riferimento è uno. Come diceva un amico: «Se tu non mi pubblichi la notizia del mio qualcosa, è come se non fosse avvenuta». È molto meno vero di un tempo: in realtà, i giornali non scontano più la concorrenza di un altro giornale bensì quella di Facebook o Instagram. Vuoi mettere la differenza fra leggere un articolo e sbirciare le storie sui social? Fai anche meno fatica…
Forse però ne va di mezzi anche di qualcos’altro di molto più pesante. Siccome (sbagliando) i giornali pensano di richiamare l’attenzione strillando quanto più possibile qualunque emozione, a partire dalla paura di finire nel mirino di qualche balordo, ecco che per molti la cura anti-ansia è semplicemente una: evitare di essere informati. Me lo disse una anziana signora in ospedale: no, non aveva studiato massmediologia e nemmeno citava Derrida o Benjamin. Il suo pensiero era riassumibile così: giornali e telegiornali sono pieni di cose brutte, mettiti a guardare un programma tv sicuramente scemo, hai il tempo di andare a berti qualcosa o in bagno, puoi dare un’occhiata al telefonino, e intanto ti culla per un po’ e ti fa sentire anche più intelligente di quei bischeri che sono lì a dire stupidaggini. O ti addormenti sul divano o comunque hai passato la serata senza avvelenarti il fegato. Dietro c’è una idea: tanto le cose non cambiano e comunque non hai tu il potere di cambiarle…
Finiamola qui con le considerazioni da sora Lella. Quel che mi preoccupa sta un po’ più in là: prima ancora che le sorti della stampa locale, mi tiene in ansia il destino del formarsi dell’opinione pubblica nelle comunità locali. A dimensione di piano regolatore, decisioni sul traffico o scelta del sindaco più che di grandi teoremi nazionali: Palazzo Chigi, i migranti e l’Europa, la crisi economica e la transizione energetica. Avete fiducia nell’informazione che passa via social o online? Beati voi, e lo dico sapendo che non i millennials ma chiunque eccetto i vecchietti ultraottantenni più recalcitranti ormai leggono più parole online che su carta. Il punto è un altro: quanto pesano nella formazione del mosaico dell’immaginario personale e collettivo? Se perfino le domande autosuggerite da Google nelle ricerche sono piene di castronerie senza pari, figuriamoci nelle baggianate che rimbalzano (e spesso con l’algoritmo che gestisce chi vedi e chi no).
Non è una bega che possiamo mettere in collo a questa o quella situazione locale, a questo o quel governo al timone di Palazzo Chigi. C’è molto di più e con conseguenze molto più devastanti. Lo guardiamo grazie a “Professione reporter”, l’occhio web con cui un gruppo di giornalisti guarda ai guai del mestiere, e il radar è sugli Stati Uniti, il Paese del Pulitzer, degli standard di qualità impensabili qui da noi, degli scoop di Bob Woodward, dell’inchiesta sugli abusi dei preti pedofili da parte del Boston Globe, eccetera. Ebbene, ascoltiamo Nancy Gibbs, direttrice dello Shorenstein Center (Università di Harvard), che in tandem con Penny Abernathy (Northwestern University) calcola che siano «circa 200 le contee senza giornali locali, mentre altre 1.600 hanno una sola testata. Ben più della metà, sono in tutto poco meno di 3.150.
(le immagini sono relative ai numeri del Telegrafo/Tirreno di quel periodo a cavallo fra 1976 e 1977: le collezioni sono state consultate nell’emeroteca municipale)
Ciao Mauro, altri tempi, altra gente e un’altra città rispetto a quella di oggi. Oggi sarebbe impossibile realizzare una cosa del genere. Non esiste più una solidarietà ed una unità di intenti che arrivi ad una coesione sociale tale da stravolgere un destino che all’epoca era già scritto. Le persone e Livorno non sono più le stesse.
Un saluto
Grazie Mauro un preciso e prezioso racconto di una fase importante della nostra città. Come sempre è un grande piacere leggerti.
Grazie, Gianni
Apprezzo molto questa memoria, sebbene non abbia mai avuto relazioni politiche con Nannipieri, sia per ragioni anagrafiche che di appartenenza. Ricordo, però è bene, come fu subito dimenticato e osteggiato in vita. Quindi giusto ricordarlo.
Ci ho provato, con questa piccola cosa
Bravo .La ricostruzione è puntuale e per chi come me c’era, commovente.Una pagina bella della nostra Storia collettiva che si schiero’ a difesa del giornale senza se e senza ma.Carli Lulli e Cesare Di.Batte che compare nella foto con Alj, Silvano Labriola e Aldo Tornatore erano socialisti .Ho fatto il Vice con Nannipieri e ne ho difesa la memoria anche con i suoi compagni che all’inizio degli anni 80 tentarono di avvicendarlo .Il Sindaco parlava raramente ma aveva una cultura amministrativa mai più superata. Questa parte della vicenda politica e amministrativa della Città attende ancora di essere ricordata e spesso se ne dato un giudizio approssimato.D’altra parte i livornesi non amano la memoria… poiché da noi la storia inizia. … dal giorno dopo. Spero che in questa tua nuova attività potrai certo contribuire a ripercorrerla come testimone di tante vicende .Saluti cari e grazie
Ogni volta che leggo Zucchelli riesce a trattare con precisione e qualita’ argomenti anche non semplici. Questa volta ricorda cos’era la politica è la statura di chi la faceva in quei tempi, anche da amministratori locali.
Il confronto con l’attualità è disarmante.
Ciao ,Mauro. Mi hai portato indietro di 46 anni in un momento molto drammatico della mia/nostra vita poi risolta in maniera impensabile dal sindaco e poi intrapresa da una cooperativa unita da giornalisti e tipografici e con un grande direttore alla sua guida che riuscì a salvare molti posti di lavoro e rilanciare il “nostro” Giornale.
Mauro bellissimo articolo. Grazie
Grazie a voi che l’avete vissuta, io ho avuto un pezzo di carta sul quale scrivere e un posto di lavoro
Grazie Mauro
Molto bello e giusto il riconoscimento al valore della battaglia (si può dire storica?) del sindaco Nannipieri in difesa del Telegrafo nel 1977.
Da non dimenticare.
Peccato che neppure in una circostanza come questa sia stata riproposta l’immagine di Nannipieri come “uomo grigio”, semplicemente perché non vera.
Aly era, al contrario, curioso, aperto al nuovo e sensibile e rispettava rigorosamente norme, regole e forme non solo per cultura e senso del dovere, ma soprattutto per rispetto degli altri e della carica che rivestiva.
Ciao e avanti col tuo blog fortissimo.
Ciao
Claudio