Some of the stories that I'd like to print (cit. Ochs feat. Zuc)
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Il caso Lavorini/2. Dietro un bimbo assassinato le prove tecniche dello stragismo neofascista. Così la strategia della tensione colpì anche a Livorno  

Macché vizi nascosti dei “capovolti”, la morte del piccolo Ermanno Lavorini fa parte del “rodaggio” della stagione delle stragi di Stato. Prima c’è stato molto: quante bombe che abbiamo dimenticato. Compresa quella esplosa a Livorno la notte di Natale

di Mauro Zucchelli

Era una domenica di inizio marzo – oggi fanno 54 anni esatti – quando un maresciallo dell’Aeronautica ne ha trovato il corpo senza vita: nient’altro che una macchia di sangue che affiorava sotto un velo di sabbia sulla spiaggia di Marina di Vecchiano. Era dentro una buca profonda niente, a malapena mezzo metro: e il setter del sottufficiale non aveva faticato a intuire che lì sotto c’era qualcosa.

Era stato un venerdì (di fine gennaio): la passione di quel bambino sarebbe durata 37 giorni anziché tre. Però invece che “risorgere”, a lui è toccato di restare sepolto sotto una coltre di pregiudizi, bugie e baggianate che hanno creato un depistaggio collettivo senza uguali nella nostra storia recente. Qualcosa che dovrebbe insegnare molto sulla psicologia delle masse, prima ancora che le fake news, le “camere dell’eco” e i magheggi di Cambridge Analytica rompessero per sempre l’età dell’innocenza dei nostri social: compresa l’idea che possano essere l’elisir della democrazia dal basso reinventata a colpi di post e di clic.

La storia di quel rapimento – il primo di un bambino, si disse, ma qualcosa in realtà c’era già stato – l’ho già raccontata (il link è questo: https://ilmediterraneo.blog/2023/01/31/il-caso-lavorini-1-altro-che-lobby-di-pervertiti-il-rapimento-del-bambino-di-viareggio-nel-69-e-linfanzia-della-stagione-delle-stragi-da-piazza/). Adesso li chiameremmo pedofili, a quel tempo gli animi più gentili parlavano di «pervertiti», per il gergo strapaesano erano i «capovolti». Una storiaccia di sesso vietatissimo e di passioni sordide nella pancia della provincia ma a un passo da quella Versilia che tutti conoscono. Sangue, sesso e soldi: ci sono tutti gli ingredienti per il menù (la morte di un innocente, i “balletti verdi” come li chiamavano, i quattrini del riscatto) e nessuno ci venne risparmiato. Proprio nessuno: ne parlerò nel terzo round di questo racconto. Prossimamente su questi schermi: magari per dirci che mezzo secolo non è passato in modo del tutto invano.

Però per ora non è tempo di ottimismo, anzi. Provate a ripescare dalla memoria qualcosina e vedrete che la storia di Ermanno resterà inchiodata a un’atmosfera di sesso e peccati inconfessabili. Eppure non è così. Non abbiamo neppure l’alibi del fatto che la giustizia non ha fatto luce o i giornali non ne hanno parlato. Beninteso, per mesi e mesi i giornaloni hanno inzuppato il pane arando tutto il campo possibile di vizi e sfizi, purché avessero a che fare con il sesso. Ma a un certo punto il magistrato Pierluigi Mazzocchi ha dato una sterzata alle indagini e ha portato a casa uno scenario che non aveva più a che fare con il sesso bensì con il tentativo di un movimento monarchico di finanziarsi con il riscatto. Non solo: anche la stampa migliore qualcosa ha detto. Come Marco Nozza, inviato del Giorno, che a botta calda anticipa perfino il pm e, accorgendosi che ha una spillina monarchica alla giacca, riesce a scoprire che è in realtà il leader dei giovani monarchici locali il giovane (Vangioni) che cerca di infilarsi nel lavoro dei carabinieri a suon di pettegolezzi, mezze verità e bugie clamorose. Caso vuole che, appena esplode il caso Lavorini, il circolo viene chiuso in fretta e furia. Non c’è solo Nozza: vale la pena rileggersi il libro di due giornalisti che saranno poi in servizio al Tirreno: si chiama “L’infanzia delle stragi” e lo firmano Roberto Bernabò e Corrado Benzio.

Gli indizi sono come le ciliegie, l’uno tira l’altro: presto si scopre che quel circolo è praticamente il club di scombinati che ha pensato, progettato, realizzato il rapimento e nascosto il corpo del povero Ermanno. Benché in primo grado si vada in tutt’altra direzione, l’appello sentenzierà che la verità giudiziaria sulla tragica fine di Ermanno ha a che fare con i sogni di gloria di un circolo di destra, e la Cassazione metterà l’ultimo timbro a questo scenario. Anche se solo pochi applaudiranno il coraggio del pm Mazzocchi che se n’era infischiato delle pressioni per liquidarla come il frutto di una «combriccola di capovolti pervertiti», come disse un inviato dell’epoca rovistando nella pattumiera dei peccati di provincia. Eppure quel genere di “combriccola” e quel sentore di sangue-sesso-soldi è rimasto appiccicato a quest’assassinio anche a distanza di tanto tempo.

Sesso o eversori filo-Savoia, solo un’altra bega di balordi locali? Forse. Ma solo se si fa finta di non accorgersi che in quello stesso 1969 sarebbe partita pochi mesi più tardi la “strategia della tensione”: a dicembre ecco la bomba di piazza Fontana. Anche lì con un depistaggio: la “manina” era quella delle gang neofasciste in tandem con i vertici deviati dei servizi segreti, il “colpevole” designato erano gli anarchici per scatenare la paura della “maggioranza silenziosa” che avrebbe fatto montare la richiesta di una svolta autoritaria. La risposta all’ “autunno caldo” delle fabbriche. Non è tutto: sempre a dicembre, ma nell’anno successivo, solo in extremis si sarebbe fermato il golpe guidato dal principe fascistissimo Junio Valerio Borghese. Stop quando ormai tutto era partito, i golpisti si erano pure impossessati del deposito di armi in casa del Viminale.

Stiamo mettendo in fila le pere con le mele, basandoci unicamente sulla convergenza dei tempi? Intanto, i tempi non sono poca cosa. Ma i due elementi citati sono solo alcuni tasselli di questo mosaico. Basterebbe fare un po’ più mente locale ed ecco che intuiremmo la lunga striscia di azioni eversive per spingere il Paese a uno smottamento in direzione di una svolta autoritaria. Seminare il terrore doveva servire a tamponare le falle di un sistema politico che non riusciva più a costruire consenso e a integrare al proprio interno i contraccolpi sociali. Le cifre le fa il gip di un tribunale ligure nel ’90: in sette anni a partire dal ’69 si possono contare «4.584 attentati, l’83% dei quali di chiara impronta della destra eversiva» (con un bilancio di «ben 113 morti e 351 feriti».

Che dietro il rapimento di Ermanno c’entrasse la politica l’aveva in qualche modo intuito anche babbo Lavorini: non avrebbe senso altrimenti l’aspettativa che gli avrebbero restituito il figlio «dopo Carnevale». Però probabilmente guardava agli extraparlamentari di sinistra, quelli che poche settimane prima avevano contestato la gran festa della borghesia per San Silvestro alla Bussola. Detto per inciso: quella contestazione (con tanto di proiettile vagante, probabilmente sparato dalla polizia, che spedisce in carrozzella un giovane per il resto della vita) era la manna dal cielo per chi voleva che la maggioranza silenziosa si mettesse paura. Non doveva esser poi così inaspettata se all’ultimo minuto la Rai annulla il collegamento di fine anno con la Bussola…

La politica c’entra anche perché fin da subito il lavoro investigativo viene preso in mano da un alto ufficiale dei carabinieri arrivato da Livorno: si tratta di un ex collaboratore di fiducia del generale golpista De Lorenzo (vedi il quasi-golpe del ’64) e non sta tanto a badare se il protagonista sedicenne «ha dato cinque versioni diverse» (cit. Bernabò-Benzio), a suon di «inventare continuamente particolari nuovi» e di andare a legare l’asino dove vuole chi lo interroga, ecco che nel giro di 40 giorni dal ritrovamento del cadavere chiude il caso a doppia mandata. Tira fuori il nome dell’assassino, dice di averne la confessione. E il movente è lì: torbidi legami di pineta, prostituzione minorile da “ragazzi di vita”, un sottobosco di figure in vista travolte dalle proprie scandalose abitudini sessuali scaraventate in piazza. Ne riparleremo: non è morto solo il piccolo Ermanno.

La politica c’entra perché da poche settimane Viareggio è finita in mano alle sinistre: la nuova giunta a guida socialista comprende Pci e Psiup, è dal ’48 che la città ha sindaci targati Dc (salvo un Psdi). Oltretutto uno dei leader socialisti ha osato rompere il tabù e ammettere che i contestatori della Bussola esprimono un disagio sociale che non va trascurato. Obiettivo raggiunto: alla fine arrivano le dimissioni sia del sindaco di sinistra (e dopo il commissario prefettizio si tornerà a giunte a guida Dc) sia del presidente dell’Azienda di soggiorno (dopo gli attacchi dei balneari, allora roccaforte delle destre).

Il paradosso è evidente. Le indagini si orientano ben presto su un gruppo di giovani, li catalogano come “ragazzi di vita” ma quel che li accomuna è soprattutto la militanza a destra. Anzi, c’è un dirigente missino che cerca di combinare testimoni per far uscire dai guai uno di loro che, siccome era ritenuto fragile, rischiava di trascinare giù tutti. Eppure è la destra che va all’attacco: nasce un comitato che invita i cittadini ad armarsi, un foglio della destra più dura dà «la sveglia» al popolo spronandolo, come ricorda Nozza, a «usare le mitragliatrici».

Sbaglierebbe mira però chi ne facesse una bega a misura tutta versiliese: l’industria del turismo che  pretende di dettare legge come sempre e pensa di non farcela con la giunta rossa, i ceti chic e il “generone” viareggino con il cuore a destra che temono di ritrovarsi la contestazione sessantottina fra i piedi, un po’ di regolamenti di conti fra il “mondo di sopra” e quello “di sotto” dei “ragazzi di pineta”. Bisogna alzare lo sguardo e notare che fuori dal recinto locale qualcosa si sta muovendo in Italia: ci siamo dimenticati anche l’ondata di provocazioni chiamata “operazione manifesti cinesi” con cui, sotto la regia di una “squadra” di 007 anticomunisti, i ragazzi guidati da Stefano Delle Chiaie (do you remember i nerissimi di Avanguardia Nazionale  e dintorni?) appiccicano sui muri migliaia e migliaia di manifesti firmati da false sigle comuniste per richiamare la vicinanza fra i “rossi” e quel tagliagole di Stalin.

Ma fin lì nessuno si fa male. Niente vittime anche nelle bombe che, sempre nel ’69, poche settimane dopo il ritrovamento del corpo di Ermanno, esplodono allo stand Fiat della Fiera di Milano e alla stazione di Milano. Sono le prove tecniche di quel che accadrà alla Banca dell’Agricoltura: anche perché già allora le indagini si indirizzano verso gli anarchici. Bersaglio perfetto per la repressione: per giunta sono infiltratissimi da fascisti e agenti provocatori. Com’era notoriamente un “fascio” il tipo – quasi un sosia di Valpreda – che si infila in un circolo anarchico milanese e farà di tutto per farsi notare dal tassista appena prima dell’attentato choc in piazza Fontana, a due passi dal duomo.

La fascinazione per combinare un bel “botto” dalle parti del duomo di Milano c’è già da prima: alla Rinascente, una sorta di “H&M” di allora ma con in più l’idea di incarnare il simbolo del boom economico, sono stati trovati ordigni sia a fine agosto che poco prima di Natale. Prove tecniche: il primo ordigno, come ricorderà l’allora capo dell’ufficio politico della questura di Milano ascoltato in commissione parlamentare, non esplose perché la pila per far incendiare il nitrato di potassio si era rivelata inadeguata, cambiano sistema ma è un vigilante a sventare il pericolo. Lo stesso alto funzionario di polizia ricorda che qualcosa del genere era avvenuto in precedenza «al Banco ambrosiano, alla Banca d’Italia, alla chiesa di San Babila».

Come si vede, Milano è il parco giochi dei bombaroli neri che amano farsi passare per anarchici, e le banche cominciano a mostrarsi come obiettivi privilegiati. Non solo le banche, anche i treni. Come avviene nell’agosto ’69, quando fra venerdì 8 e sabato 9 otto bombe esplodono a bordo di treni quasi in contemporanea in varie zona d’Italia. Fanno cilecca invece le ultime due (nelle stazioni di Milano Centrale e di Venezia) ma c’è da farsi venire i capelli ritti: tutte queste bombe insieme sono la riprova che non si tratta di un matto da manicomio bensì di una organizzazione terroristica. E verso chi pensate che si indirizzino i sospetti? Indovinato: gli anarchici. Era andato così anche per le banche. Eppure tanto nell’uno come nell’altro caso saranno condannati Giovanni Ventura e Franco Freda, l’ultradestra veneta nera come la pece.

In tutto questo bailamme c’entra anche Livorno, e come abbiamo visto per la bomba alla Rinascente milanese, torna a manifestarsi questa predilezione per il mese di dicembre: più gente negli uffici al chiuso, più choc per il contraccolpo sul periodo natalizio. La notte di Natale esplode un ordigno davanti al portone del Tribunale di Livorno: sventrato il cancello ma non ci si scompone più di tanto. Del resto, l’attenzione di tutti è catturata dall’Apollo 8 che ha compiuto il cosiddetto “viaggio interplanetario” – in realtà un’orbita Terra-Luna – ma è yankee e viene raffigurata come una svolta per l’umanità: in effetti, sette mesi più tardi  «un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità» lo compirà davvero l’astronauta Neil Armstrong mettendo piede sulla Luna.

Il Telegrafo si lascia andare a un vecchio tic dei cronisti di nera quando le indagini sono nel buio pesto: gli accertamenti sono «attivissimi», solo che non cavano un ragno da un buco. E comunque non ci si scompone granché: pezzi non di apertura, un certo scetticismo sulla rivendicazione da parte di «un sedicente gruppo anarchico». Più tardi però con un qualche pasticcio di date, quando ci sarà da incastrare Valpreda, si finirà per prendersela con un militante livornese e uno studente pisano, pur di impastrocchiare comunque qualcosa che porti acqua al mulino della pista anarchica. Senza contare che la stessa notte forse la stessa mano fa esplodere un ordigno davanti a una caserma dei carabinieri a Piombino, a distanza di pochi giorni da quando un altro botto aveva colpito la pretura piombinese.

Si potrebbe andare avanti per mille righe: se il giornalista Gianni Barbacetto ha dato alle stampe per Garzanti un libro dedicato alla strage di piazza Fontana come «il primo atto dell’ultima guerra italiana», conviene qui seguire la pista di Nozza, Bernabò & Benzio (oltre che del pm Mazzocchi) per vedere che c’è stata una fase di rodaggio. Se ne parla, per dirne una, in un lavoro di un altro cronista, Paolo Morando, che per Laterza ha scritto “Prima di piazza Fontana: la prova generale”, un’inchiesta di 370 pagine e più di 600 nomi messi in fila.

Nota di servizio: quest’ultimo testo è possibile ordinarlo in libreria o online ed è reperibile anche nella biblioteca livornese dei Bottini dell’Olio o in tante biblioteche segnalate dall’Opac Sbn (inserendo il titolo nel form di ricerca su opac.sbn.it) o grazie al prestito interbibliotecario.

Post scriptum: queste righe sono dedicate al lavoro giornalistico quotidiano di tanti cronisti che magari non compaiono nei talk show tv o stanno nel retrobottega del circo mediatico, eppure hanno consentito di accendere – insieme a magistrati e investigatori coraggiosi – una lucina per rischiare un po’ della notte della Repubblica.

 

 

 

 

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