Some of the stories that I'd like to print (cit. Ochs feat. Zuc)
Tempo per la lettura: 9 minuti
Il Covid, il colera e la “spagnola” peggio delle bombe: aumentano poveri e diseguaglianza
Mascherine amarcord (dal blog Biblioteca del Tempo)
Guardiamo dentro le cifre dei contagi delle grandi emergenze sanitarie (e della guerra): gli effetti su Livorno, la reazione ben più balorda di quella di adesso, gli effetti reali di lungo periodo. Al di la delle solite chiacchiere

di Mauro Zucchelli

Il Covid è stata la più grande emergenza sanitaria degli ultimi cent’anni anche a Livorno: superato sì dal numero complessivo dei decessi negli oltre cento bombardamenti alleati e dall’esplosione delle mine della ritirata nazista nella seconda guerra mondiale. Ma neppure poi di tantissimo: i due bombardamenti più devastanti – quello del 28 maggio ’43 e quello un mese esatto più tardi – fecero l’uno 280 vittime e l’altro 209. È arrivato invece a quota 604 il numero dei decessi che a Livorno città sono stati attribuiti al Covid dall’inizio dell’emergenza pandemia fino a giovedì 9 marzo.

Tanti, tantissimi nell’arco di quasi tre anni: praticamente uno su dieci, visto che nel frattempo si sono contati 6mila decessi. Con un picco di morti di/per/con Covid nel 2020 (più 11,5% rispetto a dodici mesi prima): perché il coronavirus ha accelerato tanti decessi portandosi via un bel po’ di persone dalla salute precaria. Con una diminuzione nel 2021 (meno 6,6% a confronto con l’anno prima): perché il surplus di decessi del 2020 aveva anticipato una parte dei tanti “fragili” che, non ci fosse stato lo stramaledetto virus, si sarebbero spenti qualche mese più tardi.

È sparito come allarme che ha sconvolto individui e collettività ma non si è smesso di morire di/per/con Covid: è accaduto una dozzina di volte nell’ultimo paio di mesi.

Non dimentichiamoci però che intanto non si è smesso di morire per cause “normali”. Anzi, in nove casi su dieci anche durante l’emergenza Covid la fine è arrivata per le solite ragioni: uno su tre è avvenuto per malattie cardiovascolari e il 28% è stato causato da tumori. Sbaglierebbe mira chi credesse che questi decessi “normali” non abbiano avuto niente a che fare con il Covid: la riorganizzazione dell’intera macchina sanitaria, soprattutto ospedaliera, a fini di cura di una emergenza ad altissimo rischio di contagio ha fatto sì che sia passato in second’ordine tutto il resto. A cominciare dal monitoraggio e dalla prevenzione di tutta una serie di patologie più o meno croniche, che ovviamente non sono andate in “vacanza”.

Mascherina con singolare macabra decorazione (da Dirigentisenior di Federmanager Lombardia)

Impossibile fare diversamente: sono stati fatti errori, e l’inchiesta di Bergamo ce lo conferma. Ma gli effetti non saranno quelli di sbattere alla gogna una serie di personaggi, tecnici o politici che siano: servirà a mettere in primo piano la “sanità difensiva”, cioè pratiche che hanno come ragion d’essere l’esigenza di difendersi da eventuali cause legali successive più che a salvare il paziente. Tradotto: la fuga dalla firma. Lo vedremo in occasione della prossima epidemia: sono anni e anni che si discute del rischio della perdita di efficacia degli antibiotici per via della farmacoresistenza, figurarsi che alla fine già nel 2016 ne hanno discusso perfino all’Onu. Dunque, nel massimo consesso politico-istituzionale: segno che gli addetti ai lavori ne parlano da tanto tempo. Può essere utile guardare qui sul Washington Post (www.washingtonpost.com/news/to-your-health/wp/2016/09/20/the-worlds-leaders-are-finally-holding-a-summit-on-superbugs/) e sulle spiegazioni della Società di malattie infettive che trovate invece qui in modo comprensibile non solo agli specialisti (https://www.simit.org/simit/progetto-resistimit/superbugs).

Ho fatto un errore: doveva essere un capoverso tanti per entrare in argomento, l’esito della vicenda giudiziaria bergamasca mi ha spinto fuoristrada. Colpa del fatto che, l’ho detto mille volte e anche adesso, non è mai esistita nella storia una minaccia del genere. Esageravo: anche se il paragone va messo fra mille virgolette. Ce lo insegna un tuffo all’indietro nella nostra storia: è per dare un’occhiata ad altre due grandi choc che hanno “terremotato” l’esistenza dei nostri genitori o dei nostri nonni. Un raffronto un po’ a spanne, ma serve forse ad avere l’idea della tempesta che abbiamo attraversato. Tutto sommato, restando in piedi (o quasi).

Di cosa stiamo parlando? Di altre due circostanze in cui la Grande Mietitrice, la Morte, ha colpito duramente la nostra gente di allora. Nel 1911 l’ultima epidemia di colera a Livorno, sette anni più tardi l’incubo della “spagnola”.

Il colera ha fatto 460 morti nel giro di poche settimane. Con una capacità altissima di ammazzare i contagiati: muore più della metà degli 827 casi accertati. Dove? In centro sono 285 i casi, quasi 200 a San Marco, 131 in Borgo Cappuccini e una cifra simile in Venezia. Il 1911 l’hanno vissuto i nostri bisnonni e in molti casi anche i nostri nonni, mica parliamo dei tempi di Carlo Magno o di Pipino il Breve. Non era la prima volta che il colera colpiva qui da noi: nel 1893 aveva ammazzato 173 persone, soprattutto nel cuore popolare della Venezia; nel 1864 le vittime sono 824 e il “morbo”, così lo chiamavano, arriva con un vascello proveniente da Tunisi. Tutta colpa dei barconi in arrivo dal Nordafrica? In quel caso sì, ma nei due precedenti no: nel 1854  il contagio entra in città per via di due navi provenienti dalla Francia, idem (Marsiglia) nel 1835 con 1.132 vittime e due anni più tardi con altre 311. E lo stop di ogni attività.

Quella doppia epidemia di quasi duecent’anni fa, quando c’era ancora il granduca asburgico, ci lascerà la costruzione della chiesa di Santa Maria del Soccorso come una sorta di ex voto per lo scampato pericolo e, soprattutto, il capolavoro del Beato Angelico con la drammatica immagine del Cristo coronato di spine (troppo poco conosciuto perfino dagli stessi livornesi).

La cronaca locale del Telegrafo nell’estate 1911

L’epidemia del 1911 ci lascerà invece il palazzotto dell’ex circoscrizione 4 (ora ospita una banca) sulla cantonata di piazza Damiano Chiesa: lo ricorda Ugo Canessa, prezioso cultore della memoria locale. Era vicino al luogo dove sorgerà pochi anni più tardi il nuovo ospedale di viale Alfieri, servirà coma un “ospedalino” di emergenza.

È curioso vedere come venne affrontata dall’opinione pubblica quell’emergenza sanitaria. Sfogliando la stampa locale balza agli occhi la reazione di una Livorno che, prima di essere industriale, fra Ottocento e Novecento aveva costruito il proprio lungomare come destinazione turistica per la buona borghesia toscana: avessero dovuto costruirlo ai tempi delle “Sorelle Materassi”, Briatore e la Santanché  il Twiga non l’avrebbero piazzato in Versilia bensì forse ai Pejani o vicino alla Rotonda di Ardenza. Figurarsi che le cronache del “Telegrafo” riportavano con puntiglio il benvenuto ai «graditissimi signori Ospiti» elencando i nomi della bella gente che veniva a «passare le bagnature» qui da noi.

In un contesto simile si spiega come mai il giornale locale se la prende all’inverosimile con chi mette in quarantena o respinge chi arriva da Livorno. Per giorni e giorni si evita qualsiasi accenno a cosa sia, semmai c’è una scandalizzata reprimenda con chi «diffonde male voci». Di cosa? Non si sa. Comunque, si pubblicano incomprensibili consigli di igiene su come lavare il cibo, si mette l’accento su provvedimenti altrimenti insignificanti come il divieto di vendita di cozze. Li firma il sindaco Giovanni Targioni Tozzetti, e qui merita di fermarci un istante: è l’amico di Pietro Mascagni che gli scrive con Guido Menasci le parole della “Cavalleria rusticana”, è stato direttore del giornale locale, è diventato sindaco da pochi giorni e gli ex colleghi non fanno mistero di rivendicarne l’amicizia. Risultato: il colera non esiste, e chi dice il contrario peste lo colga. Oltretutto Livorno in quei giorni celebra le glorie di Ottavio Pratesi, campione di bici che si presenta al Tour de France come singolo al di fuori dalle squadre (verrà poi battuto solo dal coagularsi di interessi per ostacolarlo, lo racconta bene Maurizio Zicanu su www.usv1919.it/OTTAVIO-PRATESI-NON-DEVE-VINCERE-Una-storia-dimenticata-del-Tour-1912.htm). 

La stampa locale segnalava nome per nome l’arrivo dei villeggianti più illustri: era la Livorno paradiso turistico vip

In effetti, all’inizio i casi di colera sono pochi: la “Relazione dell’Ufficiale Sanitario del Comune dott. Luigi Salmi” indica che  l’epidemia di colera «si sviluppò dai primi giorni del mese di luglio 1911 esattamente dal giorno 6 luglio con n. 2 casi; il giorno 9 nessun caso e si è mantenuta fino al giorno 23 luglio, non oltrepassando gli 8 casi». Peccato che se si posa l’occhio sulla rubrichetta dello stato civile ci si accorge che qualche settimana più tardi si contano più di venti nomi fra i “sono morti” e meno della metà fra i “sono nati”, mentre di solito era l’inverso o quasi.

È interessante notare che fino all’ultimo la stampa locale nega tutto: e chi poteva essere se non un pisano a gridare che Livorno bisogna evitarla perché «c’è il colera» (il trafiletto si intitolava “Mascalzonate!”. E come riprova si cita il fatto che all’Accademia Navale tutto fila liscio con il raduno per la prova dei 400 aspirati allievi. Pochi giorni più tardi, però, ecco che la notizia del giorno è l’arrivo di una vagonata di disinfettanti («200 cassette di sublimato corrosivo, 18 quintali di acido fenico greggio, 10 quintali di formalina 75 quintali di lysoform puro…»). Fino a una confessione di autocensura e reticenza, curiose per un cronista: «Nei primi giorni, nei quali si presentò l’infezione a Livorno ci eravamo imposti un ragionevole silenzio, data la poca importanza della medesima o l’insignificante numero dei colpiti»: peccato che fosse colera e che sia morta la metà dei contagiati…

Ma è anche altrettanto interessante rilevare che c’è una reazione forte da parte del municipio: siccome si sospetta che l’acquedotto abbia una qualche parte nel contagio, prima si istituisce nell’emergenza un servizio di distribuzione dell’acqua mediante “botti a cavalli” («in via Goito, in Borgo Cappuccini, in piazza Magenta, in via Cecconi angolo corso Umberto, in via Garibaldi angolo via Riseccoli» e varie altre zone) o cisterne galleggianti (nel fosso nella zona dell’attuale piazza della Repubblica così come in piazza Manin o vicino al Ponte dei Francesi). È però in prospettiva che la classe dirigente livornese vede lungo: Livorno aveva già un piede nella modernità per quanto riguardava il telegrafo, l’illuminazione pubblica, i cinema e i trasporti collettivi. Invece fogne e acquedotto erano rimasti indietro: ecco è in quegli anni che l’assessore Guido Donegani, un imprenditore che poi schiacciandosi sul regime fascista finirà fuori dal radar nel dopoguerra, lancia la realizzazione del nuovo acquedotto che disseta i livornesi agganciandosi all’acqua del fiume Serchio a Filettole. Uno schema di approvvigionamento idrico che vale ancora oggi.

Insomma, saranno stati commessi senz’altro mille errori, ma se guardiamo indietro a cent’anni fa (e forse anche attorno ai protagonisti di oggi) la catastrofe avrebbe potuto diventare un’apocalisse. Come? Semplicemente negandola. Ora contestano al governo di aver deciso i provvedimenti più restrittivi troppo tardi, cioè qualche giorno dopo quando sarebbe stato necessario: ma non era mai accaduto niente del genere in tutto l’Occidente nella storia.

Ha a che fare con il giornale cittadino anche l’altro eroe di questa storia: si chiama  Ivo Bandi e il cognome vi dice giusto, è proprio il figlio del garibaldino che fondò il giornale nel 1877. Anche lui crea qualcosa che resterà (l’istituto Sclavo a Siena). Su cosa si basa la cura del prof. Bandi? È presto detto: far sparire i pagliericci sporchi e disinfettare con la soda caustica i pozzi neri svuotati regolarmente, sanificare anche le case dove non è arrivato il contagio, disinfettanti gratis un po’ ovunque, controlli raddoppiati sulle merci in porto e nei negozi.

E le mascherine? Non risulta, ma Gian Ugo Berti racconta sul Tirreno che, in occasione dell’epidemia di spagnola alla fine della Grande Guerra, le “gabbrigiane” – cioè le contadine che dal Gabbro venivano a vendere polli e uova in città – si proteggevano bocca e naso con una sciarpa.

Ma la batosta più tremenda, perlomeno dal punto di vista numerico, è stata l’influenza spagnola nel 1918: lo studio di Francesco Cutolo per l’Istoreco pistoiese segnala che a Livorno città si sono contati 1.071 morti. Non si pensi che i no-vax siano una “peste” da social: c’era anche allora chi sfotteva le misure igieniste anti-contagio (come la rivista conservatrice “Guerin Meschino”).

Vale la pena di ascoltare uno studioso di storia economica che si occupa di diseguaglianze come Guido Alfani su lavoce.info: a differenza della peste trecentesca, gli “ingranaggi” sociali di trasmissione del colera e ancor di più dell’influenza spagnola segnalano che la diffusione del contagio fa aumentare la diseguaglianza. Anche al di là di una apparente riduzione iniziale: in realtà, non c’è nessuna “livella” tipo Totò, al contrario l’effetto riequilibratore – questa la sintesi del suo ragionamento – deriva dallo sterminio della fascia dei più poveri. Citando l’accurata analisi di Sergio Galletta e Tommaso Giommoni, prof del Politecnico di Zurigo, sottolinea che «la spagnola in Italia portò a un aumento, non a una contrazione, della disuguaglianza». Il motivo? Causò «disoccupazione e perdita di reddito soprattutto negli strati più svantaggiati». L’effetto è stato misurato in Svezia: ad ogni vittima dell’influenza spagnola alla fine della Grande Guerra corrisponde l’aumento di «quattro nuovi poveri».

Vabbè, interesserà gli storici e quanti s’appassionano alle ragnatele del trapassato remoto, viene da dire. Mica tanto: il prof. Alfieri già dall’autunno 2020 leggeva analogie fra Covid-19 e spagnola, dicendo che «vi è ragione di temere un incremento della disoccupazione tra i più poveri, sia come effetto diretto della pandemia sia tramite le politiche di mitigazione, quali i lockdown, introdotte in varie parti del mondo». La sua previsione è netta: «l’esperienza storica suggerisce (…) che nel caso di Covid-19 prevarranno i meccanismi che tendono a far aumentare la disuguaglianza all’indomani della crisi». Come dire: dietro l’angolo della crisi sanitaria potrebbe esserci una crisi sociale. E pensare che quando scriveva queste note non sapeva ancora: 1) della guerra in Ucraina, che da blitz d’aggressione diventa un conflitto lungo nel cuore d’Europa; 2) del boom dei prezzi delle materie prime; 3) degli sconquassi della catena logistica che hanno incasinato la produzione manifatturiera per mesi e mesi; 4) del record d’inflazione… 

 

7 Comments

  1. Massimo Bianchi ha detto:

    Bella ricostruzione.Credo che questi articoli che stai pubblicando anticipino il succo del dibattito che viene evidenziato dai due articoli sulla necessità di ripercorrere la nostra storia collettivo comparsi sul giornale a firma Tredici e Bettini.La via è questa…che dimostra che a Livorno la Storia non può iniziare da …..domani.Un caro saluto.

    1. Mauro Zucchelli ha detto:

      Io non so. Non ho altra pretesa che raccontare qualche storia un po’ più strutturata della cronaca giorno per giorno. Chissà se ci riesco ma non provarci nemmeno sarebbe arrendersi

  2. MarcoFilippi ha detto:

    Si bella ricostruzione!
    Poco prima del Covid mi è capitato di rileggere i Promessi Sposi… un romanzo di straordinaria bellezza che… andrebbe vietato nelle scuole!
    La parte storica del romanzo è una ricostruzione del nostro Paese sublime. È incredibile come mesi dopo mi sono trovato a vivere in rapida sequenza quello che Manzoni teorizzava: peste carestia e guerra… in un filo che univa presente romanzato passato storico è probabile futuro nei secoli secolorum!
    Una volta di più grazie Mauro per aver restituito su scala ridotta la stessa sensazione
    Alla prossima! 🤗

  3. lucyluxλουτσια ha detto:

    Interessante ricostruzione delle tre epidemie con precisi riferimenti storici e dati statistici. Definirei
    i tuoi articoli ‘saggi brevi’ secondo le normative dell’Esame di Stato istituito nel 1999. Meritano la pubblicazione in modo da essere letti da un pubblico molto più vasto!

    1. Mauro Zucchelli ha detto:

      Grazie prof, io penso che siano soprattutto articoli lunghi. Spero di migliorare e stare di più dentro i limiti. Ma adesso che sono senza i vincoli delle dimensioni di pagina, la tastiera corre nelle praterie del web

  4. Claudio Frontera⁷ ha detto:

    Le due precedenti epidemie a Livorno: uno spunto particolarmente interessante.
    Una ricostruzione ricca di dettagli significativi.
    Caro Mauro, hai regalato una lettura imperdibile.
    Un consiglio: “1918 L’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo” di Laura Spinney. Feltrinelli.
    È uscito nel 2018. In conclusione si chiedeva “La prossima pandemia: arriveremo preparati?” !!!
    La domanda resta attuale dopo la tempesta del Covid 19.

    1. Mauro Zucchelli ha detto:

      Grazie. Io avevo visto alcune cose su Internazionale (dunque stampa straniera ma non letteratura specializzata) risalenti alla seconda metà del decennio scorso sui rischi della resistenza agli antibiotici. E poi il libro di Cutolo sull’influenza spagnola a fine Grande Guerra, dedicato all’impatto di quell’epidemia nella nostra regione. Bisogna riuscire a bucare il recinto che lascia jnnjn ambiente limitatissimo gli studi degli storici, e comunque degli specialisti

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