Alle spalle dieci anni di pontificato che hanno cambiato molte cose (e molte altre no). Ma Francesco in realtà a 86 anni sta costruendo il futuro: a cominciare dal gruppo di cardinali che eleggeranno il suo successore. Con qualche sorpresa e la possibile prima volta di un pontefice dall’Asia: Luis Antonio Tagle, filippino (e un po’ cinese)
di Mauro Zucchelli
Anche il gatto mammone adesso parla dei dieci anni di Francesco, il papa che «i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo». Quel che è stato: il soffio – anzi, l’uragano – di rinnovamento che ha portato dentro la Chiesa. Ma soprattutto: la prima volta che non qualche teologo sessantottino ma una (piccola) parte dei massimi porporati, con l’appoggio di una (robusta) parte della curia vaticana, ha avanzato pubblicamente dubbi sulla fede del pontefice. Fosse accaduto con Wojtyla li avrebbe mandati l’indomani a coltivare le rape fra i ghiacci del Polo Sud, Bergoglio li sta affrontando a viso aperto portando sotto gli occhi di tutti il conflitto. In particolare, in questi tempi è la figura che più insiste sul fatto che vi sia una “terza guerra mondiale” meno visibile solo perché combattuta a pezzi. E con la condanna morale che non si limita a un auspicio ma se mette nel mirino il complesso militar-industriale che sulle guerre fa profitti e prospera: mica una cosuccia qualsiasi.
Vabbè, ne avete sentite fin troppe in questi giorni. Sotto il profilo della geopolitica, vale la pena di ricordare che l’alt-right di Steve Bannon, l’anima dura del trumpismo, aveva individuato non più nel comunismo bensì nei valori di papa Francesco il proprio nemico numero uno da prendere a cannonate: del resto, la sinistra tradizionale si era talmente infatuata del mercato da esser diventata la prima sponsor della globalizzazione della democrazia e dei diritti grazie alla globalizzazione dell’economia. È andata come nell’urbanistica di tante giunte di sinistra: lo scambio fra edificabilità e interesse collettivo (parco pubblico e/o infrastrutture) si ferma a metà. Il privato fa soldi e appartamenti, al momento di ricambiare con utilità di tipo pubblico se ne scorda, fallisce, si perde per strada…
Non perdiamo qui la strada: di papa Bergoglio stavamo parlando. Qui però, anziché guardare all’indietro, interessa declinare l’attenzione verso il futuro. Paradossalmente, un pontefice di 86 anni suonati e ormai per la maggior parte del tempo sulla sedia a rotelle va visto prevalentemente in chiave di costruzione del futuro: è lì il ring fra l’idea di Chiesa che ha Bergoglio e quella dei suoi avversari. Con un’asprezza dello scontro che sembra far tornare a papa Borgia e dintorni: magari non lo avveleneranno ma la guerra è talmente frontale da mettere in dubbio la legittimità dell’elezione (si fa riferimento ad astruse teorie sul cattivo latinorum che Ratzinger avrebbe usato per dimettersi, come a inventare un indizio per consentire di smascherare la falsità della procedura: roba che nemmeno i gialli di Dan Brown).
Il punto però non è il passato: è già ora il dopo-Bergoglio. Anche perché il fronte conservatore-restauratore sogna di ridurre papa Francesco a una sorta di parentesi folkloristica della quale sbarazzarsi il prima possibile grazie a un successore che ne cancelli il ricordo o lo imbalsami in qualcosa di mummificato e inoffensivo. È per questo che quando Bergoglio è stato costretto a muoversi in carrozzina (e, una volta accettato il passaggio, si sa che è difficile ritrovare il tono muscolare per muoversi autonomamente) la sfida si è spostata sulla salute del papa e dunque sulla possibilità che si dimetta. I custodi di questa disperata ortodossia inox – hanno reso la fede un deserto e l’hanno chiamata fedeltà alla tradizione (quando Cristo è stato il primo a superare la precettistica) – si erano ben guardati da farsene un problema nel lunghissimo periodo in cui papa Wojtyla ha portato in pubblico la croce di una durissima malattia: nessuno di loro ne metteva in dubbio la capacità di reggere Santa Romana Chiesa (anche se l’ha fatto per 14 anni avendo il Parkinson), e hanno fatto bene perché la testimonianza del dolore è stata sotto gli occhi del mondo. Ora con Bergoglio è bastato lo spuntare della carrozzina perché qualsiasi apparizione del pontefice gira che ti rigira culminasse sempre nella domanda: darà le dimissioni? E quando? Anche su questo Bergoglio ha accettato la sfida e l’ha portata in campo aperto.
La fine del pontificato di Bergoglio serve però solo ad aprire la fase che più sta a cuore ai suoi avversari: il via al nuovo conclave nel quale cercare un pontefice che si sbarazzi dell’eredità di Bergoglio. Ma c’è un “ma”: a suon di concistori, gran parte di quanti eleggeranno il futuro papa sono stati nominati da Bergoglio. Non sta però qui la novità: in un decennio Bergoglio ha creato 95 cardinali in età valida per il conclave (al momento della nomina) ma anche Ratzinger ne aveva fatti 73 in otto anni, Wojtyla 210 in 27 anni, Paolo VI 145 in 15 anni e Giovanni XXIII 52 in cinque anni. Insomma, grossomodo dieci all’anno: papa Francesco non ha fatto qualcosa di molto diverso dai predecessori.
Quel che ha cambiato davvero è la geografia: con Bergoglio arrivano da un ventaglio di 65 stati un po’ ovunque nel mappamondo (in 21 casi si tratta di porporati di nazionalità mai presenti prima di allora nel collegio cardinalizio).
Se con Giovanni XXIII e il suo rinnovamento la Chiesa ha anticipato il Sessantotto, se con Giovanni Paolo II che arrivava «di un Paese lontano» (Polonia) ha fatto da battistrada alla fine del blocco dell’Est sovietico, se con Bergoglio ha aperto la Santa Sede a un pensare globalizzato, possibile che ora il nuovo pontefice sia all’insegna del contr’ordine compagni? La Chiesa guarda all’Italia ma non ne fa più il “cortile di casa”: è un Paese come gli altri. Papa Francesco il segnale lo manda quando nel 2017 nomina nunzio apostolico per l’Italia un prelato svizzero del Canton Vallese: Emil Paul Tscherrig, lunga carriera nella diplomazia vaticana con gavetta fra Burundi, Caraibi, Scandinavia e Argentina ma nessuna grande nazione di primissima fascia. Obiettivo: uscire dal recinto filo-Ruini di una Chiesa che si attesta nella trincea dei “valori non-negoziabili” e paga il prezzo di sdoganare la qualunque pur di conseguirli. Nessun timore di prendere le distanze dai governi di centrodestra, ma niente remore anche verso il centrosinistra a Palazzo Chigi se è vero che in nome della propria battaglia contro l’industria delle armi papa Francesco diserta il maxi-incontro di Firenze perché dietro c’era anche il ministro Pd Minniti.
Dunque, il dopo: prima di tutto è questione di numeri. Bisogna guardare all’identikit dei cardinali che hanno titolo per votare il futuro papa del dopo-Bergoglio. I 123 attualmente viventi: dieci li ha creati Giovanni Paolo II, trentadue Benedetto XVI e più di ottanta Francesco. Quanto basta per garantire un successore filo-bergogliano? Fino a un certo punto, e non solo per il vecchio detto per cui chi entra in conclave papa ne esce cardinale, cioè è bene non dare troppe cose per scontate, si brucerebbe la candidatura.
Non solo: risulta che solo per sbloccare lo stallo (cioè ben dopo la trentesima votazione in conclave) si possa passare dalla maggioranza dei due terzi a una maggioranza del 51%. Dunque, al fronte conservatore potrebbero bastare 41 cardinali per puntare a costruire un argine di minoranza in grado di bloccare l’ascesa di un bergogliano di stretta osservanza.
Era accaduto così nelle primissime battute del conclave che ha eletto papa Ratzinger, almeno a prestar fede a Lucio Brunelli, ex allievo di Gabriele De Rosa, ex vaticanista del Tg2, che su Limes dice di raccontare il diario di un cardinale presente in conclave quando segnala che nelle prime votazioni era sembrato emergere un blocco anti-Ratzinger che, anziché far quadrato sul cardinal Martini come previsto, si era raccolto attorno all’argentino Bergoglio già allora. Ma solo per poco tempo: contro l’idea di un “mite progressista” aveva fatto breccia l’idea che fosse un paradosso che a battersi per un pontefice del Sud del mondo fosse principalmente l’episcopato nordeuropeo. Si potrebbe intravedere in quel tirarsi indietro di Martini per far posto a Bergoglio, gesuita come lui, anche la capacità di Martini di costruire già il dopo-Ratzinger in quanto impossibilitato lui dalla malattia a giocare in prima persona.
Ma qui si va nel fanta-conclave: è vero che quanto riferito da Brunelli è contestato da Sandro Magister, altro autorevole vaticanista ma lato destro, e tuttavia Brunelli una qualche buona entratura deve averla pur avuta se diventa qualche anno più tardi direttore della tv dei vescovi italiani.
Se guardiamo ai numeri in astratto, si potrebbe dire che fra i cardinali creati da Wojtyla e quelli istituiti da Ratzinger si arriva a 42: aggiungendo che talvolta Bergoglio non ha avuto mano felice nella scelta dei propri uomini (si pensi al caso del cardinal Becciu, da lui promosso e da lui azzerato), si potrebbe considerarla una possibile strategia per poi arrivare a negoziare un candidato meno caratterizzato, un brav’uomo che non faccia danni. Detto per inciso, avrebbe dovuto essere così anche con Albino Luciani (Giovanni Paolo I) ma quando ha cominciato a smontare il maschilismo ecclesiastico proclamando Dio non più solo come Padre ma anche soprattutto come Madre…
Ma i numeri sono destinati a cambiare. Da un lato, perché i cardinali ultraottantenni usciranno di scena: e in questo 2023 accadrà per nove porporati, sei dei quali dell’era pre-Bergoglio. Dall’altro, perché ne arriveranno forse di nuovi: il tam tam vaticano insiste su un nuovo concistoro in agenda prima di Natale.
E quella fuga in avanti proprio negli ultimi giorni per sottolineare che i preti non possono sposarsi per via di una regola della Chiesa e non per un dogma di fede, salvo poi dire che lui non è pronto ad affrontare il problema, è una semplice constatazione “tecnica” ma è anche l’indicazione di un tema che il suo successore dovrà mettere all’ordine del giorno. Anche perché in realtà esistono già piccoli gruppi di sacerdoti che, facendo riferimento a provenienze dall’anglicanesimo o da riti orientali, sono stati accolti nel clero cattolico benché sposati, magari senza far troppo rumore. Comprensibile ma ugualmente curioso che faccia più sconquassi la discussione sul celibato dei preti o sull’accoglienza dei separati piuttosto che l’atteggiamento di fronte alla guerra, alla fame, ai migranti, alle diseguaglianze: esattamente quel che sta al centro del pontificato di Bergoglio senza per questo far della Chiesa una Ong.
Sì, ok: ma alla fin fine chi? Bergoglio già da tempo prepara il “dopo di lui”. C’è un filo di ricostruzione che, non si sa quanto attendibile, che sia stato lo stesso Ratzinger a pilotare non solo la propria uscita di scena ma anche il convergere su Bergoglio individuandolo come colui che avrebbe dovuto tirar fuori la Chiesa dalle secche. Il podcast di Carlo Marroni (Sole 24 Ore) torna a ricordare adesso che la decisione di dimettersi non è stata per Ratzinger un fulmine a ciel sereno o un’alzata d’ingegno: già Andrea Tornielli, ex La Stampa e da cinque anni direttore dei media vaticani, aveva segnalato che nella primavera dell’anno precedente una brutta caduta in bagno picchiando la testa contri il lavandino aveva fatto pensare a papa Benedetto XVI di non farcela più fisicamente a reggere il peso delle responsabilità del papato, lui che era stato sempre soprattutto un intellettuale (e quell’incidente arrivata dopo quello, quasi identico, nel 2009 in Val d’Aosta).
Bergoglio ha già in testa un nome? Forse sì, e forse guarda all’Asia come l’apertura del futuro. In questo caso vale la pena di segnarsi il nome del cardinal Luis Antonio Gokim Tagle, filippino ma anche radici cinemi per parte di madre. Papa Francesco gli ha affidato la responsabilità della “evangelizzazione dei popoli lontani” e da novembre gli ha aperto le porte della curia in fase di riforma, dopo esser stato il numero uno di Caritas Internationalis. Lucio Accattoli, ottimo vaticanista ex Corriere, non ci crede granché: pensa semmai che il successore di Bergoglio ne farà il plenipotenziario della Chiesa che guarda all’Asia. Come che sia, dovremo abituarci e c’è qualcosa che ce lo dice già: adesso non è più il Sud del mondo a esser terra di missione, sono i sacerdoti in arrivo da lontano a occuparsi della Chiesa qui da noi: e tutto sommato senza neppure i timori di rigetto o di reazioni avverse che si sarebbe potuto temere in una comunità spesso anziana come quella ecclesiale.
Ps: la foto che vedete sotto il titolo è stata pubblicata anche da HuffPost. I tradizionalisti se la sono presa perché il papa fa il gesto satanico delle corna. Negli Usa è da almeno mezzo secolo entrato nell’uso e, dall’iniziale linguaggio dei segni, è trasmigrato grazie alle platee rock nel gergo simbolico corrente: è in sigla “I love you”, e comunque una espressione che segna comunità e appartenenza. Ma non si può pretendere che lo capiscano anche gli amici di chi pensava che la tonaca fosse solo “una camicia nera un po’ più lunga”…
Articolo meraviglioso
Sono contento che ti sia piaciuto, caro Stefano. Meravigliosi sono però, ti posso assicurare, per restare fra i vaticanisti di lingua italiana, le cose che scrivono o scrivevano tipi come Luigi Accattoli, Domenico Del Rio, Filippo Gentiloni o Sandro Magister, a seconda dell’orientamento con cui si sente più consonanza. Poi ci sono tanti altri che sostanzialmente sono l’Occidente che rivendica di per sé l’aureola e sente con insofferenza un papa che arriva dal Sud del mondo e non fa il soldato ideologico a difesa di Usa e dintorni. Il resto è solo rose e fiori? No, di errori è lastricata la via del Vaticano forse ancor più di quella dell’inferno. E il primo a esserne consapevole credo sia quell’omino vestito di bianco che vedemmo tutto solo nel deserto di notte di piazza San Pietro che è un po’ il deserto di tutti noi
mz
Un Papa immerso nella realtà nella quotidianità e nell’utopia, forse quel cattolicesimo ormai lontano dal messaggio evangelico, dopo Francesco potrebbe ripartire dalle persone e dalla vita vera … e io sono ateo grazie Mauro ancora un contributo interessante
Una analisi condotta con serietà di argomentazioni, che sa guardare avanti, libera da ideologie e precomprensioni. La Chiesa da eurocentrica si è fatta mondocentrica, quindi si sente più incerta nell’essere nella storia contemporanea. Il bisogno di sicurezza ha portato alcuni/molti alla dogmatizzazione e al tradizionalismo liturgico nell’idea di poter traghettare il passato nel presente perchè diventi futuribile. Ma san Paolo ci dice che “tutto è vostro…: la via, la morte, il presente, il futuro, tutto è vostro e voi siete di Cristo…” Cor 3, 21-23, il passato non ci appartiene. Mi pare che Fancesco lo abbia ben presente, non sempre ha chiaro il futuro come per ciascuno di noi, costretto a barcamenarsi tra tante e diverse chiese.Ma una cosa ha chiara che “dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.” Fil 3,13-14
Anche se al termine del suo pontificato (speriamo il più tardi possibile) Bergoglio dovesse essere considerato un incidente o una parentesi, in realtà il suo lascito sarà di lungo termine.
Lo spostamento del centro della Chiesa cattolica dall’Europa alla dimensione globale è irreversibile.
Sono d’accordo. Ma vedo nelle democrazie occidentali una suicida vocazione a riservarsi in una logica di dominio che chiamano export della democrazia: è la rinuncia al soft power dell’egemonia per lasciar parlare i carriarmati (o i droni militari). La guerra in Ucraina mette l’uno contro l’altro una ex grande potenza (che ha costruito una classe dirigente di spie e oligarchi arricchiti con privatizzazioni-rapina) e un blocco occidentale (che non si rende conto del fatto di non avere dalla propria parte Cina India e l’oriente di Afghanistan Pakistan Iran ecc, chissà cosa di Africa e Islam, forse neanche tutta l America Latina: cioè più di metà del mondo).
caro Mauro,
condivido le tue preoccupazioni circa l’Ucraina, tuttavia non intravedo una vocazione suicida nell’Occidente: la condanna dell’invasione russa è stata respinta solo da 5 paesi su 173. 37 si sono astenuti e 141 hanno condannato Mosca, senza se e senza ma. In conseguenza dell’invasione, Svezia (finora neutrale) e la Finlandia (oltre 1600 km di confine con la Russia), hanno chiesto di entrare nella Nato. Oltre ai ventisette paesi europei che hanno confermato aiuti anche militari e finnaziari all’Ucraina, e agli USA, al Canada e all’Australia, anche importanti paesi asiatici come il Giappone e la Corea del Sud hanno confermato e mantengono il loro sostegno anche materiale e militare a Kiev. In Georgia, repubblica ex sovietica, si svolgono manifestazioni popolari in cui sventolano bandiere europee.
La Russia è isolata e coperta, parziamente, solo da una incombente quanto ambigua Cina, cosa peraltro pericolosissima per gli equilibri mondiali e militarmente supportata da paesi impresentabili come l’Iran e la Corea del Nord. Soprattutto dopo la richiesta di arresto di Putin da parte del Tribunale Internazionale de L’ Aia, per reati comprovati di natura orrendamente criminale, come la deportazione di bambini, l’isolamento anche morale della Russia è molto ampio.
Non si è ripetuto l’errore storico della Conferenza di Monaco , che, con l’appeasement nei confronti della Germania nazista, aprì le porte alla Seconda Guerra Mondiale.
Quello sì che fu un atteggiamneto suicida, come le storia ha dimostrato!
Ciao
Claudio