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Aldo Moro/1: il vescovo Ablondi e la trattativa segreta per salvarlo, il Vaticano (contro Paolo VI) lo bloccò così
Storie di preti, cardinali e papi dietro le quinte del sequestro del leader cattolico che voleva aprire una pagina nuova nella politica italiana: con Moro 45 anni fa cambia rotta il destino dell’Italia in un cacciucco di misteri

di Mauro Zucchelli

«È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera». Le parole di Caifa, capo dei sommi sacerdoti, non le troviamo solo nel capitolo 11 del vangelo di Giovanni: quasi duemila anni fa hanno rappresentato la “pietra tombale” con cui il leader della casta di religiosi ebraici di allora chiudeva ogni discussione su cosa fare di quel tipo chiamato Gesù Cristo. Quasi duemila anni più tardi le ha riprese un big della nomenklatura religiosa cattolica di adesso. Paradossale, no? Spende la vita per attestare di aver fatto di Gesù Cristo la propria ragione di vita e poi segue il comportamento del mandante di chi l’ha assassinato.  La condanna a morte riguarda qualcuno che non era di natura divina ma aveva ugualmente un ruolo molto importante nell’Italia degli anni ’70: si chiamava Aldo Moro ed era il numero uno del partito (cattolico) che fin dal dopoguerra aveva in pugno il governo del Paese.

Proprio in quel giovedì di quasi primavera con vento diaccio e cappotto, Moro stava portando in Parlamento l’apertura ai comunisti di Enrico Berlinguer, ex amici degli anni della Resistenza e successivamente ex nemici mortali. Benché pochi anni prima, guardacaso proprio nella Livorno in cui la sinistra si era spaccata in due ed era nato il Partito comunista, Berlinguer insieme al massimo dirigente comunista spagnolo Santiago Carrillo aveva disegnato l’identikit di qualcosa di svincolato dall’Urss: l’eurocomunismo.

Sono passati quarantacinque anni esatti esatti da quelle parole Caifa-style ed è come se parlassimo del Risorgimento, di Carlo V o delle guerre puniche. È vero che gli ultrasettantenni di oggi quei giorni li hanno vissuti in prima persona, ma non c’è più nemmeno l’ombra di quei protagonisti, di quei partiti, di quel sistema istituzionale, di quell’ingranaggio nelle relazioni interne al sistema politico. Niente. Niente di niente: anche se talvolta – ma è solo propaganda – la destra torna a parlare a vanvera della minaccia comunista, serve solo nella “costruzione del nemico” che è diventata la logica di funzionamento delle appartenenze politiche prima ancora che una realtà effettiva.

Il Caifa del 1978 è un ecclesiastico di origini irpine di cui nessuno si ricorda più ma è stato un “generalissimo” della curia vaticana: lui il comunismo, quello in salsa asiatica di Mao Ze Dong, l’ha visto con i propri occhi quando nel ’59 la Santa Sede lo spedisce come nunzio apostolico in Cina. Esattamente mentre si chiude in fretta e furia la stagione dei “cento fiori” con il tentativo di aprire un po’ la società cinese che aveva vissuto la collettivizzazione a tappe forzate con più di un milione di morti. Altro che apertura, i “fiori” vengono sterminati col bulldozer ideologico: Caprio si affaccia alla Cina mentre da quelle parti si vive la più grande carestia della storia (decine di milioni di morti per fame) e poco più tardi Mao lancia le purghe su vasta scala con la “grande rivoluzione culturale proletaria”.

Chiunque capirebbe che qui in Europa la situazione è ben diversa ma è questo che c’è nella testa di quel rigido uomo di Chiesa che la mattina del 3 maggio ’78 – sei giorni prima che il cadavere di Moro venga ritrovato nel baule di una Renault nel centro di Roma – riceve il vescovo di Ivrea, monsignor Luigi Bettazzi. Ho detto che è importante, e sono stato basso: Caprio, sostituito della segreteria di Stato, è praticamente il numero due nel puzzle di potere della curia vaticana. Bettazzi quella mattina è lì davanati a lui per chiedere un mezzo avallo a una iniziativa pensata con altri due vescovi, Clemente Riva ausiliare a Roma e soprattutto Alberto Ablondi, astro emergente dell’episcopato più sensibile al rinnovamento conciliare. È arrivato da tempo a Livorno prima per affiancare monsignor Emilio Guano, uno dei “padri” del Concilio, poi come titolare in prima persona dal ‘70.

Bettazzi è quello che va in Vaticano, la regia del tentativo sembra averla in mano padre Davide Maria Turoldo, figura straordinaria di religioso e di poeta-profeta che con l’abito dei Servi di Maria (e grazie sia all’amicizia con il confratello Camillo De Piaz sia all’affetto del cardinale Carlo Maria Martini) era riuscito a farsi aprire molte porte, le più impensabili. A ciò si aggiunga un aspetto: una parte delle Br nasceva dalla radicalizzazione di elementi nati in ambienti Pci (soprattutto in zona Reggio) ma c’è tutto un ceppo che ha un retroterra cattolico, a cominciare da Curcio e Cagol.

In concreto cosa? Si offrivano come ostaggi al posto di Moro: erano tutti e tre più giovani dello statista democristiano (l’unico sopravvissuto è Bettazzi che compirà a novembre cent’anni) ma era il gesto che contava: di fatto, sia pure solo per ragioni umanitarie e non da istituzioni politiche italiane, c’era una apertura di trattativa. Dicono ancora adesso alcuni fra i brigatisti di allora che non sarebbe bastato e che il segnale doveva darlo la Dc. Ma ne siamo sicuri? E le crepe dentro le Br, una parte delle quali era contraria all’assassinio di Moro, non si sarebbero ampliate? Il giudice Sossi, dopo avergliene dette di ogni, lo rimandarono a casa. Non è tutto: c’è chi fra gli ex brigatisti ha detto chiaro e tondo che avevano reso noto un elenco di brigatisti detenuti da liberare, erano 13 e tuttavia sarebbe bastato anche che uno solo venisse liberato, magari come gesto autonomo da parte della magistratura per motivi umanitari: il nome c’era già ed era quello di Paola Besuschio, malata grave.

Bettazzi si illude di avere la strada in discesa o quasi. Promette nessun coinvolgimento diretto del Cupolone, sarà una iniziativa personale dei tre prelati che se va male non comporterà imbarazzi alla Santa Sede. Oltretutto si tolgono le castagne dal fuoco al pontefice: papa Paolo VI le sta inventando di tutte per dire che lui ha molto a cuore la vita dell’amico Moro. Non è un modo di dire, i due sono davvero “amici”, e senza neanche tante virgolette: amici fin dai tempi della Fuci, l’associazione ecclesiale che raggruppa gli universitari. Di quell’organizzazione, così importante come luogo di formazione per le nuove leve di intellettuali cattolici italiani, non è un caso che sia stato assistente Ablondi. Bettazzi, quell’altolà non se l’aspetta. Prova a riprendersi in mano il pallino: dice che allora si muoveranno senza nessun avallo né protezione. Ma il big della curia gli sbatte in faccia il diktat: caro monsignore, lei è venuto qui a chiedere il permesso e non gliel’ho dato, dunque ora lei ferma ogni tentativo e basta. Tradotto: è l’ordine di un superiore, e che superiore…

In Vaticano c’era – lo attesta con precisi riscontri il libro di Annachiara Valle, giornalista ex Avvenire e ora Famiglia Cristiana, dal titolo “Parole, opere e omissioni” sulla Chiesa negli anni di piombo (edito da Rizzoli nel 2008) – un atteggiamento ostile nei riguardi del Moro che aveva aperto al Pci: senza tanti giri di parole Caprio dice a Bettazzi che «stiamo finendo in mano ai comunisti» e giù la citazione biblica da Caifa (che francamente, detto in ecclesialese, è come giustificare con le parole di Erode una qualche strage di innocenti). Moro intuisce qualcosa: «Credo che la chiave sia in Vaticano», scrive in una delle prime lettere alla moglie. Sta indicando un possibile varco per una trattativa o qualcosa di ben più scabroso?

Tutto questo accade “contro” il papa. L’insofferenza la tradisce lo stesso Caprio: a Bettazzi dice che Paolo VI «ha già fatto fin troppo». Perfino il pontefice si spende solo fino a un certo punto: nell’appello «agli uomini delle Brigate Rosse» userà quelle due parole (liberatelo «senza condizioni»), quanto basta perché Moro dalla prigionia capisca l’antifona e dica che il papa «ne avrà rimorso», non ce l’ha fatta a respingere le formidabili pressioni del governo di Andreotti.

Ma l’aria che tira sotto il Cupolone si capisce anche da un doppio elemento. Il primo: l’Osservatore Romano, il “giornale del papa”, pubblica prima un editoriale del vicedirettore che chiude drasticamente a ogni trattativa e poi, dopo una dura lettera di Moro dalla prigionia, manda in tv il proprio direttore a rimangiarsela e anzi a ribadire che la Chiesa non rifiuta di essere in campo per una mediazione. L’altro riguarda direttamente il papa: anziché utilizzare i canali vaticani consueti,  aggira di fatto la curia e mette in moto il proprio fidatissimo don Pasquale Macchi che gli è braccio destro fin dal ’54, quando viene inviato a guidare la diocesi di Milano, la più grande dell’intero mondo cattolico. Grazie ai legami stabiliti a Milano, cerca sponda in don Cesare Curioni, storico cappellano carcerario, una istituzione a San Vittore (e nel suo vice don Paolo Fabbri, un prete toscano del Mugello). Da un lato, tenta la strada dell’azione umanitaria; dall’altro, raccoglie una cifra enorme (chi dice dieci e chi 50 miliardi di lire) per vedere se un riscatto può interessare i brigatisti.

È evidente lo scontro fra papa Paolo VI e la curia vaticana, grandi potentati ecclesiastici compresi: lo dice in modo appena più soft, parlando con il vaticanista Benny Lai, il cardinale decano Carlo Confalonieri che ha dalla sua l’esperienza di braccio destro di papa Pio XI (detto per inciso, è suo nipote l’attuale numero uno dei vescovi italiani, Matteo Zuppi). Non è tutto: il cardinale conservatore Giuseppe Siri, come rivelerà il giornalista Giulio Anselmi che gli dà la notizia del sequestro di Moro, dice gelido che «se l’è cercata». Idem in segreteria di Stato, come abbiamo visto. Secondo quanto rivela Valle, Bettazzi aveva già allertato un giornalista tv (Citterich?) e scritto l’editoriale per il proprio settimanale diocesano, contando sul buon esito del faccia a faccia con la curia vaticana: contr’ordine, salta l’annuncio dell’offerta dei tre vescovi in ostaggio, anche l’editoriale sfuma e diventa niente più di una vaga apertura.

Prova a mettersi in moto anche Corrado Corghi, dirigente di Azione Cattolica e dirigente della Dc emiliana: l’ha già fatto per Sossi con successo, non troverà spiragli invece stavolta. «Ricordo che allora mi stupii che,, per il sequestro Moro, il Vaticano non avesse riattivato Corghi: per me e per Curcio non era una figura secondaria, di lui ci fidavamo moltissimo». È un virgolettato di Alberto Franceschini, leader reggiano delle Br della prima ora, citato dalla giornalista di Famiglia Cristiana.

Incredibilmente, Franceschini dice che si fidavano più di lui che dell’avvocato Guiso (che pure era il difensore di Curcio): «Ci fidavamo della Chiesa perché sapevamo che se la Chiesa diceva qualcosa la manteneva». Lo si vedrà nel 1984 quando un gruppo di terroristi rossi deciderà di consegnare al cardinal Martini a Milano le proprie armi («quei borsoni carichi di kalashnikov, bombe a mano e fucili»). Anche Bettazzi e i suoi non si muovono a casaccio: «Non posso fare i nomi – queste le parole del prelato nel citato libro-inchiesta – ma posso dire che eravamo in contatto con persone che potevano dirci cosa stava avvenendo all’interno delle Br e sapevamo che i brigatisti erano in disaccordo sulla decisione finake: con le nostre azioni, volevamo cercare di allargare questa contraddizione e dare più forza alla parte che era per la liberazione».

Il tentativo dei tre vescovi viene rivelato a distanza di anni dal giornale di Azione Cattolica “Segno Sette” e, prima ancora, da Raniero La Valle sul numero di “Servitium” nel decennale della morte di Turoldo, oltre al citato libro edito da Rizzoli. Soprattutto me l’ha confermato di persona proprio Ablondi e ne ho parlato in dettaglio sul Tirreno.

«Mi chiamò padre Turoldo, era notte fonda: forse le due, forse le tre. Niente preamboli, eravamo amici: mi chiese se gli davo la disponibilità a prendere il posto di Aldo Moro come ostaggio delle Brigate rosse», queste le parole di Ablondi davanti al taccuino del cronista. Aggiungendo poi: «Volevo essere sicuro che fosse lui, non un impostore. Gli dissi: dimmi dove sei, ti richiamo. Due minuti più tardi, ritelefonai io: sì, ci sto».

Se Ablondi dice che poi Turoldo non ha approfondito i contatti, Bettazzi precisa che il flop è causato non da un attacco delle Brigate rosse bensì da uno stop dall’interno della curia vaticana. L’ex vescovo di Ivrea mi confessò in quella circostanza che gli venne spiegato come la Chiesa non doveva assumere un ruolo troppo ingombrante nel caso Moro. Solo prudenza curiale? In realtà, lui ha avuto «l’impressione, non un legittimo sospetto ma un’idea temeraria, che sullo scacchiere internazionale facesse comodo che Moro sparisse dalla scena».

Figurarsi che dal bugigattolo in cui l’avevano rinchiuso, è Moro a provare a mettere come Pollicino le mollichine di pane per indicare il sentiero per imbastire una trattativa. Lo fa nella lettera a Cossiga (resa nota dalle Br a fine marzo) suggerendo «un preventivo passo della Santa Sede». Pochi giorni più tardi, scrivendo a Zaccagnini, guarda al cardinal Pignedoli come la persona giusta. Non è stato forse Pignedoli nel ’74 a far partire gli ingranaggi giusti per portare a casa il giudice Mario Sossi (e, in effetti, il Vaticano con una dichiarazione «del tutto personale» del vicedirettore della sala stampa sembra aver recepito).

 Non andrà così. Non si discute qui della “fermezza” ma di chi la utilizzava per combattere Moro più che i brigatisti, ma è singolare che gli spiragli, le sponde e i rinterzi siano stati trovati (anche a costo di far entrare sulla scena pure i vertici della camorra) per l’assessore campano Ciro Cirillo così come per i giudici Mario Sossi e Giovanni D’Urso ma non per Aldo Moro. Beninteso, sarebbe sciocco immaginare che le Brigate Rosse siano state una invenzione e non un sommovimento in alcuni pezzi della società, e tuttavia come fare a sfuggire al sospetto che, in tutto il loro miope furore ideologico, abbiano semplicemente fatto il “lavoro sporco” come meglio si era augurata la fazione più reazionaria del Palazzo? C’è semplicemente da chiedersi: eccettuati i morti in “battaglia” (come l’operaio Pci Guido Rossa, i magistrati, i giornalisti, i carabinieri e i poliziotti ammazzati “sul campo”), tutti gli altri bersagli delle Br ne sono in qualche modo usciti vivi, e solo Moro no.

La cosa più spinosa riguardava il riconoscimento politico, inutile girarci intorno. È un aspetto innegabile e non solo un capriccio terminologico: vuol dire che non sono “terroristi criminali” bensì “combattenti”, vuol dire che c’è una sorta di “guerra civile” e tutto quel che ne consegue. Riflessione giustissima, ma vale solo per Moro: su Moro si spacca il capello in quattro, mentre per il giudice Mario Sossi così come per l’assessore Ciro Cirillo si imbastì qualsiasi tipo di qualsiasi cosa. Loro torneranno a casa vivi, Moro no. Loro potevano tornare a casa, Moro no.

Qui si potrebbe andare avanti a dettagliare particolari per migliaia di righe: solo il libro di Annachiara Valle è una inchiesta di 264 pagine. La consiglio a chi vuol approfondire: niente dietrologia e il giudizio del figlio di Moro, Giovanni, che parla di «libro chiaro, coraggioso, documentato». Valle deve avere buone fonti si questo fronte se un altro suo libro è dedicato a suor Teresilla, la religiosa che con Bachelet e don di Liegro (Caritas) è stata fra le persone più attive nei rapporti con il fronte Br in carcere.

Sul fronte delle ricostruzioni alternative si potrebbe richiamare il recente docu-film Sky realizzato dal regista viareggino Tommaso Cavallini dal titolo “Com’è Nato un golpe: il caso Moro”. La maiuscola non è un refuso: ogni riferimento all’alleanza filo-americana è tutt’altro che casuale. Ne riparleremo: ma in quel caso il coinvolgimento vaticano non fisserà lo sguardo sul papa e su chi nella Chiesa cerca di salvare Moro bensì su chi, in combutta con settori ultra-atlantici negli Usa, Moro lo vogliono morto: una lezione per chiunque dal lato ecclesiale o democristiano voglia aprire alla collaborazione con i comunisti. È quel che dice anche monsignor Bettazzi nel libro di Valle (e nel ventennale del rapimento Moro scrisse sul settimanale diocesano di Ivrea): «Il modo con cui è stato trattato il sequestro di Moro e si è evuitato di liberarlo può essere interpretato come una “lezione” che si voleva dare a chi voleva inserire le “sinistre” nei gangli del potere. L’onorevole Moro anticipava di troppo i tempi e per questo bisognava lasciarlo morire».

Muore Aldo Moro e il 9 maggio ’78 ne viene fatto trovare il cadavere nella Renault rossa. Ma muore anche papa Paolo VI neanche tre mesi più tardi, a Castel Gandolfo, la residenza papale che è territorio vaticano (e dove risulta sia stata custodita una enorme cifra in contanti disponibile nel caso le Br avessero acconsentito a liberare Moro dopo il pagamento di un riscatto). Caprio invece no: si spegnerà quasi trent’anni più tardi. Pochi mesi dopo quel “niet” a Bettazzi che condanna Moro, l’alto prelato viene nominato da papa Wojtyla presidente dell’Apsa, l’amministrazione che ha in pugno lo sterminato patrimonio del Vaticano; altri due mesi e Giovanni Paolo II lo inserisce nel collegio cardinalizio che eleggerà i futuri papi; nel ’90 lo stesso pontefice lo metterà alla guida dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro (alla pari di vari sovrani europei).

Nei giorni del rapimento Moro a Palazzo Chigi c’è Andreotti: c’era alla guida del governo precedente, c’è alla testa della coalizione-svolta che avrebbe visto una qualche partecipazione del Pci al governo e, anni più tardi, senza più né Moro né Berlinguer, sarà l’architrave dell’alleanza pentapartita con quel Craxi che era stato l’unico leader dell’arco costituzionale ad avversare la “fermezza”. Moro è morto assassinato a 62 anni nel ’78 e a 62 anni Berlinguer è stato fulminato da un infarto che l’ha colpito durante un comizio. Andreotti si è spento in casa sua a Roma a 94 anni nel 2013.

 

Nelle foto dall’alto: 1) Aldo Moro interpretato da Fabrizio Gifuni nel film di Marco Bellocchio; 2) il vescovo livornese Alberto Ablondi con il rabbino Elio Toaff; 3) il vescovo Luigi Bettazzi con papa Francesco; 4) la storica stretta di mano fra Enrico Berlinguer (Pci) e Aldo Moro (Dc); 5) Moro insieme a papa Paolo VI

6 Comments

  1. Massimo Bianchi ha detto:

    Un articolo degno di un premio.La Storia dirà….nei suoi tempi….la verità.Alcuni devono temerla ,quelli che ad esempio trattarono la liberazione di Ciro Cirillo,quelli che avversarono la posizione di Craxi e dei socialisti,quelli che consegnarono alla morte Moro il primo giorno del sequestro.Non credo che la Chiesa di Roma beatifichera’ Mons.Ablondi che rimane indelebile per chi ha avuto l’onore di conoscerlo.Ho avuto personalmente la fortuna di conoscere l’Avv.Giannino.Guiso che venne a Livorno in occasione del sequestro della collezione di cimeli garibaldini e che incontrai su richiesta venutami da Milano.Il 10 marzo abbiamo celebrato l’anniversario della morte a Pisa di Mazzini e la monarchia consentì un funerale che coinvolse l’Italia.La Repubblica ha fatto morire in esilio un Presidente del Consiglio e un grande socialista.Per Moro e per Craxi il futuro rimetterà le cose al posto giusto.Grazie Caro Mauro per questi tuoi articoli .

  2. Andrea ha detto:

    Pezzo davvero interessante su una delle vicende più tormentate, oscure e inquietanti della storia repubblicana.

  3. Giovanni Golino ha detto:

    Rimane il pugno allo stomaco della durezza della politica, che un uomo di enorme potere e intelligenza ha scelto di affrontare con coraggio anteponendo il Bene Comune all’interesse di parte.

    1. Mauro Zucchelli ha detto:

      Il punto credo sia uno (al di là di fermezza sì o no): tutti gli altri li hanno salvati, Moro no. E questo è un fatto, il resto è (giustamente) dibattito

      1. Giovanni Golino ha detto:

        Concordo pienamente, Aldo Moro, a differenza di altri, era un uomo che poteva produrre un cambiamento reale e significativo della Politica italiana, e proprio per questo è stato scelto, s mio avviso, il suo sacrificio.

        1. Mauro Zucchelli ha detto:

          Vade retro la tentazione di murare una persona attorno alle scelte giovanili, ma convince poco il parallelo con Hanns Martin Schleyer, leader degli industriali tedeschi. Di analogo c’è l’anagrafe: i due sono quasi coetanei e muoiono tragicamente a distanza di pochi medi, entrambi a 62 anni. Di analogo ci sono le modalità tecniche: 1) assassinato dal terrorismo rosso tedesco nel ’77; 2) strage della scorta; 3) l’epilogo arriva dopo una prigionia di un mese e mezzo. Ma politicamente Schleyer era stato da giovane un ufficiale delle Ss, poi nel dopoguerra un dirigente dc (Cdu) con impronta rigidamente anticomunista, al punto che considerava quasi sovversivo il classico modello cogestionario tedesco, rimproverando a Bonn i troppi lacci all’opera del capitale. Moro no, anche senza farne un santino: dopo una fase di ammiccamento doroteo per posizionamento interno, guida la fuoriuscita dal periodo Tambroni puntando a una apertura ai socialisti (con la nuova scuola media e la nazionalizzazione dell’industria elettrica). Dopo l’apertura a sinistra al Psi, arriverà una dozzina di anni più tardi quella al Pci. Per logorarlo? Forse. Ma era uno che guardava alla politica come una dinamica in risposta a quanto si muoveva nella società. E non per la cattura dell audience.

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