
Cosa ci raccontano gli Emirati: la gara fra i grattacieli non è più in verticale ma punta a miracoli statici in orizzontale. Non è il migliore dei mondi possibili ma di sicuro il domani del mondo non siamo noi qui
di Mauro Zucchelli
Non faccio l’astronauta né studio l’intelligenza artificiale eppure, senza algoritmi e tecnofantasie, con il solito taccuino di cronista raccontastorie credo di essere stato teletrasportato nel domani che verrà. E non parlo di qualche diavoleria di domotica high tech per cui mentre sei sulla tangenziale ti accendi il forno con le melanzane alla parmigiana: semplicemente, con questi piccoli occhi spaesati e malconci mi sembra di intuire l’identikit di un futuro imminente. Anche se, lo ammetto, mi avventuro in ciabatte e senza occhiali là dove non so e mi manca pure la bussola. Vabbè, let’s roll, come disse quel tipo a bordo del volo United Airlines e, mentre altri velivoli si schiantavano contro le Torri Gemelle, guidò la rivolta contro i dirottatori ben sapendo che fra cinque minuti sarebbe tutto finito.
Adesso che il ricordo della Liberazione dal nazifascismo bussa alle porte, intravedo qualcosa che ha a che fare con la libertà e la democrazia che abbiamo conosciuto. Non so articolare che balbettii sconnessi ma, sia detto fra parentesi, mi piange il cuore se vedo che le migliori intelligenze della mia generazione si intestardiscono a baloccarsi con il santino di Berlinguer, morto quasi 40 anni fa. Allunghiamo l’inciso: il problema non è Berlinguer, il leader più intelligente della sinistra dal dopoguerra in qua: il problema siamo noi. Berlinguer non si era limitato a spolverare l’altarino di Togliatti o di Secchia, anzi aveva strappato tutto lo strappabile per portare la sinistra fuori dalle liturgie.
Ho visto gli Emirati, qualcosa degli Emirati: non li ho visti come se fossero casa mia perché le disuguaglianze sociali sono talmente feroci da assomigliare a un sistema di caste in cui la forza lavoro ha diritti zero (ma zero non secondo i nostri parametri sindacali, è già un azzardo anche solo una qualunque cortesia umana fra appartenenti a “gironi” differenti). Sta di fatto che in un fazzoletto di terra grande meno di metà della metà della Toscana – insomma, quanto le province di Livorno e di Pisa, mica di più − concentra 9,2 milioni di abitanti (contro meno di 700mila qui da noi). E non è solo per via di una impressione a pelle viva che per strada si vedano principalmente giovani maschi adulti. La piramide delle età è sbilanciatissima, e non come in altre zone del Vicino Oriente dove quasi metà della popolazione è sotto i vent’anni (o in Africa ben più del 50%): negli Emirati il 42% della popolazione è costituita da maschi da 20 a 40 anni, l’età del lavoro e stop: la miglior età col massimo della produttività e il minimo degli acciacchi. Così diversamente che da noi: sì pure qui la “piramide” è squilibrata, ma semmai perché il 64,7% ha più di 40 anni.
Quel che sta accadendo qui nell’Occidente finora apripista è un esperimento sociale che non ha avuto eguali nella storia e nell’antropologia umana (cit. Vittorio Andreoli): una popolazione mai così anziana. Quel che sta accadendo lì idem, ma di segno del tutto differente, forse opposto: il progresso non coincide con l’allargamento dei diritti di tutti, civili ma soprattutto sociali. Qui andando a spasso si vedono soprattutto pensionati: come nei paesi del Sud. Lì giovani adulti: come nelle metropoli dinamiche (in Italia forse solo Milano può reggere la prova).
È il dato di partenza, non sto dicendo se ci piace o no e nemmeno che quello è il migliore dei mondi possibili, anzi. Così come è un dato di partenza il fatto che non solo il paesaggio umano è giovane: anche il paesaggio architettonico lo è. Con un “di più”: fino a un certo punto, la competizione riguarda: 1) l’altezza dei grattacieli (a Dubai perché a Abu Dhabi bastano due o tre mani per contare gli edifici da record); 2) la sfida alla forza di gravità con elementi orizzontali che uniscono a 200 metri di altezza una coppia di torri vicine o che si presentano come un incredibile “grattacielo orizzontale”, si chiama “The Link” ed è l’equivalente di un edificio di 70 piani che a 100 metri di altezza collega due torri entrambe fra 230 e 300 metri. I migliori architetti del futuro sono a Dubai e dintorni: a noi sembra già un simbolone Porta Nuova con il “bosco verticale” di Stefano Boeri e il grattacielo Unicredit a Milano, vale una briciola della “foresta” di edifici da cento piani di Dubai (e lasciamo perdere che dal 2015 l’immobiliarista Manfredi Catella, origini livornesi, l’ha venduto al fondo sovrano del Qatar).
Guai a pensare che si tratti solo di grattacieli: è una prova di geometrica potenza economica. I grattacieli illuminati non li hanno inventati certo a Dubai. Ma altrove non vedete il marchio del costruttore grande quanto due-tre piani sfavillare ovunque sui grattacieli: “Emaar”, cioè la realtà numero uno in mano allo sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum sul fronte delle proprietà immobiliari. Stiamo parlando di un costruttore che fa la ruota del pavone con un patrimonio che dal 2019 ha superato il trilione di dirham, grossomodo 250 miliardi di euro (per un raffronto: il colosso italiano del settore, Webuild ex Salini-Impregilo, fattura otto miliardi all’anno). Senza contare che l’altra mano di Al Maktoum ha in pugno Dubai Holding, e sono altri 150 miliardi di dollari di proprietà immobiliari…
Il marchio Emaar svetta sullo “show” che va in scena ogni sera (gratis) con gli spettatori in questa piazza d’acqua davanti al più grande centro commerciale del mondo, ai piedi del Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo (quasi 830 metri): nella piazza d’acqua il concerto di suoni e acqua con una fontana che ha “cannoni” in grado di sparare a 45 metri di altezza una coreografia di spruzzi a suon di musica, nel frattempo il grattacielo diventa uno schermo per animazioni-spettacolo di computer grafica. Lì a un passo, l’Opera di Dubai: guidata dal manager culturale italiano Paolo Petrocelli. Di nuovo, per avere un’idea: lo sponsor principale è Genesis, un marchio automobilistico coreano che forse nessuno di noi conosce (eppure vende nel mondo più del doppio di Maserati e lo stato maggiore è costituito da un gruppo di top manager quasi tutti occidentali, ex di Lamborghini, Audi, Bentley e Bugatti).
Tradotto: se è negli Emirati che si fanno le più straordinarie sperimentazioni architettoniche, non c’è messaggio più potente per calamitare l’attenzione dei grandi studi professionali che si occupano di progettazione. Tutti occidentali, se non ne facciamo una idea solo geografica e dunque includiamo anche il Giappone. Come dire: in Champions League giocano gli emiratini doc, ai quali il sistema garantisce molte cose. In serie A o tutt’al più B gli occidentali in senso ampio: non ammessi al primo girone, ma fornitori di know how ben pagato. Dall’Eccellenza in giù gli altri, qualcuno neanche in Seconda Categoria: ma pur senza diritti e sotto mille ricatti riescono comunque a sfamare le famiglie rimaste in tutta la fascia dell’Asia che va dal Pakistan alle Filippine via India. Per molti di loro c’è la stessa alternativa che ha un siriano o un afghano, un sudanese, un etiope o un tunisino sui barconi che vengono verso l’Italia: rischiare di morire affogato nel Mediterraneo è già meglio che crepare laggiù. È come quando (giustamente) ci scandalizziamo perché tanti cinesi finiscono in condizioni schiavistiche nei capannoni di Prato: bugigattoli che per molti sono migliori delle condizioni in cui vivono laggiù.
No, non sono rimasto abbacinato né dal “rinascimento” né dall’ex premier Matteo Renzi che lo vagheggia in conferenze doratissime: non mi aspettavo altro dal tipo che a Livorno si presentò con l’ultrapop di “I don’t care” che suonava un po’ come il “menefrego” per noi allevati all’insegna dell’ “I care” (ho a cuore) di don Milani. Ma è un disegno di lungo periodo che guarda al dopo-petrolio: non a caso, tutti i vari leader del Golfo Persico, siano essi emiratini o sauditi, bahreiniti o qatarioti, spendono montagne di petrodollari per arrivare alla ribalta internazionale con la diplomazia dello sport, il soft-power di chi avendo la proprietà dei grandi club di calcio o di ciclismo ha in pugno il grande circo dello sport mondiale al più alto livello. Parliamo di calcio, ciclismo e Formula Uno: tre quarti dei palinsesti e dei diritti tv nel mondo.
È una edilizia spinta fino ai limiti dell’impossibile. Colpisce l’arabesco della copertura firmata da Jean Nouvel per il Louvre di Abu Dhabi: mi aspettavo qualche miliardo di capolavori d’arte, invece c’è la narrazione di quanto sia indispensabile il ruolo arabo come ponte fra le civiltà del mondo. Un po’ come nel palazzo presidenziale o all’Etihad Museum. Ma il Louvre-bis è comunque costato due miliardi di dollari fra opere, contenitore e progetti. E la copertura dell’Etihad Museum ha la leggerezza di un foglio di pergamena girato su sé stesso…
L’ultima frontiera non è però l’altezza come Burj Khalifa ma la dimensione orizzontale: ho parlato di “The link” che già esiste ma c’è anche il museo del futuro, una incredibile ellisse vuota al centro disegnata dal team di Shaun Killa. E c’è il futuribile – per ora solo un’idea – grattacielo costituito da un anello a 300 metri di altezza che si sviluppa per chilometri attorno ai “normali” grattacieli verticali da record: si chiama “Downtown Circle”, lo propone un tandem di architetti sperimentatori come Najmus Chowdhry e Nils Remess, indiano (ma con laurea olandese) il primo e lituano l’altro.
Forse tutto nasce dal fatto che se oggi cascano giù dieci operai, si limitano a dire: pazienza. E qui da noi questo è inaccettabile (sacrosantamente). A quelle latitudini no: l’ha dimostrato il fatto che ai mondiali del Qatar uno dei grandi capi dell’organizzazione non ha nascosto l’irritazione quando i giornalisti gli hanno chiesto se l’ennesima morte sul lavoro nel cantiere della tal infrastruttura avrebbe causato cambiamenti al programma. Della serie: vabbè, è morto un poveraccio ma perché dobbiamo parlare di queste cose tristi se abbiamo davanti un impianto che non ha uguali al mondo? Del resto, le ong internazionali parlano di 6mila morti sul lavoro per costruire le opere dei mondiali di calcio in Qatar: in occasione di altri mega-eventi sportivi come le Olimpiadi o altri Mundial se ne contarono una decina o forse venti. Sono già venti di troppo, e stiamo parlando di Paesi in cui gli standard della sicurezza sul lavoro sono lontani da quelli occidentali (già insufficienti secondo me e secondo molti di noi): immaginatevi cosa vuol dire fare il manovale in queste zone del Golfo.
Non esiste forse al mondo un investimento in grandi infrastrutture culturali paragonabile all’isola di Abu Dhabi che accanto al Louvre-bis emiratino sta creando un nuovo Guggenheim Museum e un polo intitolato alla figura-chiave dello sceicco Zayed bin Sultan Al Nahyan, il “padre della patria”: da una sfilza di famiglie beduine sempre in lotta fra loro per rancori e cammelli è riuscito a tirar fuori un soggetto politico che si siede insieme ai big della Terra. L’ha fatto grazie al pozzo di quattrini trovati nei pozzi di petrolio? Certo che sì, ma quel fiume di ricchezza l’ha tramutato in soggettività politica.
Di colpo dai campetti della Terza Categoria alla Champions League o quasi. E non è un paragone azzardato, se pensiamo allo sconquasso che nella prima metà del Novecento, in virtù dei nuovi prodotti giapponesi, ha avuto la fine del commercio di perle. Non è un modo di dire che hanno trovato il petrolio – lo ha trovato anche il Venezuela, la Nigeria o i vari “stan” delle repubbliche ex sovietiche d’Asia ma senza diventare padroni del mondo – e, adesso che hanno capito bene che quel filone di ricchezza finirà (o per esaurimento dei pozzi o per transizione ecologica via dalle fonti fossili), si stanno preparando a diventare qualcos’altro rispetto a quel che abbiamo conosciuto fin qui: una Disneyland per ricchi occidentali sciocchi? Un centro finanziario nell’era in cui nel mondo gira una enormissima liquidità di “denaro sporco”? un nuovo modello di convivenza con l’Islam religione di stato ma in un quadro di tolleranza religiosa? L’avanguardia delle nuove culture benché paradossalmente in un contesto assolutistico senza democrazia?
La messa della notte di Pasqua l’ho vissuta nella cattedrale di Dubai, ma fuori perché l’enorme afflusso di persone la rendeva insufficiente. Ho ascoltato il vescovo, Paolo Martinelli, frate cappuccino milanese che nel pastorale ha le insegne del suo confratello Luigi Padovese assassinato in Turchia forse per pazzia o forse per odio religioso. Dice semplicemente che «qui siamo tutti migranti, la nostra è una Chiesa di migranti». Fuori, per riportarci a casa, fra gli sfavillanti grattacieli per la prima volta vedo non solo la solita folla di taxi Toyota Camry ibridi (Ferrari poche, Lamborghini idem, una MacLaren ma soprattutto un oceano di auto giapponesi): fuori ci sono gli sgangherati pullmini, Toyota anch’essi, che quando ancora nessuno è sveglio fanno la spola fra la metropoli scintillante e gli accampamenti dei senza diritti. Dirimpetto, e anche questo è un altro tassello del puzzle, c’è la centesima moschea: solo che questa l’hanno intitolata a “Maria la madre di Gesù”.
A chi interessa: qui è possibile trovare la seconda metà di questo post
Ho visto il futuro e…/2: il fascino discreto dell’autoritarismo, e l’Occidente rischia di essere il passato
Un esame interessante che meriterebbe un dibattito ampio
.Il dato peggiore è l’estendersi della non democrazia.Sarebbe necessaria una riflessione collettiva che invece latita.Grazie
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