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Ho visto il futuro e…/2: il fascino discreto dell’autoritarismo, e l’Occidente rischia di essere il passato
Il 25 aprile con gli occhi sul mappamondo: a distanza di ottant’anni dalla lotta per la libertà da parte di partigiani di mille idee differenti, si rattrappiscono gli spazi di democrazia. E l’Occidente non è senza colpe

di Mauro Zucchelli

Gli interrogativi scolpiti nelle calligrafie che hanno parte nell’arte e nell’architettura di origine islamica ci portano lontano da Dubai e Abu Dhabi, ci raccontano che potrebbe fondarsi lì un nuovo paradigma. Non è un segreto che, a fronte delle contraddizioni del modello di democrazia che conosciamo, un crescente numero di imprenditori mostri ammirazione nei riguardi di qualcosa che non vorrebbero confessare: ad esempio, la Cina comunista, la Turchia di Erdogan, i regimi autocratici tipo Kazakhstan. Insomma, via dall’Occidente e via dall’idea di democrazia che abbiamo sperimentato (con tutti i limiti del caso). Come mi confida un imprenditore, bravo e per giunta illuminato e progressista: «Lì non ci sono i comitati del no».

È lo scambio: un (bel) po’ di libertà in meno pur di avere l’impressione di avere un po’ di sicurezza o di tutele in più. È quel che bisognerebbe chiedere a tanti di noi: davvero pensate che sia accettabile rinunciare a pezzi interi di libertà (e di democrazia)? È quel che bisognerebbe chiedere ai massimi responsabili delle sinistre: davvero pensate che il valore della libertà sia al primo posto nelle priorità di noi che viviamo qui in Italia e qui in Europa?

Nella narrazione della guerra in Ucraina – anzi, dell’aggressione della Russia all’Ucraina – il tam tam della propaganda occidentale racconta di un Putin isolato, malato, indebolito. Non ho motivo di non crederlo, salvo che tutti i segnali in arrivo indicano una falsa rilettura della storia degli anni 30-40: tutti a dirsi che qualsiasi cedimento a Putin ripete l’atteggiamento molle verso Hitler che si mangia i Sudeti e tutto il resto, forse occorrerebbe ricordare che è stato l’annientamento umiliante della Germania di Bismarck al tavolo della pace dopo la Prima guerra mondiale ad aver spianato la strada al nazismo.

Bisognerebbe ricordarsi che da Bush padre in poi (ma forse già da Reagan) l’Occidente si è dato la missione di mettere in riga i dittatori: le democrazie da exportare cancellando le dittature. Risultato: ha vinto solo il complesso militare-industriale e non c’è un solo Paese democratico in più.

Non bastasse l’amarcord empirico delle disfatte a Kabul, a Tripoli o a Baghdad, con le promesse solenni e i collaboratori locali degli occidentali fatti a pezzi perché l’Occidente li ha scaricati, la riprova possiamo cercarla nel “Democracy Index” elaborato da The Economist. Ebbene, nell’ultimo quindicennio di democrazia da exportazione abbiamo rimediato un bilancio che fallimentare è dir poco: le “democrazie complete” sono 21 ed erano 26 nel 2006, i regimi autoritari conclamati sono 59 ed erano 55 a metà anni 2000 (e i criteri sono abbastanza soft se vengono considerati solo “regimi ibridi”, cioè con qualche elemento di autoritarismo, anche realtà come la Turchia o il Pakistan mentre sono “democrazie imperfette”.

Tanto per chiamare le cose con il loro nome, non crediate che sia una bega di qualche staterello da bunga bunga laggiù chissà dove: in media il livello di democrazia nel mondo sta fra l’Honduras e la Liberia, ben al di sotto di Zambia e Bangladesh. Aggiungiamo: 1) l’Italia è al 31° posto (peggio del Botswana e Costa Rica, appena meglio di Malta e Malaysia: democrazia sì ma “imperfetta”); 2) il popolo ucraino è vittima di una guerra di aggressione ma le istituzioni di quel Paese erano nel report 2021 capitombolate, di regime in regime filo-russo o filo-occidentale che sia, a livello sostanzialmente semiautoritario; 3) lasciamo perdere la Russia, con un livello di democrazia quasi azzerato fino a finire peggio di Haiti (del resto, il grumo di oligarchi deve le proprie fortune al modo gangsteristico con cui sono state arraffate le ex proprietà statali).

La spinta verso il restringimento degli spazi di democrazia ha elementi che meriterebbero di essere approfonditi da qualcuno che abbia ben più strumenti d’un cronista di provincia: arriva curiosamente proprio mentre l’Occidente si è dato il sacro compito di “democratizzare” il pianeta e viaggia in tandem con una globalizzazione economica che, contrariamente alle teorizzazioni liberali, non globalizza i diritti né civili né sociali. Ma soprattutto riguarda ogni continente geopolitico: eccezion fatta per Asia e Oceania (che di fatto dal 2006 al 2021 restano ferme allo stesso livello), gli altri sei tasselli del puzzle mondiale arretrano: in fondo alla graduatoria troviamo l’Africa subsahariana e la fascia Medio Oriente e Nord Africa, ma a parte il peggioramento shock più nell’area America Latina-Caraibi, il cambiamento negativo più forte viene registrato dagli indicatori relativi al cuore del sistema democratico: quasi mezzo punto per l’Europa Occidentale, idem per quella ex Est Europa, male anche il Nord America.

Putin è isolato sull’Ucraina, continuiamo a ripeterci. E in effetti, nella “trincea” dell’Onu le cose sono andate così: ma occhio al paravento delle astensioni. Se adesso l’Occidente corteggia così tanto l’India è solo perché rischiamo di finire peggio che a Kabul, e non dico dal punto di vista militare (anche se paradossalmente sono più prudenti alcuni dei nostri generali di maggiore esperienza rispetto a tanti strateghi improvvisati quanto i ct della nazionale di calcio): nel voto sulla risoluzione Onu Putin si è preso una bella sberla, visto che con lui si sono schierati i soliti Siria, Bielorussia, Eritrea, Corea del Nord, Nicaragua e, novità, pure il Mali. Ma Cina e India si sono chiamate fuori, così come Pakistan e Sudafrica, per dirne un paio. Da non sottovalutare il crescente nervosismo del brasiliano Lula. Come dire: l’intero gruppo delle “Brics”, le economie emergenti, rischiamo di ritrovarcelo contro. E compiere un altro harakiri strategico come quando l’Occidente è riuscito a consegnare all’Islam la leadership del “Quinto stato”.

Soprattutto noi di sinistra abbiamo spesso immaginato che la “tara d’origine” dell’Italia fosse l’arretratezza rispetto agli standard europei. Nel populismo/sovranismo no: l’abbiamo sperimentato in anticipo rispetto alle altre democrazie occidentali. In tandem con l’occhiolino al nazionalismo più duro, ecco che alle prossime elezioni europee potremmo ritrovarci con un ribaltone negli equilibri che governano l’Unione europea con la saldatura magari scombiccherata degli alleati di Visegrad (Polonia, Ungheria più l’ex Cecoslovacchia che hanno fatto l’impossibile per entrare nell’Ue, poi si sono costituiti come opposizione interna, continuando a prendere fondi ma senza partecipare alle redistribuzioni di oneri e problemi), più Afd in Germania, la destra scandinava che ora sussurra al potere e quella francese che ha figliato pure l’ultradestra di Zemmour, Vox spagnola, i brexiter inglesi e via enumerando.

Insomma, c’è il rischio concreto che la democrazia e la libertà non siano più considerati valori intangibili neanche qui in Europa. E non per via di un golpe militare: così com’è accaduto negli anni ’20 in Italia e poco dopo in Germania, sia pur in mezzo a tante violenze, i fascisti e i nazisti sono arrivati al potere anche tramite elezioni. L’avevano capito benissimo i padri costituenti dopo la Seconda guerra mondiale: l’ordinamento democratico si può cambiare solo per via del voto d’una maggioranza di elettori, perché la maggioranza aveva già dato prova di farsi incantare dalle sirene dell’autoritarismo. Del resto, Trump e Bolsonaro ne hanno fatte di cotte e di crude al limite dell’inarrivabile, eppure dopo una pandemia disumana affrontata nel peggior modo possibile hanno perso le elezioni al fotofinish. Leggetevi Bob Woodward nella ricostruzione di quel che accade poco prima dell’arrivo di Biden alla Casa Bianca (in questo blog lo trivate qui https://ilmediterraneo.blog/2023/01/06/la-befana-del-quasi-golpe-usa-trump-quel-bischero-dello-sciamano-e-la-nostra-post-democrazia/).

Come dire: basta fare una giratina sui social. Ce l’ha detto il Censis e non qualche web-bischero, il Covid non esiste secondo una persona su 16, una su otto pensa che il vaccino sia inutile e quasi uno su tre pensa che che facciamo tutti da cavie, per il 12,7% la scienza «produce più danni che benefici», quasi il 20% dei cittadini userà lo smartphone anche per lavarsi i denti ma giura che il “5G” sia roba high tech per controllare le menti delle persone. Basta? No, una persona su 17 è sicura che il nostro pianeta sia piatto e uno su dieci ritiene che lo sbarco sulla luna sia stato solo un film. Il ministro Lollobrigida se ne esce con una battuta idiota sulla “sostituzione etnica” e dice di averlo fatto per “ignoranza”? La stessa cosa l’hanno detta per anni Salvini e tutto il resto del giro, ma soprattutto lo crede vero il 39,9% degli italiani. Già così è di gran lunga il maggior “partito” del Paese: Houston, abbiamo un problema…

Bisognerebbe accorgersi che, anziché exportare la democrazia, noi dell’Occidente avanzato abbiamo importato i sussulti filo-autoritari in casa nostra: addirittura nel cuore della socialdemocrazia svedese. La globalizzazione, invece di aver fatto arrivare fin nel cuore dei regimi totalitari la brezza della libertà, ha portato qui la minaccia di quell’ “esercito industriale di riserva” che ha meno pretese e più fame di noi, dunque può ben sostituirsi alla forzalavoro di bassa qualifica. L’ha capito benissimo chi sta in zona retrocessione nella “classifica” della nostra gerarchia sociale: è in quel magma sociale che pesca il consenso di chi, dico per semplicità, vuol farsi tutelare da un ereditiero ultramiliardario come The Donald. O, guardando sull’uscio di casa nostra, sceglie una destra che fa quadrato attorno a misure fiscali come la flat tax che massacrano qualsiasi equità fiscale.

Finora a questa “nuova guerra fredda” non direi che la stiamo vincendo: vedi alla voce Libia, Iraq, Afghanistan. Ora la guerra in Ucraina è vissuta come il primo round dello scontro epocale che l’Occidente avrà con la Cina. Quella Cina che abbiamo fatto diventare noi occidentali la “fabbrica del mondo” con lo spostamento delle produzioni là dove gli operai costavano meno.

Per sbrogliarsi dagli intrecci di interessi con la Cina, l’Occidente mira ora al “decoupling” (disaccoppiamento). Ma è possibile? Pechino ha in mano un trilione di dollari del gigantesco debito pubblico americano (è utile guardare qui, non è propaganda cripto-cinese ma il quotidiano confindustriale Sole 24 Ore https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2022/06/06/debito-guerra-usa-russia/). E Janet Yellen, numero uno del Tesoro Usa e ex presidente della Fed, torna a ripetere ogni volta che è possibile: è una strategia suicida, disastrosa per l’Occidente.

Adesso Washington pensa di avere la carta di riserva nell’India: la blandisce al punto da aver speso in favore di un indiano (Ajaypal Singh Banga) il proprio potere di nomina per mostrare l’inclusività dell’Occidente. Cecilia Sala su “Stories” ricorda che Banga è indiano solo per certificato di nascita: è naturalizzato americano, vive a New York da tempo, è talmente upper class che il ricchissimo premier britannico Rishi Sunak sembra un poveraccio all’uscio. Insomma, ha il turbante sikh ma è più yankee di Biden.

Per avere una sponda di qualcuno che non sia proprio uno yankee a 24 carati, provo a guardare le idee di Pankaj Mishra, un saggista indiano che trova ospitalità su Internazionale (che rivista preziosa!) e Bloomberg ma anche su Guardian e New York Review of Books: insomma, non esattamente un talebano. Eppure: «Con la formazione del blocco Aukus (un patto per la sicurezza fra Australia, Regno Unito e Usa), la Cina si confronta con la stessa alleanza  di paesi a maggioranza bianca che a metà del Novecento tentò, in modo disastroso, di contenere un altro stato asiatico in ascesa: il Giappone».  Segnala il «risentimento» che «lascia sgomenti i paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina», lo attribuisce all’ «“apartheid vaccinale” dei ricchi stati occidentali» nell’era del Covid e rileva che quest’altra metà del pianeta sente tutto il contrasto «tra la generosa ospitalità rivolta ai rifugiati ucraini e i muri e le recinzioni che l’Occidente costruisce per tener fuori dai suoi confini le persone con la pelle più scura». Come dire: riparte l’ondata dell’anti-occidentalismo, che «come ideologia ha pochi contenuti sostanziali e positivi  ma per alcuni può essere terribilmente utile». E, al tirar delle somme, sottolinea: «L’Occidente deve rispondere con qualcosa di più delle solite frasi sulla democrazia e l’autoritarismo».

Ha ragione papa Francesco quando si sgola a parlare della “terza guerra mondiale a pezzi”: l’Ucraina ora, il Sudan stamani, forse presto il ritorno di fiamma nei Balcani o il nuovo esplodere della Siria e della Tunisia. Rischiamo di ruzzolare all’indietro in una stagione strana come gli anni trenta: stretti fra la crisi choc dell’economia (il crollo del ’29 a Wall Street) e la voglia di risolvere tutto con una bella guerra “controllata” (il fragore di cannoni e bombardieri dal ’39 in poi). Ma non vi fa senso che fra Srebrenica e Kosovo sia caduto negli anni ’90 il tabù di una guerra dentro l’Europa e ora non regga più nemmeno l’indicibilità di una guerra nucleare? Ecco, il 25 aprile per me è questo.

Post scriptum: poche note e in compenso confuse, certo. Così come confusa è la suggestione di immaginare se c’entri qualcosa le distruzioni causate da questa “terza guerra mondiale a pezzetti”, come la chiama papa Francesco, e il fatto che è stata pompata nel sistema una enorme liquidità (mentre la finanza ha allargato i confini della profittabilità rendendo merce anche i debiti da lei creati, rivendibili attraverso gli Npl e gli Utp). Forse non c’è niente di meglio delle distruzioni di una guerra per riallineare i valori.

 

A chi interessa: qui è possibile trovare la prima metà della storia:

Ho visto il futuro e…/1: di sceicchi e di ultragrattacieli, di soldi e di fanta-architetture

 

 

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