L’era del petrolio e dei motori tradizionali viene data per finita: il litio è la nuova materia prima che dominerà il mondo. Per conquistarlo entrano in scena anche i golpisti. E anche in casa nostra, perfino in Toscana…
di Mauro Zucchelli
Ha ragione papa Francesco: la terza guerra mondiale c’è già, solo che si sta combattendo a pezzetti. Giovanni De Mauro su “Internazionale” ne censisce 59: a cominciare da quella che va avanti da 17 anni in Messico fra esercito, paramilitari e narcotraffico (1.367 morti in pochi mesi), idem in Nigeria, poi mille morti in Siriam più di 5mila nello Yemen, oltre 400 in Etiopia, quasi 4mila in Birmania. Senza contare che il perenne conflitto strisciante fra India e Pakistan (poco meno di 600 morti nel 2021).E in Sudan l’abbiamo scoperta all’improvviso pochi giorni fa (1.364 vittime nel 2021), chissà che presto non si sia costretti a riscoprire anche qualcosa di davvero terribile nell’ex Yugoslavia, e poi il Congo, il Medio Oriente, la Somalia. Ma l’équipe indipendente dell’Armed Conflict Location & Event Data Project – che su acleddata.com offre un mappamondo aggiornato della violenza politica – avverte che una decina di crisi rischiano di evolvere in peggio, e fra queste cita Haiti, Sahel, Colombia e Libano.
E poi ovviamente c’è la guerra in Ucraina: la nostra attenzione è giustamente focalizzata sull’aggressione da parte di Putin. Dopo aver spartito fra gli oligarchi russi il patrimonio statale e le ceneri dell’ex Urss – con una campagna di privatizzazioni a prezzi di “saldissimi” – ecco che rivolge all’esterno la spinta nazionalistica. Al tempo stesso, l’Occidente guidato dagli Usa cova l’ambizione di mettere a cuccia una volta per tutte Mosca: guardando solo ai Sudeti e senza essersi riletta la storia anni ’30, non si immagina che sbarazzarsi di Putin equivarrà a consegnare il Cremlino nelle mani di ultrà come Prigozhin, il capo dell’allegra brigata Wagner (che, dal canto suo, sta facendo il possibile per candidarsi a un eventuale dopo-Putin)
Sono state dette due cose (fra mille altre): a) questo è solo l’antipasto dello scontro frontale vero che sarà fra Usa e Cina, scintilla Taiwan; b) l’economia russa si fonda sull’export di materie prime. A livello internazionale è stato ricordato che l’Ucraina ha in dote 500mila tonnellate di litio, il “petrolio” di domattina così indispensabile per le batterie di qualunque cosa, si tratti di smartphone o computer e, soprattutto, auto elettriche: ad esempio qui sul New York Times (www.nytimes.com/2022/03/02/climate/ukraine-lithium.html) o qui in un documento della Pennsylvania University (kleinmanenergy.upenn.edu/news-insights/lithium-the-link-between-the-ukraine-war-and-the-clean-energy-transition/). Occhio però che si tratta di poco più di un centesimo di quel che sta altrove, in America Latina.
A questo punto ci starebbe proprio bene una prima parentesi. L’auto elettrica non scarica nell’atmosfera i gas della combustione di carburanti più o meno green. Sembrerebbe l’invenzione miracolosa, se non fosse che la “benzina” è l’elettricità: non si escava da giacimenti ma si produce. Ben venga la produzione da fonti rinnovabili, ma al presente solo una fetta minoritaria arriva da pale eoliche, dighe idroelettriche e pannelli fotovoltaici.
Parentesi quadra per infilarci dentro gli impatti che queste modalità hanno sul paesaggio: ma mica tanto, se fosse vero quel che dice l’ingegner Ugo Salerno, numero uno del Rina, quando cita uno studio dell’università di Standford che, con l’efficienza attuale degli impianti, indica per l’Italia la necessità di coprire una superficie del Bel Paese equivalente a un quarto di tutte le aree urbanizzate attualmente esistenti. Tradotto: si capisce perché la premier Giorgia Meloni, ma anche altri governanti europei di qualsiasi colore, stiano facendo ipotesi attorno alla trasformazione del deserto del Sahara in un enormissimo “giacimento” di energia solare a disposizione dell’Europa.
Parentesi graffa per dirsi che la transizione energetica è assolutamente indispensabile, e il susseguirsi già adesso di catastrofi naturali ce lo rammenta spesso: ma al presente rischiamo di ritrovarci con uno sforzo ciclopico per cambiare i “motori” di auto, moto e industrie semplicemente per spostare la provenienza dei gas di scarico. Non più dalla marmitta bensì dalla ciminiera della centrale elettrica, che in buona parte dei casi è alimentata a gas (quando va bene). Come dire: nel bilancio complessivo dei rendimenti è probabile che tutto questo possa far ridurre le emissioni. Ma c’è da domandarsi: il gioco vale la candela? Senza metter nel conto i limiti all’autonomia delle vetture (eppure come si fa a trascurare, in un lungo viaggio, l’effetto di una ricarica che dura magari un’ora?), c’è da disseminare le stazioni di ricarica ovunque e c’è da attrezzare la rete elettrica per reggere il fabbisogno delle frequenti ricariche durante le soste, soprattutto la notte. O pensate che se tutta Livorno, per dirne una, chiede simultaneamente di ricaricare per ore 80-90mila auto, sia sufficiente semplicemente che ciascuno attacchi la spina?
Adesso non so più neanche che tipo di parentesi sia, diciamo che l’ultimo tassello del puzzle lascia qualche dubbio sulla sensatezza di tutta questa corsa. I motori elettrici non emettono gas serra mentre funzionano ma non sono affatto a impatto zero: 1) per ricavare una tonnellata di litio servono dai due ai cinque milioni di litri di acqua e lavorazioni che comportano emissioni di anidride carbonica da 5 a 15 tonnellate; 2) quest’acqua rischia di essere sottratta agli altri usi causando desertificazione, in Cile nel luogo-clou è sparito il 65% dell’acqua disponibile; 3) una volta usata, rischia di essere scaricata sugli ecosistemi locali; 4) è co plicato smaltire le batterie, una volta concluso il loro ciclo di vita. Ma soprattutto: 5) la chiamano “maledizione delle risorse” ed è la monocultura della preziosa materia prima da estrarre, com’è accaduto per il petrolio, per cui lo sviluppo di interi stati si inginocchia a quella singola materia da exportare, la desertificazione degli altri settori produttivi si aggiunge a quella geografico-ambientale.
E tuttavia dobbiamo fare i conti con il fatto che la domanda è in espansionissima: l’economista Maria Eugenia Sanin in un dossier su “Revue de l’Institut Polytechnique de Paris” stima che le tonnellate di litio carbonato equivalente balzeranno a quasi 1,8 milioni di tonnellate nel 2030 dalle 323mila che erano l’anno prima del Covid. Sei volte di più in appena un decennio, non esiste altra materia prima che possa vantare una aspettativa di crescita così travolgente.
Sono andato fuori tema, qui non si vuol parla né di auto elettriche né di Ucraina: si parla di litio, la materia prima indispensabile per le batterie. Cioè, per la conservazione dell’energia e la disponibilità quando serve. Ma del litio parlo non per fare Superquark, semmai per una preoccupazione nel segno della pace. Ben prima che si sia costretti a occuparci di Taiwan e di Pechino come del prossimo pericolo di veder richiamati al “fronte” i nostri figli, c’è un altro spicchio di mondo che merita la nostra attenzione: chissà che presto non impareremo che il deserto bianco di Salar de Uyuni, altipiano a oltre 3.600 metri di altitudine nelle Ande del Sud Bolivia, è il nuovo Eldorado del mondo, e tutti vogliono metterci le mani sopra. I nuovi Emirati del petrolio. È grande quanto metà Toscana – diciamo da Massa a Capalbio e verso l’interno fino a Siena e Firenze – ed è la più estesa distesa salata che esista sulla Terra. «Così grande che è visibile dalla Luna, così abbagliante da far perdere il senso della distanza, così silenzioso che si sente solo il fischio del vento», raccontavano già due anni fa Carolin Emcke e Wolfgang Uchatius sul “Die Zeit”, magazine liberal progressista tedesco, una sorta di quel che è stato l’Espresso in passato.
Forse il fischio del vento si sentiva tempo fa: ora si sentono soprattutto le jeep di geologi di mezzo Occidente. Cosa li attrae? È qui il più incredibile e gigantesco giacimento di litio che sia conosciuto al mondo: non lo dicono quattro disperati del paesino accanto o l’ente del turismo per acchiappare visitatori, è il report del Geological Survey statunitense, agenzia governativa che è il braccio operativo della Casa Bianca per capire dove puntare la bussola per gli interessi americani.
Allargando via Google Earth lo sguardo in quella stessa zona non c’è solo quello, e già è con gli occhi del futuro l’equivalente di tutti i pozzi di petrolio del Golfo Persico: se mettiamo nel conto anche il deserto di Atacama (Cile) e la zona di Fiambala (Argentina) abbiamo un “triangolo del litio” in cui, sempre secondo occhi (interessati) statunitensi, si concentra il 60% del litio esistente al mondo, e di ottima qualità anche se non sempre di facile acquisizione.
Non siamo in mezzo al nulla, anzi a Uyuni i turisti fanno tutto quel che si deve fare, compreso infilarsi nell’hotel che si reclamizza come «costruito con blocchi di sale», camere shabby chic a 170-200 dollari per notte. Chissà che alle jeep degli ingegneri e a quelle dei turisti non si aggiungano presto quelle di certi tipi con le stellette e gli stivali militari.
Solito antiamericanismo da eurosinistra? Forse no. Laura Richardson è un alto ufficiale delle forze armate statunitensi: in qualità di capo del Comando Sud, nel marzo scorso davanti alla Commissione Affari Esteri del Congresso Usa ha richiamato l’attenzione sul fatto che in quello scacchiere sudamericano («il nostro cortile di casa», lo chiama un parlamentare Usa) si gioca una partita decisiva nello scontro geopolitico per garantirsi l’approvvigionamento delle materie prime fondamentali mentre i «nostri nemici» (Russia, Iran e soprattutto la Cina) hanno una politica molto aggressiva per arrivare a ottenere il controllo di quelle risorse.
Quelle dichiarazioni sono rimbalzate sui social, in particolare Twitter, come una pallina da flipper, ammesso che qualcuno abbia ancora in mente queste apparecchiature da oratorio o bar anni ’60: soprattutto da profili latino-americani. Il “tintinnar di sciabole” che fa risuonare nell’aria la minaccia di un drastico cambio di regime l’hanno inteso benissimo tutti. In effetti, basta tornare indietro al 2019 per ricordarsi cosa accadde al socialismo indio di Evo Morales: ennesima rielezione un po’ pasticciata dribblando i limiti costituzionali ma alla fine i militari lo mettono su un aereo e lo sbattono in esilio per brogli. Al suo posto il fronte della destra più duramente anti-Morales pesca il jolly: si autonomina capo dello Stato la presidente del Senato. È poco più che cinquantenne, metà avvocata e metà volto tv, ma anche attivista per i diritti delle donne: tipa tosta, pure troppo visto che le imputano la responsabilità dei massacri degli oppositori, 36 in pochi mesi, offrendo copertura e impunità a chi se ne è macchiato.
Avrebbe dovuto essere solo una fase-ponte in attesa di nuove elezioni. Quando il voto arriva, per le destre anti-Morales è una disfatta: la sinistra al 55% ha quasi il doppio dei voti del leader di destra. La cacciata di Morales torna a essere definita un golpe, la presidente provvisoria finisce in galera. Sale l’astro di Luis Arce, ex ministro dell’economia del governo socialista e regista della “Moreconomics” dell’ex leader indio. Con una differenza: Arce è una sorta di Draghi socialista (alto funzionario ma non politico carismatico di piazza), viene dalla classe media e ha completato gli studi in Inghilterra, la grande stampa economica gli tributa omaggi anche se è “rosso”. Morales è un indio con radici in una famiglia di poveracci e faceva il sindacalista dei “cocaleros”, da presidente-tutto si fa anche ingaggiare da una squadra della serie A boliviana a 53 anni, risultando il più anziano calciatore in una massima serie al mondo…
C’è un dettaglio che vale la pena di sottolineare: piccolo sì, ma si sa che è lì che il diavolo si nasconde. Dunque, la destra golpista aveva ancora in mano la Bolivia dopo aver sbattuto fuori Morales ed ecco che un tale accreditato come visionario, Musk Elon fu Errol da Pretoria, si lascia stuzzicare dal “cinguettio” di un curioso fanfarone repubblicano from Florida che dice al mondo tutta la sua sboronaggine yankee: «Sai cos’è nell’interesse della gente? Che gli Stati Uniti organizzino un bel colpo di stato contro Morales in Bolivia così che si possa prendere il litio lì». Figuriamoci se Musk ci sta ad arrivare secondo nel campionato dei guasconi: «Noi spodestiamo chiunque vogliamo». Poi lo cancella, ma lo screenshot l’ha fatto anche il gatto e gira ovunque.
L’ennesima stupidaggine twittata da quel bischero compulsivo? In realtà, prima ancora della “generalissima” Usa Laura Richardson era stato Josè Pimentel, ex ministro delle miniere nell’era Morales, a denunciare in una intervista pubblicata qui (www.glistatigenerali.com/energia-economia-reale_geopolitica/la-bolivia-e-il-litio-tracce-di-un-colpo-di-stato/), l’effetto del golpe anti-Morales per fermare il progetto per cui il litio non doveva essere solo estratto ma generare anche una industrializzazione in loco. Non una chiusura totale ai grandi gruppi estrattivi multinazionali ma paletti forti per non farsi rapinare la materia prima e far generare profitti solo altrove (e con un occhio di riguardo per la Cina, che aveva maglie leggermente più larghe rispetto alle società occidentali).
Il caso Morales non è il solo: questo “triangolo del litio” potrebbe avere un quarto lato. Dove? In Perù, nella zona del lago Titicaca, a 4.500 metri di altitudine. È qui che Macusani Yellowcake, il braccio locale del gigante canadese Plateau Energy, ha annunciato di aver scoperto un giacimento di litio fra i più grandi esistenti nel pianeta. Chissà che strana coincidenza: anche il Perù nel 2022 ha visto saltare la svolta (per un soffio) alle elezioni presidenziali dell’anno precedente, con l’ascesa del leader plebeo Pedro Castillo, maestro e bidello, dopo una lunga fase di incertezza in seguito alla fine del fujimorismo.
Resta il fatto che sono in mano a schieramenti che potremmo definire di sinistra (o comunque quantomeno di centrosinistra) tutti e tre (o quattro) i Paesi che hanno in mano queste enormi riserve del materiale più strategico del futuro. E in America Latina il centrosinistra non ha il segno di quel blando tepore liberaldemocratico che da Blair in poi ha avuto in Europa, sposando ogni causa filo-globalizzazione. È qui in questi deserti salati che bisogna cominciare a guardare per capire dove rischia di scoppiare la prossima guerra: forse guerra civile, forse golpe.
Ma Arce in Bolivia, Boric in Cile e Fernandez in Argentina sembrano intenzionati a utilizzare l’arma del pragmatismo. Invece che guerre ideologiche furibonde, ciascuno di loro con la forza politica e con l’autorevolezza che ha (si pensi a Fernandez che ama la rissa con gli avversari a suon di “mezzasega”, “merda”, ecc.) prova a mettere paletti per garantire forme di controllo pubblico sulle ricchezze naturali del loro Paese. Le hanno definite “nazionalizzazioni”, in realtà è un mix di ruolo pubblico dello Stato nell’economia e di apertura alle imprese private (ovviamente soprattutto straniere). Vedremo se finirà meglio che con Allende nel ’73.
E in Italia? Le ricerche di giacimenti di litio sembra sia concentrato in due zone del nostro Paese, dice l’Istituto Geoscienze e Georisorse (Cnr): da un lato, quella che viene definita «la fascia vulcanico-geotermica peritirrenica» e va dal Sud Toscana (zone geotermiche e Amiata) all’area flegrea in zona Vesuvio passando per il Lazio; dall’altro, quella «al fronte della catena appeninica (da Alessandria fino a Pescara) dove sono presenti manifestazioni termali». Nel primo caso, con concentrazioni di litio fino a 480 mg/l; nell’altro, fino a 370 mg/l. Non è una curiosità a caso: l’istituto di ricerca segnala valori «tra i più alti riscontrati nei fluidi profondi del pianeta» (da estrarre «con la tecnica conosciuta come Direct Lithium Extraction»).
Curiosamente, però, benché Enel e Eni sapessero già negli anni ’70 di questa potenzialità del sottosuolo del Centro Italia, ecco che come segnalato dal quotidiano confindustriale “Sole 24 Ore” sono stati due gruppi minerari stranieri, l’uno è il tedesco Vulcan e l’altro l’australiano Altamin, a bussare alla Regione Lazio per ottenere le concessioni relative a giacimenti di litio nella zona del lago vulcanico di Bracciano.
È una corsa che viene da lontano: le miniere di carbone per far partire la rivoluzione industriale, il Klondike dei cercatori d’oro come zio Paperone, la trasformazione degli Emirati da terra di beduini a patria di grattacieli futuribili, ora la caccia al coltan e ai materiali per l’economia digitale. Guido Brera, un po’ ex allievo di Federico Caffè e un po’ storyteller ma anche curriculum da finanziere d’assalto, lo racconta nel podcast “Black Box” di Chora Media. Il progresso del genere umano si è sempre compiuto attraverso l’estrazione di valore dalla terra: prima per la sopravvivenza, poi per l’accumulazione, infine per la capitalizzazione. Ma la nuova frontiera 4.0 è trasformare la mente nella nuova terra da dissodare: il bacino dal quale estrarre le risorse nascoste dentro di noi, il “giacimento” di quel che pensiamo e penseremo. «L’uomo non ha mai smesso di scavare», dice Brera: anche perché, «al tempo della tecnologia digitale, l’uomo estrae valore dall’uomo attraverso le macchine: la nuova materia prima sono i dati personali». Ma per poter far funzionare i pc, a maggior ragione gli ultra-computer di nuova generazione, c’è bisogno di un minerale da escavare di nuovo là fuori: il litio. Appunto: «Scatena guerre, rovescia dittature, ribalta equilibri geopolitici».
Ecco, non sarà forse una guerra come quella di Putin contro Kiev ma tenete gli occhi aperti sul “triangolo del litio” sulle Ande: chissà che non salti fuori qualcosa per fermare l’ondata di centrosinistra che, all’opposto di quanto avviene in Europa, sta creando qualche problema in quello che i parlamentari Usa considerano il “cortile di casa nostra”. Anche se la geografia dice che per Washington il lago salato (boliviano) di Uyuni o il deserto (cileno) di Atacama sono più lontani di Madrid o Londra. Mentre i leader della sinistra latinoamericana, per quanto tutt’altro che estremisti, cominciano – sul modello di quanto avvenuto nel petrolio tanti anni fa – a creare una “Opec del litio”.
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Grazie Mauro, un racconto prezioso per conoscere meglio uno dei più strategici del presente e del futuro globale. Grazie!
Grazie Mauro! Un saggio ben articolato e documentato che fa la sintesi di tante realtà politico-sociali in atto!
Grazie Mauro per questo bell’articolo che nella parte relativa auto elettriche, mi ha fatto pensare alla elettrificazione delle banchine che ha lo stesso problema di dove si produrrà l’energia e l’infrastruttura costerà 700 milioni di euro dei soldi dei contribuenti. Basterebbe obbligare ad usare diesel di ultima generazione alle navi per abbattere di 100 volte gli inquinanti quando le navi sono a banchina , magari dando un incentivo agli armatori per compensare il maggior costo, nel mentre di studieranno altri sistemi di propulsione meno inquinanti (ammoniaca) o altro. Ho scritto a giornali e politici ma risposte zero
Non ho competenze tecniche e mi cospargo anticipatamente il capo di cenere ma non ho mai capito a cosa serva spendere nell’elettrificazione delle banchine gran parte della dotazione Pnrr per la portualità. Un mare di soldi per limitare le emissioni inquinanti durante le soste in porto mentre il mercato, cioè gli operatori, hanno già preso un’altra strada: scrubber e gas. Non saranno la soluzione di tutti i mali ma riducono le emissioni durante tutto il viaggio. L’elettrificazione sposta lo scarico inquinante dal fumaiolo (delle navi) alle ciminiere (delle centrali elettriche). Non sto a dire che a Livorno c’è da quasi dieci anni in via sperimentale e non l’ha praticamente usato nessuno. Abbiamo fatto bene a tentare di anticipare i tempi allora ma poi il mondo è andato da un’altra parte. E figurarsi che nella prima stesura del Recovery i soldi per l’elettrificazione erano addirittura il doppio.
Una tesi da laurea.Presi dalla cronaca corrente di un piccolo Paese che ha perso gran parte del suo peso strategico con la caduta del muro di Berlino,le fonti di informazioni non prestano che marginale attenzione a tutto quello che hai descritto.Bravo e grazie
Grazie , un po’ di luce..