Some of the stories that I'd like to print (cit. Ochs feat. Zuc)
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“Zeb, abbiamo bisogno di te”. È sparito come Majorana: ora salviamone il graffito-cult mettendolo nel museo

Sono 15 anni che David Fedi, pittore e writer aka Zeb, è scomparso. E se fosse ancora vivo e avesse voluto fuggire dai riflettori? I dati su sparizioni e allontanamenti volontari. L’incomprensione che sentiva: adorato sì, ma non capito. Prima che sia troppo tardi, Livorno deve salvare la sua scritta spray più celebre

 

di Mauro Zucchelli

Zeb non parla più con i muri e dai muri non parla più a noi. Peccato, ci manca tanto quell’ironia che non lisciava per il verso del pelo l’umor corrente. Anzi, sfotteva perfino chi gli stava davanti con quel farsi beffe della bischeraggine dell’elettore (vota te stesso così capisci e si capisce meglio che deficiente sei») che non si sa quanto sia peggio di quella dei politici di professione («la cosa bella dell’elezioni è che il giorno prima stanno tutti zitti. Ah bene, dé»). Anche perché il primo bersaglio era lui stesso: come nel disegno dell’ “omo delle caverne”, viene sbatacchiato dalla clava di una donna che lo pizzica a raffigurare animali dentro una grotta preistorica («e li devi piglià i bisonti, mia disegnà, o rintronato»).

La “sua” Livorno – un geniaccio tanto irriverente non può esser saltata fuori nella città di un fuori controllo come Modì (e della beffa delle false teste) – aveva fatto il giuro che non l’avrebbe dimenticato: invece le sue  scritte spray al fulmicotone sono praticamente tutte sparite. Così com’è sparito lui: nel nulla, da un giorno all’altro.

Dal 18 maggio di quindici anni fa è scomparso. La sua Fiat Palio – auto così fuori dal tempo e dalle mode fighette che parla già di per sé – è stata ritrovata parcheggiata non lontano dal “ponte dei suicidi” sulla scogliera del Romito: inutile dire che questo ha fatto scattare nelle forze dell’ordine l’idea facile che si sia tolto la vita e chiusa lì. Ma forse non è andata così, e non lo dico perché è sempre difficile accettare di sentirsi sulle spalle il fatto che un amico o un familiare abbia avuto un dolore tale da non averne retto il peso.

Del resto, pur con tutto il pudore e il rispetto di sé stessi, quel dolore si è manifestato così evidente tutte le volte che ha salito le scale del Tirreno per venirmi a trovare in redazione: e non l’ha fatto solo per dire di pubblicare il pezzetto su una mostra o su una scritta nuova, le urgenze custodite in cuore non possono esser il semplice far conoscere il proprio nome. Al contrario, e lo dirà in una intervista pubblicata postuma nel bel libro “Zeb chi sei” scritto da Gino Fantozzi per l’editore Sillabe:  «Mi basta saper digiunare dell’orgoglio». L’esatto opposto dell’immagine che troppi hanno avuto di lui: quella del livornese dissacrante che, con l’immancabile canna, fa una insegna identitaria dello sfottò ultrà “Pisa merda” già nell’autoritratto di Zeb neonato che gioca con i cubi delle paroline. Oppure andando a ritroso nella storia con il suo sberleffo anti-pisano va a rompere le palle a Napoleone (invitato a «smette’ di sbraità» e andarsi «a be’ un ponce cardo»); si ritrova sulla Fortezza Vecchia per sbertucciare i Medici («l’avete messo a lavorà Zeb? Occhio ‘he ‘un rincominci ‘on le su’ cazzate»); piomba nelle trincee della Prima Guerra Mondiale con le bombe pisane che esplodendo fanno “gaò”; eccolo con Cavour e Garibaldi che sul letto di morte gli chiedono: «Ma ci dici perché Pisa un la voi in Italia?». E nel ’21 mentre al teatro San Marco i fondatori del Partito comunista cantano “Bandiera rossa la trionferà”, lui sull’altri marciapiede si lascia andare: «Ma siete sicuri?».

Non c’è solo quello, c’è anche una vena amara che non sa rassegnarsi al fatto di essere compreso soltanto a metà. Nel libro pubblicato nel ’92 da San Benedetto, vedi alla voce: “Le scritte ‘he bisognava fa’ e ‘nvece ‘un si son fatte”. Ce ne sono tre che sembrano leggibili in filigrana. La prima: «Chiedete ‘r pizzo a Zeb, ve lo fa dà dalla su’ nonna», dice uno spray con una zeb-vecchietta che sferruzza. La seconda: al “m’illumino d’immenso” firmato Ungaretti associa il “mi spengo ner nulla” targato Zeb. Ma soprattutto la terza: «Cosa proponi? Chiederà qualcuno di voi». E la figurina di Zeb che risponde: «Prepararsi a partire». Solo che lo scrive in latino, lui che aveva sempre avuto più di un problema con le cose di scuola. La prima parte forse l’ha presa da un discorso di Gaio Licinio Macro, la risposta è in Tito Livio (“Ab urbe condita”, capitolo XXXIII). Prepararsi a partire per una gita? Una trasferta del magico Livorno? O qualcos’altro?

La voglia di sparire per ricominciare daccapo non è una novità. A questo punto capita come tutt’altro che casuale ogni riferimento al libro di Leonardo Sciascia sulla scomparsa del fisico-genio Ettore Majorana: che fosse una straordinaria mente matematica, superiore perfino a quella di Fermi, è un dato acquisito, ma Sciascia ne fa l’emblema dello scienziato che capisce come le sue scoperte possano essere finalizzate alla bomba atomica e allora sparisce forse in un convento per evitare di collaborare a questo passo verso l’autodistruzione del genere umano. Adesso l’ipotesi più probabile è ritenuta una sparizione in America Latina, ha dato esito abbastanza positivo la comparazione dei dati antropometrici fra un ritratto di Majorana prima della scomparsa e la foto di un uomo in Venezuela negli anni ’50.

Non è l’unico caso. Nell’aprile 1987 scompare nel nulla nel cuore di Roma Federico Caffè, uno dei più grandi economisti italiani: vale la pena di leggersi cosa racconta Daniele Archibugi, fratello della regista Francesca Archibugi, in un magnifico libro (“Maestro delle mie brame”, uscito per Fazi pochi mesi fa). Scritto con grande partecipazione e una spietata sincerità da parte di uno degli ex allievi più vicini a Caffè, che oltretutto era amico del padre.

La relazione del commissario per le persone scomparse segnala che a livello nazionale sono sparite 80.358 persone: tantissime, più della metà di tutti gli abitanti di Livorno. Ma parliamo di una cifra che mette insieme tutte le scomparse nell’arco di tempo che va dal 1974 a fine settembre 2008: non si arriva a 2.300 all’anno, ma capite che è una dimensione ben diversa. Se togliamo dal conto i minorenni, magari per litigi familiari con uno dei coniugi che “rapisce” il figlio, se togliamo gli anziani con probabili problemi di Alzheimer, le persone di origine straniera, soprattutto minorenni, il totale degli scomparsi in età 18-65 anni si riduce a 28.634, cioè 818 all’anno in tutta Italia. I dati storici ci dicono che più di tre volte su quattro gli scomparsi vengono ritrovati. A questo punto abbiamo un totale di scomparsi adulti italiani (maggiorenni ma non anziani) che si è attestato a quota 6.763. Meno di 194 all’anno su scala nazionale.

Da aggiungere che in quegli anni i dati erano raccolto in modo meno approfondito, però su un campione di 131 casi analizzati la causa numero uno della sparizione di maggiorenni è stata l’allontanamento volontario: quasi la metà (43 su 110). E nel caso che la persona sia sparita di propria iniziativa, i rinvenimenti in vita sono il doppio di quelli post-mortem. Di più: quando negli anni successivi si consolida il dato statistico, balza agli occhi che gli allontanamenti volontari sono ben di più si quanto ci si immagini. La percentuale? Per i cittadini italiani in età 18-65 anni quasi due casi su tre: ad esempio, il 63,1% nel dossier del settembre dell’anno successivo alla sparizione di Zeb ma a distanza di dieci anni salirà addirittura al 71,5%. Non è tutto: l’ultimissima relazione del Commissario per le persone scomparse segnala che negli ultimi dieci anni gli allontanamenti volontari sono cresciuti ancora e ormai sfiorano il 75%, e fra questi più di uno su tre (37%) non è ancora stato ritrovato.

L’attenzione della cronaca nera va a scomparse choc come la ragazza di una famiglia vaticana Emanuela Orlandi o il giudice del tribunale fallimentare romano Paolo Aliprandi o il tecnico informatico militare Davide Cervia ma questo è lo standard da serie tv americana. Se non fossimo intossicati dal fascino del “crime” in prima serata e, soprattutto, da chi ha fatto della paura un fiorentissimo mercato politico a proprio vantaggio, ci accorgeremmo che qui da noi ci sono meno omicidi che in passato, e spessissimo nascono all’interno della famiglia o della cerchia di conoscenti: altro che luminol, Afis o gascromatografo.

L’ultimo dossier segnala anche qualcos’altro che ci riguarda più da vicino: la Toscana è al 10° posto per numero di scomparsi ma al sesto per percentuale globale di ritrovamenti. Le cifre concrete: nel 2022 è il 72,1%, ma supera l’85% se si tolgono dal conto i cittadini di origine straniera. Allargando l’analisi al quasi mezzo secolo da quando queste statistiche di polizia vengono raccolte, in Toscana quasi il 93% degli spariti sono stati ritrovati (secondi solo al Veneto fra le grandi regioni). Relativamente allo scorso anno abbiamo anche il dettaglio provincia per provincia: ecco, la provincia di Livorno è al 17° posto fra gli oltre cento campanili del Bel Paese per ritrovamenti, in dodici mesi su 58 denunce di scomparsa solo 12 sono rimaste con un punto interrogativo senza il ritrovamento.

Qualcosa del genere salta agli occhi anche per il rebus di cadaveri non riconosciuti. Prima di leggere la risposta contenuti nel dossier specifico del ministero, provate a indovinare quanti ce ne sono ogni anno in tutta Italia: dieci, cento, mille? Nell’arco dei quarant’anni presi in esame dal dossier 2014, se ne contano 1.283, quasi la metà dei quali in Sicilia (soprattutto per i morti in barcone). Sicilia esclusa, dunque sono appena più di 17 ogni anno. Se guardiamo alla Toscana, dal ’74 in poi si hanno 35 cadaveri non identificati (neanche uno all’anno), cinque dei quali in mare. Questi numeri ci dicono qualcosa: la realtà là fuori non assomiglia paradossalmente più a “Don Matteo” o a “Montalbano” che a “Grey’s anatomy”, “Csi Miami”, “Bones” o “Numb3rs”. Come dire: i morti senza nome esistono, ma sono molto ma molto più rari di quanto si pensi.

Dunque, forse non è solo il cuore di mamma che dice alla madre di Zeb che il cuore generoso di suo figlio batte ancora. E poi negli archivi delle cronache, in particolare del Tirreno, si scovano indizi: 1) i panni stesi a asciugare dov’era andato da un anno ad abitare (davvero fai il bucato se pensi di toglierti dal mondo o è una dissimulazione per non far capire che sparirai?); 2) le minacce, non sappiamo quanto esplicite, che Zeb diceva agli amici di aver ricevuto dopo essersi messo a scrivere un libro su un sottobosco losco (ma quanto è stato trovato non sembra contenere rivelazioni da far crollare il mondo); 3) agli amici arriva una segnalazione che lo indica a Marsiglia, dove sarebbe arrivato imbarcandosi a Livorno su un traghetto per Bastia e, da Ajaccio, Propriano, Porto Vecchio, Ile Rousse o anche proprio da Bastia semplicemente cambiando banchina, nel giro di quattro ore via verso la Francia (ma subito Marsiglia o prima Tolone o Nizza?).

Mi soffermerei però su altri tre tasselli del puzzle. L’uno: un amico è andato in Romania a scovare l’ex fidanzata del writer, ha disseminato la zona di manifestini e una amica della ex gli ha alla fine riferito di averlo visto in luglio, cioè due mesi dopo che era sparito da Livorno. L’altro: non ha portato con sé il cellulare, e anche l’ultimo telespettatore ormai sa che bisogna farlo per evitare che ti rintraccino attraverso la mappatura delle celle alle quali il telefonino si aggancia. La terza: con quel suo fare talvolta paradossale, due giorni prima di sparire aveva detto alla madre che «forse questa è l’ultima volta che mi vedi». La solita battuta di quelle sue? «Vedrai, vedrai», aveva aggiunto secondo quanto riferito dalla mamma alla cronista del Tirreno.

Ci sarebbero mille altre cose da dire di quel ragazzo nato 57 anni fa, che un certo pomeriggio anni ’90 mi ero trovato davanti in redazione: con due righe da far pubblicare in un trafiletto da agenda, ok ma anche con un magma di cose da dire e di progetti da inventare, con scrigno di autenticità da mettere sul tavolo per quanto in modo incasinato e malinconico, così vulcanico e così sicuro nelle insicurezze. Il berrettino e quel sopracciglio un po’ alzato e comunque sghimbescio che non vuol essere tronfiaggine da artista consacrato ma, viceversa, un ghigno ironico e incredulo. Quella volta mi fece vedere che l’aveva messo anche sulla carta d’identità («l’impiegata del Comune non voleva accettarla»).

Però forse dovrei smetterla di chiamarlo Zeb: David Fedi il suo nome. Questo doppio binario l’aveva fatto conoscere a tutta Livorno e poi al mondo. Ma alla fin fine con una consapevolezza: di parlare al muro, di rivolgersi a una città capace al tempo stesso di adorarlo eppure di non capirlo, quantomeno di fraintenderlo. Me l’ha ripetuto spesso: le scritte spray le faccio per comunicare, ma l’arte è un’altra cosa ed è quello che mi interessa. Detto per inciso: con una spietata disciplina verso sé stesso e una refrattarietà ad agire secondo le convenienze di galleristi e mercato. Un po’ come quando alla popstar il pubblico chiede in concerto di rifare la canzone-hit ma uguale uguale perché se la cambia la sciupa. Una sorta di coazione a ripetere all’infinito: una condanna alla serialità?

No, non è stata solo “adorazione” quel che ha incontrato. Ad esempio, perché c’è quel segno del bersaglio aggiunto sulla testa del suo personaggio murale? Perché quel “mira! mira!” che quasi sfida a sparare? Ad esempio, quant’è amaro quando con lo spray spiega che la felicità «non è ben vista», dunque «se sei felice non lo dire a nessuno, ‘un lo fa nemmen capì». Ad esempio, «’un sei mai salvo finché ‘un sei morto»…

È inutile che mi ci provi: sono concetti che maneggio in modo maldestro. Certo che mi colpisce il fatto che David abbia scelto proprio Diabolik come strumento-icona della sua arte. L’ha detto uno di quelli che se ne intendono: nell’immaginario richiama qualcuno che si muove al di là delle regole precisine e ingiuste scritte perché gli sbirri e i giudici le facciano osservare eppure si muove con un proprio codice etico.

Ben venga Diabolik ma, anche se David forse ce l’avrebbe un po’ con me, vorrei che la “sua” Livorno salvasse quel suo ultimo graffito non ancora sparito. L’ha riveduto e corretta pochi giorni prima di andarsene dalla scena, nel 2008: e chissà se è solo una coincidenza che l’abbia fatta il giorno della festa del babbo (artista anche lui). È l’ultimo fotogramma del nostro lungomare, in parte se l’è mangiata il tempo e ormai ha il color seppia dei dagherrotipi dopo che Zeb l’aveva aggiornata (non più «vent’anni che parlo coi muri» ma ventidue: perché quel bisogno di aggiungere in extremis i due anni in più?).

Ecco, chissà se è possibile staccarlo da quel muro o comunque metterlo al sicuro nel nuovo allestimento del museo della Città ai Bottini dell’Olio. Non lo so nemmeno se sia una proposta che Zeb/David avrebbe condiviso: magari ha cercato di far sparire lo Zeb dei graffiti per rinascere come David l’artista e io sto qui a sbattergli in faccia il passato. Peraltro, non è una novità l’idea di salvare questo patrimonio di quel che siamo: già all’inizio del decennio scorso era stata lanciata via social la proposta. Del resto, già allora la città cominciava a inghiottire gli sberleffi di Zeb: quello in via della Cinta Esterna, un «bellissimo muro sul quale Zeb non scriverà mai», o quello sul perimetro del vecchio Cantiere Orlando abbattuto per far posto alla Porta a Mare.

Non sto dicendo che sia l’equivalente di Modigliani ma l’assessore alla cultura lo faccia per noi prima che per Zeb: è una traccia forte di quel che siamo, e non è forse vero che il Comune vuol mettere le false teste di Modì nel museo? E ora è in queste condizioni sbiadite.

In un mondo che adesso sta riscoprendo il (maledetto) fascino discreto dei Muri, lui aveva cominciato a buttarli giù prima che crollasse il Muro di Berlino, e l’ha fatto con quel niente che sono gli spray. David/Zeb l’ha fatto aprendo la strada ai graffitari della generazione successiva che ora stanno trasformando il paesaggio urbano fino a fare di Livorno una città interessante per tanti spunti di street art: compreso l’omaggio che Bibbito con Uovo alla Pop gli ha reso su un muro della Venezia, zona via del Forte San Pietro (“Parlo sempre coi muri”).

Mai stato bello autocitarsi. Ma, mettendo come colonna sonora “Wish you were here” che i Pink Floyd dedicano all’amico Syd Barrett che per trent’anni è sparito da tutti e anche da sé stesso, riprendo la lettera aperta che gli scrissi del Tirreno nel decimo anniversario della sua sparizione.

«Non c’era una volta che fossimo d’accordo – anzi probabilmente dovrei usare l’ultra-trapassato piuccheremoto visto che è trascorso tanto di quel tempo – ma c’era sempre di che imparare o quantomeno di che farsi domande quando venivi non a portare un pezzetto autopubblicitario o l’annuncio di una mostra, casomai a chiedere conto di qualcosa o a illuminare una di quelle balzane idee che ti venivano a cercare non so come e che ti garbava scaraventare sulle certezze altrui, sui luoghicomuni, sulle frasi fatte. Non mi intendo di arte e non saprei se infilarti fra i post-pop o i neo-neofigurativi ma, quando ho conosciuto la storia di Srinivasa Aiyangar Ramanujan, quel matematico indiano che nel chiuso del suo villaggetto si è reinventato da solo con il suo quadernino di appunti i fondamenti di 25 secoli di matematica occidentale, confesso di aver pensato: questo qui è tale quale Zeb. Cioè te. Abbiamo bisogno di te come abbiamo avuto bisogno di Nicola (Marco) Badaloni: cosa c’entra un solido cattedratico di filosofia con un writer col cappellino? C’entra perché siete stati, ciascuno la sua parte, un pezzo della coscienza civile della nostra città così slabbrata. Anch’io – come i tuoi familiari, come tanti ma proprio tanti tuoi amici – vorrei che tu fossi qui: a gridare dai muri (sapendo che non ti avremmo sentito). Nel frattempo però cosa ci siamo persi: dieci anni in cui chissà come avresti raccontato la città. Senza prenderti troppo sul serio perché, come dicevi, in fondo si tratta solo di quattro parole scritte con lo spray più un ghigno beffardo. Ma ci avrebbero fatto compagnia e reso meno dura questa traversata d’un deserto che sembra più grande del Sahara. Ti aspetto». Post scriptum: anche perché adesso quest’inverno del nostro scontento sembra allungarsi più lungo che mai, e mangiarsi ogni primavera. Davvero pensi di poter mostrare «il paradiso dall’inferno»? Wish you were here, David.

 

 

 

 

 

5 Comments

  1. Laura Bandini ha detto:

    Letto con profonda commozione. Mi associo alla tua proposta, salviamo magari quella scritta, così espressiva non solo di Zeb.

    1. Patrizia Salutij ha detto:

      Almeno questo pezzo di muro salviamolo. Con e anche dopo la guerra si sono distrutte tante di quelle cose preziose…

  2. Medea ha detto:

    Grande zeb è stato un onore conoscerti ed aver graffiato insieme 😂… spero che la voglia di sparire sia stata una tua scelta ! Mancano cervello come i tuoi oggi avresti potuto esprimerti al nassimo su tutti i muti di livorno ed oltre 💙

  3. Manuela Mariani ha detto:

    Zeb è uno di noi che esprime tanto di noi… un poeta della strada e dei muri..
    Approvo la proposta di salvare almeno la sua celebre scritta ..
    Grazie Mauro

  4. Renato Semplici ha detto:

    Zeb mi sei piaciuto tanto. Spero che tu sia ancora tra noi e che un giorno passerai a salutarci . Grazie

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