Some of the stories that I'd like to print (cit. Ochs feat. Zuc)
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I 150 di Manzoni: macché Arno, i panni li “sciacqua” prima nel mare di Livorno. Sorpresa: la babysitter lo aiuta nei “Promessi sposi”
Oggi cade il 150° anniversario della morte dello scrittore rovinato dalla scuola. Il viaggio a Livorno nel 1827, la locanda dove si mangia bene ma per strada c’è un gran bailamme (e la figlia lo trova divertente). Ecco dove forse sono andati al mare: non era turismo ma terapia. La “tata” è fiorentina è fa da editor del capolavoro

di Mauro Zucchelli

Di Dante non sappiamo se è stato «un uomo libero, un fallito o un servo di partito» (cit. Venditti) e casomai andiamo a chiederlo ai podcast del professor Barbero. Di Alessandro Manzoni, no: l’abbiamo consegnato al trapassato remoto rinchiudendolo nelle cose noiose che si fanno a scuola. Dunque, marchiate per sempre come qualcosa che non può avere niente a che fare con la vita vera, men che mai con le proprie passioni.

Manzoni nel celebre ritratto di Hayez (1841). In alto: lo scrittore a 20 anni in un dipinto inglese

Ecco che, a sorpresa, il vecchio “don Lisander” – mummificato nel ritratto, seduto e con il solito melanconico giramento di zibidei, che a 56 anni gli fece Hayez – viene a trovarci in casa nostra. E non perché oggi lo vediamo consacrato nel 150° anniversario della morte con le celebrazioni in pompa magna. Nel 1827, l’anno della prima svolta nella scrittura dei “Promessi sposi” con la trasformazione di Fermo in Renzo, è anche quello in cui la comitiva familiare dei Manzoni arriva in Toscana. Si è già lasciato alle spalle il periodo scanzonato dopo esser stato rinchiuso in un ambiente bigotto come il collegio dei barnabiti: a scuola ce lo raccontano come un santino infilzato e un po’ polveroso. In realtà, stiamo parlando di un tipino che a 16-17 anni ha un padre settantenne: ha l’età per essere suo nonno e probabilmente non è nemmeno il padre, certo che non ce la fa a tener a bada un ragazzotto con tanti soldi in tasca e la voglia di sperperarli nelle bische organizzate nel ridotto della Scala. La sua è una famiglia vip e se ci fossero stati i rotocalchi di gossip gli amori della mamma, appartenente a una delle dinastie intellettuali di grande fama, avrebbero surclassato le beghe dei Ferragnez: Alessandro è figlio di un altro grande nome fra i letterati di quel tempo e, a sua volta, benché non sia proprio Brad Pitt colleziona love story fra ragazze che oggi trovereste al Loolapaloosa o al Blue Note, ma al tempo stesso ha nonni, cugini, zii e amici in tutta la Milano che conta (e che scrive o pensa).

Dicono che il buon Alessandro, consacrato poi come scrittore celebre, abbia voluto venire in Toscana per «sciacquare i panni in Arno»: cioè per fondare sul “fiorentino colto” (non rinascimentale bensì contemporaneo) il nuovo italiano moderno. Proprio adesso che cominciava a farsi presente l’idea di dare una lingua all’unificazione dell’Italia, fino a quel punto sbriciolata in tanti staterelli. A dire il vero, dietro la decisione di casa Manzoni c’è anche il bisogno di trovare un ambiente che giovi alla salute traballante della moglie Enrichetta: lei figlia di un industriale e imparentata con una galassia di banchieri, lui agganciato per parte di madre al migliore clan dell’aristocrazia intellettuale illuminista milanese (fra Beccaria, Verri e Imbonati).

Alessandro a 5 anni con la madre Giulia: il dipinto viene donato as quello che si ritiene sia il vero padre dello scrittore

Ma i rapporti familiari sotto il tetto di casa Manzoni sono sempre stati un ginepraio: con i soldi dell’eredità di lei compreranno un palazzo intero nel centro di Milano, in via del Morone, ma fra Alessandro e il suocero i legami sono al grado zero. A ciò si aggiunga che la salute della moglie Enrichetta è sempre in tilt: un po’ per la struttura fisica malaticcia, un po’ per le severe pratiche di mortificazione devozionale e soprattutto per le continue gravidanze (dieci), in pratica una ogni due anni. Non solo: la primogenita Giulietta (stesso nome della nonna) va sposa a Massimo D’Azeglio, altra figura illustre dell’Ottocento italiano, il nobiluomo piemontese strega il babbo Alessandro e la nonna Giulia ma il matrimonio con un tal gaudente si rivela un disastro…

Non basta. Ce ne sarebbero di ingredienti anche per infiocchettare la spinta religioso-provvidenzialistica che troviamo nei “Promessi sposi” partendo dalla fede calvinista della suocera, dall’illuminismo doc del nonno, dagli atteggiamenti fuori dagli schemi della mamma (che, come accennato, lascia il vecchio possidente al quale l’avevano maritata, si avvicina ora all’uno ora all’altro protagonista della scena culturale e infine va a vivere da un altro borghese grande grande, anch’egli dal portafoglio imbottito). Non è quel che ci interessa qui, quanto piuttosto mettersi sulle tracce dei Manzoni che prima di arrivare in riva all’Arno i panni vanno a sciacquarseli a Livorno, probabilmente fra il Fanale e la (futura) Terrazza Mascagni.

È quel che dice anche la lapide appiccicata lassù a uno dei palazzi post-bellici che hanno contrassegnato la ricostruzione di una via Grande con i portici anziché senza, cioè com’era. Sulla cantonata che ospita il negozio di Snipes, ecco un marmo indicare il luogo «dove era la locanda del Boboli», precisando che ospitò Alessandro Manzoni «nell’agosto 1827». Suona un po’ come uno sberleffo a Firenze, che sul risciacquo di panni senza ammorbidente ha piantato un capitale di prosopopea così come su Lorenzo il Magnificissimo: «Sulle rive del Tirreno, prima che su quelle dell’Arno, riconobbe e ammirò per i suoi nobili fini di arte la purezza dell’idioma toscano». Una targa l’aveva già messa il Comune nel 1940, in occasione del centenario dei “Promessi sposi”; le bombe delle “fortezze volanti” hanno distrutto tutto e la Società Generale Immobiliare, longa manus palazzinara vicina al Vaticano che diventerà famosa per il Palazzo Grande piantato nel bel mezzo della piazza centrale della città, ricostruendo il palazzo la ricolloca nel ’57. Con un testo siglato F.F.: forse il professor Flavio Franchi, assessore agli alloggi nella giunta Badaloni?

La lapide in via Grande a Livorno: ricorda la locanda del Boboli che ha ospitato la famiglia Manzoni nel 1827

Giovanni Wiquel, nel suo “Dizionario” pubblicato dalla “Canaviglia” di Bastogi, ricorda che questa locanda era nello stesso edificio del “Caffè del Greco”, «il più importante della città». E cita una lettera di Alessandro Manzoni all’amico Tommaso Grossi: che ci sia un gran bailamme non lo dice solo la figlia, la locanda va «benissimo quanto ad alloggio ed a tavola». Quel che «guasta un poco» è «il gran chiasso»: la famiglia milanese è «nel tratto più frequentato, il più clamoroso».

Il nome della locanda non lo trovano ovviamente su Tripadvisor: Davide Melodia, in un intervento sui “Quaderni della Labronica citato da un interessante blog quacchero, segnala che a far da guida alla famiglia dello scrittore milanese a Livorno è Georges Guebhard, mercante svizzero consigliere commerciale del re di Prussia: è lui a sistemarli nella locanda il cui nome (Boboli) curiosamente riprende una denominazione toponomastica fiorentina.

Non è solo l’aria di mare o il salmastro che si pensa possa giovare alla salute malferma di Enrichetta: è già sul finire del Settecento che si diffonde l’idea delle “bagnature” come terapia per curare un po’ tutto. Vale anche per Livorno: c’è tutto un susseguirsi di tentativi di trasformare il lungomare, che fino ad allora era stato caratterizzato dei campi che arrivavano quasi in riva al mare. Lo racconta  Osvaldo Testi, direttore dell’Archivio Storico Cittadino, in una lunghissima dissertazione sul “Telegrafo” nell’estate 1922 in cui il fascismo espugna con la violenza Livorno, città “rossa”.

La Manzoni family all’epoca del viaggio in Toscana: è un disegno presente in un carteggio pubblicato da Hoepli

Non è dunque solo per retorica municipalistica che si immagina Manzoni “sciacquare” (metaforicamente) i panni nel mare di Livorno prima che in Arno: se a Livorno si trattengono una ventina di giorni, è ben difficile che non siano andati al mare. Ma non dovete pensare con la mentalità di oggi, allora era del tutto diverso. È vero che nel 1827 non c’erano ancora gli storici bagni Pancaldi ma Baretti, il pioniere del settore, aveva già previsto «cinque stanzette, contenenti una tinozza, a cui l’acqua di mare affluiva a mezzo di una specie di pompa». Il popolino, però, forse s’era già inventato la “siuski”, il tuffo-cult delle estati labroniche: si arrangiavano – senza cabine né sdraio e neppure “coccobbbelloooo” – alla spiaggia dei Mulinacci, il luogo sconsacrato dove vennero sepolti inizialmente i defunti ebrei prima di ottenere il diritto ad avere un proprio cimitero. Ugo Canessa, in uno dei suoi preziosi interventi di memoria storica locale, ricorda sul “Tirreno” che in quegli anni si erano moltiplicati i tentativi di creare un abbozzo di stabilimento balneare sia vicino al Forte di San Pietro d’Alcantara (c’è un motivo per cui si chiama “via dei Bagnetti”…) sia ai piedi della Fortezza Vecchia.

Quel viaggio è fondamentale per capire il salto che farà la lingua di Alessandro Manzoni nell’ultima e definitiva edizione dei “Promessi sposi”. Appena prima di partire è uscita la seconda edizione dei “Promessi sposi” e le 600 copie vendute in pochi giorni non ne potrebbero oggi fare un caso letterario ma a quel tempo decisamente sì: esulta la figlia Giulietta in una lettera del 10 luglio indirizzata a una amica. Secondo quanto emerge dalla pubblicazione di questa corrispondenza su “Rassegna volterrana” ad opera di Gabriella Bassi Viti, da Milano è partita «una tribù  più che una famiglia»; Manzoni con la moglie che è il vero talento organizzativo della casa, la madre di Manzoni, sei figlioli con tanto di  babysitter e istitutrice più altre due colf. Il tempo proprio non aiuta: un acquazzone dietro l’altro, la tata si spacca una mano perché la carrozza dei figli deraglia sull’argine dello Scrivia e va a sbattere contro un albero. È il viaggio della sfiga almeno finché il sole si affaccia a Genova: se ci fosse il “parabris” potrebbero vedere quel «lampo giallo» immaginato da Paolo Conte.

La primogenita dei Manzoni ha 19 anni quando all’amica Maria Trotti Bentivoglio  racconta questo viaggio a suon di lettere citate dal blogger Federico Formignani su “Latitudes”. Giulietta racconterà che soprattutto i letterati fiorentini coccolano talmente il babbo da averlo reso meso taciturno e scontroso, e in una successiva missiva ricorderà che il periodo fiorentino è stato particolarmente positivo per il padre. Lei però dice chiaro e tondo che preferisce Livorno: «Credevo che Firenze mi piacesse di più. L’ho trovata triste e spopolata» mentre a Livorno «non avevamo da lamentarci che del rumore di una folla continua, che mi divertiva molto».

Alessandro Manzoni e Enrichetta Blondel al tempo del matrimonio

Da dire che nel patrimonio della Biblioteca Labronica figurano alcune lettere di Manzoni. A cominciare da quella datata 9 agosto 1828, a un anno esatto dal viaggio a Livorno, in cui ringrazia «l’ill.mo e chiarissimo signore Francesco Pistolesi» per esser stato nominato accademico alla Accademia Labronica di Livorno. Nell’autografoteca Bastogi troviamo gli originali di quella del 9 giugno 1840 in cui invia al pittore Federico Moja le indicazioni per alcune vignette per i “Promessi sposi”; di quella dell’estate dell’anno successivo in cui scrive al tipografo che presto gli manderà «il resto del capitolo XVII»; di quella del febbraio 1847 per segnalare all’amico Giuseppe Giusti che «Giuseppe Verdi vuol fare la sua conoscenza»). Si aggiunga la copia della lettera alla figlia Vittoria in vista della prima comunione (1835).

Questa “sciacquatura” lo accompagnerà anche in seguito, ma a Milano. Come? Dopo la morte della figlia Giulietta si ritrova a dover cercare una babysitter 24h per la nipotina Rina: D’Azeglio forse azzecca la mossa migliore di una intera esistenza in casa Manzoni e consiglia di prendere Emilia Luti, 24 anni, fiorentina doc. È figlia di un cancelliere di tribunale e dunque non sarà una altoborghese come i Manzoni ma non è nemmeno una sottoproletaria; il padre è morto e ora deve inventarsi qualcosa per mantenere la famiglia. Nel 1838, a più di dieci anni dal viaggio dei Manzoni a Firenze, lascia la sua casa nella capitale del  Granducato e va a servizio dai Manzoni. Progressivamente da “tata” diventa “dama di compagnia”, e soprattutto “editor” della trasformazione “fiorentina” della lingua dei “Promessi sposi”: un ruolo oscuro, che Manzoni compenserà con nient’altro che una dedica affettuosa sulla copia dell’edizione 1840 del capolavoro con Renzo e Lucia, Don Abbondio e l’Innominato.

Alessandro Manzoni due anni prima della morte

Emanuela Fontana ne ha disegnato l’identikit in “La correttrice”, appena uscito per Mondadori. Nel ’92 c’era stato un lavoro analogo anche di Giovanni Amoretti. Ma è uno scoop recente fino a un ceto punto: già negli anni ’30 Emilio Sioli Legnani aveva messo l’accento sul ruolo di “madamigella Emilia Luti”. Prima ancora c’è un ponderoso tomo edito da Hoepli nel 1885 e messo nero su bianco da Stefano Stampa rivendicando il fatto di poter disporre di informazioni di primissima mano, stante la consuetudine di 24 anni di stretta amicizia con Manzoni: «Prese ad aja delle sue figliole la signora Emilia Luti, che divenne l’oracolo de’ suoi cangiamenti a’ Promessi sposi».

1 Comment

  1. Massimo Bianchi ha detto:

    Come sempre interessante.Richia ma la vivacità attrattiva di Livorno nell’800.Se avessimo cognizione dei tanti personaggi e delle tante storie della nostra città,saremmo più orgogliosi del passato e trarne qualche idea per il futuro.Grazie e saluti cari

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