(video dal canale Youtube di La Vecchia Livorno: clicca sull’immagine)
Ottant’anni fa la guerra arriva sull’uscio di casa dei livornesi: vi rimarrà per 14 terribili mesi fra bombardamenti dal cielo e rastrellamenti nazisti. E’ un evento che non ha uguali nella nostra storia fin dal neolitico, e ci cambia nel profondo
di Mauro Zucchelli
Mai. Mai vuol dire proprio mai: mai qui così, mai in tutta la storia. Mai fin da quando non avevamo nemmeno una grotta sulla quale dipingere animali come a Lascaux: i nostri ultra-tristrisnonni non ci hanno lasciato nulla se non pezzi di freccia o la testa di leone ai tempi di Claudio Rutilio Namaziano, figuriamoci nei secoli dei granduchi fiorentini. Ecco, quel venerdì di passione di cielo (quasi) nero e luna (quasi) nuova – il 28 maggio di ottant’anni fa esatti esatti – qualcosa è cambiato per omnia saecula saeculorum: è il giorno del primo tremendo bombardamento a tappeto.
È vero che nel corso della Prima guerra mondiale un blitz austroungarico aveva fatto affondare una nave nel Porto Mediceo. È vero che all’inizio degli anni ’20 la violenza politica aveva causato parecchie vittime a suon di revolverate e agguati fino agli assassini dei fratelli Gigli (anarchico l’uno e comunista l’altro) e all’assalto al Comune “rosso” da parte degli squadristi di Perrone Compagni venuti da mezza Toscana e grazie alla complicità di parte delle istituzioni. È vero che nel maggio 1849 fuori da Porta San Marco c’erano le potentissime armate austriache che conquisteranno la città nonostante la disperata difesa di Bartelloni e i suoi. Tutto vero, ma niente di paragonabile neanche lontanamente alla distruzione di quel 28 maggio 1943: nemmeno nei 32 terremoti che dal 1168 – negli ultimi novecento anni, insomma – hanno interessato Livorno.
Un così alto numero di vittime in un sol colpo si è avuta, in tutta la storia plurisecolare della città, esclusivamente in occasione di tremende epidemie, ma nell’arco di più settimane o più mesi: del Covid abbiamo memoria recente (613 decessi nel territorio di Livorno città in tre anni), nel Novecento abbiamo avuto il colera nel 1911 (186 morti, cioè la metà dei contagiati) e l’influenza spagnola (sul finire della Prima guerra mondiale, con un migliaio di deceduti). Nel secolo precedente: la febbre gialla del 1804 (624 vittime), il colera sia nel 1835 (oltre 1.100 morti) come pure nel 1867 (più di 800) e nel 1893 (quasi 180). Ma in questo campo niente raggiunge gli effetti terribili del contagio da tifo petecchiale che, come riporta la preziosa cronologia di Matteo Giunti, alla metà del Seicento ha ucciso quasi un livornese su cinque (2.290 vittime) in quel paesotto di 12mila anime attorno alla Fortezza Vecchia.
E tuttavia se il bilancio in vite umane è più alto, in ciascuna di queste epidemie gli edifici restavano intatti. Sotto le bombe no: la devastazione non ha avuto uguali in tutta la nostra storia. L’indagine storica di Laura Fedi (Istoreco) “fotografa” una realtà in cui, in meno di due ore, vengono distrutti 150 edifici, altri 300 sono danneggiati e un migliaio lesionati. Dove? «Vengono colpite gravemente la Stazione marittima, piazza del Voltone, piazza Magenta, via Maggi, via Baciocchi, via Marradi, via Montebello, viale Regina Margherita, via Erbosa (oggi via Solferino e via Mastacchi), la Venezia, il porto e la zona industriale». A ciò si aggiungano «i fabbricati della dogana, i magazzini generali, il distretto militare e la caserma di finanza, lungo il Molo Mediceo, oltre a tre siluranti». Da non dimenticare che «l’esplosione di una carica di munizioni provoca l’incendio di tre navi mercantili e di un piroscafo». Sono un cumulo di macerie «la caserma dei carabinieri e il Comando Tappa tedesco», giù anche «i fabbricati del Genio Civile e dell’Unione industriale così come i danni alla Centrale telefonica, letteralmente sepolta dalle macerie, e al Palazzo del Governo».
Le vittime civili le troviamo soprattutto fra gli operai navali del Cantiere (a quel tempo si chiamava Oto e, un po’ paradossalmente, poco prima aveva realizzato il cacciatorpediniere Tashkent per la Marina militare sovietica di Stalin). E non solo lì: pure fra «gli abitanti delle zone limitrofe al porto e alla zona industriale della città, così come gli abitanti del centro e quelli nei pressi dell’Accademia Navale». Fedi cita un report della prefettura, per segnalare che alla Motofides «un carro ferroviario vuoto e fermo sul binario» viene scaraventato in aria dalle esplosioni, ricadrà «completamente rovesciato a grande distanza».
Per avere un raffronto che dia anche solo una pallida idea a noi che le guerre crediamo di viverle attraverso i tg: oggi sentiamo tutto lo strazio per gli attacchi della Russia di Putin al territorio ucraino, ma i report quotidiani ci parlano di un pugno di morti, talvolta qualche decina. A differenza di questi attacchi condotti con missili, quello del 28 maggio ’43 su Livorno venne condotto da «circa 60 aerei dell’aviazione americana» e causò «225 morti», che salirono a quota 280 nei giorni seguenti per l’aggravamento delle condizioni dei feriti più gravi (che in tutto erano stati più di 220).
Nel conto delle vittime, poco più di una dozzina di militari: l’impatto cioè è stato quasi per il 95.5% sulla popolazione civile. E non è stato un danno collaterale imprevisto: è stato un bombardamento “a tappeto”, ha scaricato qualcosa come «180 tonnellate di bombe», in «due ondate successive» così da aumentare l’effetto terrore. Quel che rimarrà scolpito nella memoria dei livornesi: in guerra la morte viene dal cielo. Come segnala il comandante generale della protezione civile antiaerea (Unpa) citato dal portale ToscanaNovecento degli Istoreco della nostra regione, la prima «alle 11,30 di quella mattina (per pochi minuti)» e la seconda «alle 12,15 (per la durata di un quarto d’ora)».
Ai danni, siccome la contraerea non ha fatto un baffo ai bombardieri del raid, si aggiunge un messaggio implicito: sarete sempre in balìa dei nostri attacchi. Anche perché sono stati centrati anche diversi rifugi anti-aerei: soprattutto in quello degli scali D’Azeglio, dove sono morte un centinaio di persone.
Il prefetto, dopo un sopralluogo con il podestà e il comandante locale dei carabinieri, mette nero su bianco una relazione in cui si avverte che «quattro ricoveri pubblici (…) erano stati colpiti in pieno da bombe e che la quasi totalità dei rifugiati erano rimasti o morti o feriti».
Dunque, in precedenza i cittadini finivano per infischiarsene dei rifugi e della sirena dell’allarme aereo: «Il popolo, ormai abituato ai falsi allarmi, ripetutisi da circa tre anni, passeggiava per le strade non curante» quella mattina del 28 maggio ’43, ricorda il farmacista Aleardo Lattes, esponente della borghesia ebraica labronica, nelle memorie affidate agli archivi dell’Istoreco. Alla prova dei fatti, proprio all’interno dei rifugi antiaerei crollati si concentrò la gran parte delle vittime e nei livornesi si rafforzò «il convincimento della loro inutilità», come dicono dal quartier generale dell’istituto storico. Aggiungendo poi: tutto questo instilla nella «maggior parte della popolazione locale» un «profondo senso di precarietà e di smarrimento che solo lentamente, con la ricostruzione della città e del tessuto sociale al suo interno, verrà superato». Ma, in fondo all’ultimo “cassetto”, resta quel “qualcosa” che «emerge con prepotenza anche a decenni di distanza nei racconti di chi ha vissuto quei terribili giorni», ribadisce l’analisi che ha compiuto sul caso Livorno la rete di queste istituzioni culturali toscane.
È l’esatto contrario di quel che annota il cronista del “Telegrafo” di allora: dimentica di indicare dove sono i danni e quanti sono i morti ma non ci risparmia un po’ di dannunzianesimo digerito a metà («pur di sotto le bianche bende, vivi e fermi erano gli occhi e nessuno si tradiva. Era questa la risposta alle illusioni del nemico che nei suoi vani tentativi, può martoriare le carni, ma non scalfisce la fermezza del nostro morale»). In quel pistolottone su «come la nostra città ha affrontato la furia nemica» non ci sono informazioni, solo una mezza ammissione sugli «ingenti danni» e due sottolineature un po’ a caso. L’una: ci si aggrappa a una mamma che invoca il miracolo della Madonna di Montenero perché suo figlio si è salvato, come location viene indicato il rifugio di piazza Carlo Alberto, ora Repubblica (ma abbiamo visto che numerosi rifugi anti-aerei si sono rivelati trappole). L’altra: si segnala che sono crollati gli edifici attorno ad alcune chiese, e benché i luoghi di culto siano rimasti in piedi, ci si inventa una offensiva mirata sulle chiese in nome di una alleanza sacrilega angloamericana. E, per metterci un carico da undici, si ricama sull’episodio (vero) della bomba caduta sull’orfanotrofio delle suore in via Baciocchi (zona via Marradi): siccome non bastano tante piccole vittime, ecco che di una sopravvissuta si racconta che l’ha salvata in extremis l’altare con le ostie consacrate.
È proprio dall’«assenza di ogni protezione» che scaturirà quell’esodo biblico da Livorno sul quale solo ora, grazie all’Istoreco labronico e a studiosi come Enrico Acciari, si comincia a riflettere davvero: dall’ottobre successivo, dopo l’armistizio e il cambio di alleanze, tutto il centro verrà svuotato di abitanti per diktat dei nazisti (immaginatevi che le famiglie ebbero appena più di una settimana di tempo per lasciare l’abitazione e arrangiarsi a trovare qualcos’altro); nel frattempo quasi nove livornesi su dieci sfollarono dalle loro case e di dispersero nelle campagne fino alle Marche. Talvolta “colonizzando” il Famedio di Montenero con le “stanze” ritagliate mediante lenzuola. Da sottolineare (sulla base di ToscanaNovecento): «In città non si poteva più panificare, i negozi erano chiusi, le vettovaglie erano portate in autocarro da Firenze, l’acqua arrivava da Pisa con le motocisterne».
Vale la pena alzare gettare lo sguardo sul “Telegrafo”, in mano in quegli anni alla famiglia Ciano (suocero e genero di Mussolini, entrambi ministri), per capire come la stampa locale sta affrontando la guerra. Balza agli occhi che la prima pagina ha un’ovvia attenzione per decantare le vittorie dell’alleanza Duce-Hitler, ma a ben vedere si tratta sempre di successi dei nazisti: e questo non torna granché con tutta la diffidenza che Galeazzo Ciano sussurrava di avere nei riguardi di Hitler (salvo poi finirgli in braccio dopo la notte del Gran Consiglio). Tradotto: difficile trovare vittorie militari delle truppe italiane. Non è tutto: si tratta di vittorie nelle più remote lande chissà dove, come se la guerra ci fosse sì e ovviamente la vinciamo (anzi, la vincono i nostri amici) ma comunque è lontanissima.
Detto per inciso, è incredibile anche la forza della quotidianità che perfino in un momento come questo salta fuori dalle pieghe della cronaca (in questo caso, del “Telegrafo”, ma probabilmente vale per ogni giornale locale). Ad esempio, sugli scali Rosciano c’è un parapiglia per impedire di acchiappare «un giovane squilibrato» con un tipo che gli dà man forte facendo lo sgambetto all’inseguitore. Ad esempio, in tribunale vengono condannati tre tali di Castelnuovo Misericordia per aver venduto «latte annacquato al 13 per cento»: praticamente acqua “bianca”. Ad esempio, una signora un po’ ingenua si lamenta in questura perché uno sconosciuto si è fatto dare cento lire (55 euro di oggi) con la promessa di portarle del cibo, poi è sparito.
Cosa succede nell’edizione del 29 maggio ’43? Difficile crederlo ma non c’è nemmeno una riga sul fatto che il giorno prima la città è stata devastata. Però la stampa locale non poteva proprio chiudere gli occhi sull’ecatombe di distruzione: i suoi lettori avevano avuto distrutta la casa, ferito un figlio o colpito il posto di lavoro. Tutti avevano sentito e visto quei bombardieri in cielo, gli scoppi delle bombe, le sirene di allarme. L’indomani si registra un altrettanto curioso ribaltamento di rotta: il re – anzi, «la Maestà del Re Imperatore», come lo chiama l’agenzia Stefani inzuppandolo nel ridicolo – viene a Livorno per portare conforto alla città ferita, dunque è impossibile nascondere il bombardamento. A maggior ragione se l’indomani arriva nei reparti ospedalieri l’Augusta Altezza Reale Principessa di Piemonte. Ecco che non si può far altro che far esplodere a scoppio ritardato gli effetti del bombardamento ovunque. È la tripla riprova: 1) dell’indomita resistenza dei livornesi; 2) della bontà del sovrano; 3) della feroce barbarie del nemico. Soprattutto su quest’ultimo aspetto, si ritorna qualche giorno più tardi per rimarcare una cosa: il pezzo firmato dall’agenzia del regime fascista ipotizza che il primo raid delle 11,30 sia stato un diversivo per richiamare l’attenzione sulla difesa del porto e lasciar campo libero a quello successivo che ha preso di mira la città, oltretutto volando molto alto per evitare la contraerea. È in realtà questa l’arma di distrazione di massa: bisognava trovare un escamotage per giustificare come mai gli apparati del regime avessero lasciato senza difesa la città, in balìa completa dell’aviazione americana.
Sta di fatto che, però, sembra di leggere in filigrana un cambio di atteggiamento nelle cronache. Nella città che si risveglia sotto la minaccia di morte dal cielo emerge una nuova normalità, e la stampa locale cerca di organizzarla. Lo fa a nome dell’Unione Fascista dei Commercianti: domenica 30 maggio tutta una serie di alimentari, fornai e ortofrutta dovranno restare aperti «fino alle ore 14» mentre ristoranti, bar, trattorie dal lunedì seguente dovranno «assolutamente ripristinare la normale vendita al pubblico». Di più: bisogna ridurre l’uso del telefono, le linee sono poche e sovraffollate dai troppi che chiamano per sapere come stai mentre bisogna lasciar spazio ai militari.
Il bombardamento del 28 maggio non è un “unicum”: basta attendere un mese e il 28 giugno ne arriva un altro. Talmente massiccio e devastante da vedere «in appena nove minuti» ben 97 “fortezze volanti” sganciare su Livorno «237 tonnellate di bombe da 500, mille e 2mila libbre». Bilancio: 209 morti, non più del 15% dei quali militari (compresi tre tedeschi). Abbattuti 180 palazzi, danneggiati o distrutti fabbriche come Moto Fides e Vetreria Italiana, ma anche il mercato centrale e la stazione ferroviaria. E soprattutto «i rifugi di recente costruzione nelle vie Galilei, Mastacchi e Garibaldi». Di più: un terzo bombardamento di portata simile, anche se ormai c’era poco da distruggere, si avrà la notte del 25 luglio poco dopo la mezzanotte, praticamente in concomitanza con la caduta del regime, anzi con il tentativo di casa Savoia di smarcarsi da Mussolini e inventarsi un “fascismo senza Mussolini”.
Eravamo in guerra e non a un pranzo di gala: il nazifascismo non l’avresti sconfitto con le belle parole, e basterebbe rileggersi le cronache del processo a Eichmann per mano di Hannah Arendt (“La banalità del male”) per farsi un’idea dell’inferno nero in cui saremmo precipitati se non ci avessero salvato – insieme ai combattenti partigiani di casa nostra, la rete di solidarietà antifascista allargata addirittura alle suore di clausura e a Gino Bartali – i sergenti e i caporali che arrivavano dall’Arkansas e dal Kentucky. Al tempo stesso, non sfugga che oggi ci mettiamo a parlare di genocidio appena le atrocità si alzano al di sopra dell’asticella, ma a quel tempo era la dottrina militare ufficiale della nuova guerra aerea che teorizzava i danni ai civili come effetto deliberato, voluto, ricercato.
Quei tre grandi bombardamenti fanno parte di una striscia di 56 attacchi di bombardieri che gli storici hanno ricostruito: all’inizio per opera dell’aviazione francese (il primo dei quali il 16 giugno ’40, meno di una settimana dopo l’entrata in guerra del Duce al fianco di Hitler), poi per iniziativa degli angloamericani proprio dal 28 maggio di tre anni dopo. Se poi mettiamo nel conto l’uso delle mine da parte dei nazisti per coprirsi la ritirata, si capisce bene come possa essere accaduto – lo riporta lo storico Stefano Gallo in una ricerca sulla Cassa Edile – che bombardieri e guastatori abbiano ridotto in macerie 40mila dei 130mila vani presenti a Livorno prima della guerra, e quasi tutti (più dell’85%) erano case popolari, senza contare che altri 30mila vani risultavano comunque danneggiati. Un dossier degli ingegneri del Comune di Livorno a fine guerra avverte che in tutto il territorio comunale, periferie incluse, più di metà dei fabbricati (56,9%) è stato danneggiato o distrutto, in centro non raggiunge il 9% la percentuale degli edifici indenni. Se poi sommiamo una ricostruzione che talvolta ha completato le distruzioni per rendersi più facile il lavoro…
Il bombardamento del 28 maggio ’43 apre la porta a 14 mesi terribilissimi per qualunque livornese: abbiamo visto che c’era la “morte dal cielo”, ma dall’armistizio dell’8 settembre ’43 che muta le nostre alleanze si aggiunge l’occupazione nazifascista. Il rischio di essere ammazzati per un nulla: a Livorno non ci sono eccidi come a Sant’Anna di Stazzema, a Vinca, nel padule di Fucecchio e in cento altri paesi toscani, ma nel giugno ’44, con l’avanzata Usa ormai a un passo, si moltiplicheranno rastrellamenti e fucilazioni sul posto. Nel giro di quattro giorni a Nugola, poco a est della città, vengono fucilati otto poliziotti che avevano scelto di entrare fra i partigiani e, subito dopo, un ragazzo neanche trentenne in fuga dalla caccia dei nazisti. A Ardenza in una settimana accade che: 1) lo stradino Pietro Volpi viene mitragliato e ucciso perché è sulla porta di casa mentre c’è il coprifuoco; 2) il mercoledì successivo, a 300 metri da lì, Orlando Marini viene ammazzato a 55 anni perché scappa da una pattuglia di Waffen-Ss. In quegli stessi giorni è solo l’intervento disperato di don Vellutini che a Vada evita una strage, dopo che i tedeschi concentrano in piazza tutti gli abitanti del paese: ne ammazzeranno “solo” quattro.
Anche la liberazione di Livorno (19 luglio ’44) sarà assai meno una passeggiata di quel che si crede: sì, la troupe del servizio cinematografico al seguito della Quinta Armata chiederà di ripetere l’ingresso in città perché le immagini del primo non erano venute bene, ma le memorie di Mario Lenzi ricordano anche il blindato tedesco che compare all’improvviso in viale Carducci o i cecchini nazisti. Il libro della storica Tiziana Noce invece (“Nella città degli uomini”) ripesca cos’erano le trappole della ritirata nazista: potevano essere minati i cadaveri ed esplodere appena li spostavi, minate le porte o le finestre, minato qualsiasi oggetto, anche giocattolo…
La devastazione di Livorno è finita nel dimenticatoio nella narrazione di quel che è stata la guerra: per reagire l’ho talvolta paragonata ai bombardamenti di Coventry (da parte dei nazisti) o di Dresda (per mano degli alleati). Diventati entrambi paradigma di “morte dal cielo”: l’uno con la nascita della parola “coventrizzazione”, l’altro con il capolavoro di Kurt Vonnegut “Mattatoio n. 5”. Mi sbagliavo: non nell’identikit ma nella scala.
La “programmazione della devastazione” ha messo in campo un multiplo di forze rispetto alle conseguenze già tremende patite da Livorno. Nel caso di Coventry: un raid durato quasi undici ore dalla sera all’alba successiva con 449 aerei che sganciano mezzo migliaio di tonnellate di bombe e 30mila spezzoni incendiari, totale quasi 1.300 morti e migliaia di feriti. Nel caso di Dresda: un doppio raid, prima britannico (oltre 2.600 tonnellate di bombe) e poi americano (con altre 1.200 tonnellate), crea un incendio grande quanto la città che si alimenta con un ciclone di “aria di fuoco” (peggio che in un altoforno) capace di radere al suolo 15 chilometri quadri e danneggiare un terzo delle case. Bilancio: impossibile ma si pensa fra 25mila e 35mila morti. Questo non sminuisce cosa è accaduto fra la Venezia e Ardenza, semmai ne dà il contesto.
«Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / Stando in casa andando per via, / Coricandovi alzandovi; / Ripetetele ai vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / La malattia vi impedisca, / I vostri nati torcano il viso da voi». Lo diceva Primo Levi, e non l’aveva postato su Instagram.
Ricostruzione completa e dettagliata.Nei regimi la stampa era così e anche oggi nel mondo non libero funziona così.Grazie,stai facendo un lavoro prezioso.Saluti
Grazie Mauro… c’è bisogno di memoria… “Il Telegrafo” che non pubblica la notizia del bombardamento dovrebbe insegnare qualcosa a chi oggi si fida delle notizie “fornite” sulla guerra in Ucraina… e non solo!
Caro Mauro, ci chiedi scusa se ci rompi di Sabato? A me fa solo piacere leggerti. Abbiamo passato decenni a parlare ….. di Porto ed evidentemente non conoscevo questa tua anima “storica”
Grazie, ə un piacere leggerti, io nato nel 1950 in Piazza Cavallotti ho memoria delle macerie e distruzione e della miseria che attanagliava quel contesto
Grazie Mauro.
Sono io che non posso far altro che ringraziare chi dedica tempo e attenzione alle cose che scrivo