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Il monsignore che era solo “Vincenzo”: Savio, il prete del sorriso con le radici fra i baraccati

Vincenzo Savio a trent’anni dal ritorno a Livorno come vescovo ausiliare al fianco di Ablondi e a quasi venti dalla morte stroncato da un tumore. Gli ultimi giorni con il “Cristo coronato di spine” del Beato Angelico: due volti sofferenti a tu per tu. L’eredità di don Tonino Bello e la strenua battaglia pacifista contro la guerra nel Golfo

di Mauro Zucchelli

«“Per me Livorno è la casa”. Strano che lo dica uno che la nostra città l’ha conosciuta dalla parte dei baraccati». Quel 30 maggio di trent’anni fa cominciavo così il pezzo che sul Tirreno annunciava il ritorno a Livorno di “don” Vincenzo come vescovo ausiliare accanto a Ablondi. Era il terzo ritorno, alla fine saranno 17 anni e Luigi Accattoli, vaticanista del Corriere della Sera, segnalerà che è stato quel che gli ha segnato la vita.

Non a caso, anche quando andrà in giro per l’Italia l’ultimo legame non lo taglierà: sulla carta d’identità era rimasto il vecchio indirizzo livornese di viale Risorgimento 77. Non a caso, al cronista confidava che “siete stati voi livornesi a farmi prete: a costruire quel che sono adesso”. Aggiungendo poi: “Mi ha sempre meravigliato la vostra capacità di voler bene. Grande dono ma anche grande rischio: c’è il pericolo di restare appagati lì. E invece forse basta aprire una porta…”.

Durante la consacrazione come vescovo avevano provato a rinchiudere tutto nelle movenze legnose della liturgia ufficiale: non ce l’avevano fatta così come non era bastata l’enorme chiesa del Soccorso a contenere i tremila fedeli presenti, uno sproposito per una città con la pratica religiosa ai minimi in Italia com’è Livorno.

Ma non saranno tutte rose e fiori: non era ausiliare con diritto di successione e, benché Ablondi abbia fatto di tutto per farne il proprio successore, trova in Vaticano la strada sbarrata da una lettera di un gruppo di preti che lo impallina: figuriamoci se alla curia dispiace avere il pretesto buono.

A distanza di trent’anni esatti dal giorno in cui monsignor Savio – anzi, Vincenzo come lo chiamava chiunque – è tornato a Livorno con i galloni da ausiliare, ecco un po’ di memoria ripescata da quel che scrivevamo sul Tirreno. Giusto per tener acceso il lumino: il prossimo anno è il ventennale della sua scomparsa: noi livornesi abbiamo la memoria di un criceto, vediamo di nion dimenticarci di chi da Osio Sotto s’era fatto impregnare dal salmastro. Sarà contagiosa, questa carica: “Ah, questi bellunesi che si trasformano in napoletani…”, scriverà Umberto Folena nel libro “Il vescovo e Margherita”. Vincenzo gliel’avrebbe corretto: più che napoletani, avrebbe detto livornesi.

IL SORRISO E LA TENDA. Lo chiamavano il “prete del sorriso”: “colpa” di Margherita, otto anni, che gli aveva chiesto di «non perdere il tuo sorriso» quando si era ritrovato alle prese con un tumore che lo sfiniva. Ma adesso che, nel decimo anniversario della morte, l’Osservatore Romano gli ha dedicato quasi mezza pagina, monsignor Vincenzo Savio – anzi, “don Vincenzo” come preferiva lui («perché di fronte al Signore noi preti siamo tutti “don”, vescovi compresi») – forse potremmo cominciare a chiamarlo il “vescovo in tenda”, come lo ribattezza Carlo Di Cicco, vicedirettore del quotidiano del Papa. agli amici aveva confidato che «d’estate teneva sempre una tenda nel baule dell’auto e appena gli era possibile passava una notte sotto le stelle, quando doveva viaggiare». Una tenda che vale anche come identikit antropologico e pastorale: la tenda «si sposta e si adatta in ogni luogo, non è carica di cose, è aperta e chi sta dentro sente le voci di chi sta fuori e viceversa». Sembra di ascoltare la capacità di condensare in una immagine così semplice e così poco clericale quelle suggestioni profetico-visionarie che ora troviamo in papa Bergoglio. Ma 10-15 anni prima che il mondo (e la Chiesa stessa) scoprisse Bergoglio… (31 marzo 2014)

L’ULTIMO ABBRACCIO. La benedizione che conta, “don Vincenzo” l’ha avuto qui a Belluno dalla gente comune prima che dal cardinale: Ernestina Dal Piaz, 84 anni, venuta giù dalla montagna così come dal salmastro di Antignano è arrivato Luigi Banti, che di anni ne ha 32. Tutti e due per tuffare l’aspersorio nell’acqua benedetta e schizzare la bara di legno chiaro in cui è il corpo dell’ex vescovo ausiliare di Livorno, poi vescovo a Belluno. Si rovesciano i ruoli consolidati: non è il capo della Chiesa che benedice, ma il contrario. Gli under 12 e le vecchiette incartapecorite, i piccoli imprenditori che si spolmonano a produrre Pil e lavoro nella vallata e i ragazzotti da bar che gli salta la mosca al naso a sentir puzzo di sacrestia. Chissà come se la ride questo prete-coraggio che chissà quante volte ha spiazzato il tradizionalismo ecclesiastico abitudinario, e ora fa il bis pure da morto. Il duomo non ce la fa ad accoglierli tutti: e allora i preti escono dalla chiesa per dare la comunione e si sparpagliano in mezzo alla piazza. A toccare la bara si accalcano la ragazzina scout con la bandana arcobaleno più zainetto Invicta e l’ufficiale della Finanza che fa il saluto militare, il vecchio sergente degli alpini che consegnò il suo cappello al nuovo vescovo appena si affacciò qui il primo giorno. Ma anche il giovanottone nero che ha gli scarponi sporchi di calcina e fra poco dirà la sua preghiera con i versetti del Corano, anche due badanti ucraine che si sono inventate due ore di libertà perché non sapranno granché l’italiano ma «questo vescovo amico di tutti lo vogliamo salutare». (3 aprile 2004)

SENZA TORNACONTO. Per il prof. Emanuele Rossi, costituzionalista e esponente di punta del laicato cattolico livornese, don Vincenzo è stato «un educatore dei giovani: ed in tale azione un ruolo di primaria importanza ha ricoperto l’educazione alla dimensione sociale e politica». Non ha svolto “corsi” o “lezioni”, ma – aggiunge – ha trasmesso «innanzitutto una grande passione per la cosa pubblica, vivendo in prima persona e con convinzione la dimensione dei cristiani di essere “sale della terra” e “luce del mondo”. Il contributo da egli offerto al capitolo del Sinodo diocesano livornese del 1984 su “Chiesa-mondo” è illuminante di come egli ritenesse fondamentale l’impegno sociale e politico dei cristiani e della Chiesa nella costruzione della società». Lo studioso ne indica le caratteristiche in «una politica capace di coniugare il valore del riconoscimento dei diritti con quello dell’assunzione di responsabilità per la realizzazione del bene comune; una politica quindi che concepisca il valore della libertà individuale non come tornaconto personale o possibilità di realizzare ciò che uno vuole, quanto invece possibilità di realizzare ciò che si è progettato sulla base di una scala di valori e seguendo delle regole». (2 aprile 2004)

LE LACRIME DI ABLONDI. «Come diciamo noi livornesi, Vincenzo si è “avviato” perché così possiamo seguirlo». Monsignor Alberto Ablondi, il vescovo che ha retto il timone della diocesi per 30 anni (negli ultimi otto in tandem con Vincenzo Savio come ausiliare), strappa il nodo della commozione che fino a un istante prima gli stringeva la gola e gli velava di lacrime lo sguardo: racconta del suo «carissimo fratello» di fronte a un duomo mai così pieno in un pomeriggio feriale. E’ l’attuale vescovo titolare Diego Coletti a farsi in disparte e cedergli la parola con un gesto di grande disponibilità. Proprio Coletti aveva aperto la messa dicendo che «Vincenzo non è sparito, è solo lontano da qui, da questo popolo che «ha servito e che, sono convinto, continua a servire anche adesso». La speranza oltre i recinti dello sperabile: la speranza che lascia i territori dell’umano (la guarigione dalla malattia) e si avventura sui sentieri della fede (la resurrezione dopo la morte). Proprio adesso che è più difficile attraversare il dolore del distacco umano che schianta gli affetti.  Ablondi una delle ultime pagine del documento finale del sinodo, l’aveva scritta Savio: è la spinta alla Chiesa per trasformarsi da “casa” a “tenda”. Ma «la tenda ha bisogno di una terra che l’accolga», aggiunge: Ablondi ne ricorda il forte legame con il territorio in «nome della difesa dei diritti degli indifesi» (e qui fa riferimento alla lotta senza quartiere ingaggaiata da questo prete per impedire ai “ragazzi di strada” di finire nei gironi della prostituzione minorile). E poi la “tenda” non impedisce di «il passo dei viandanti o la voce dei vicini»: è, per Ablondi, l’invito a essere in ascolto dell’altro che passa. Oltretutto la tenda «non è accogliente per la roba che c’è dentro» ma per il «calore umano di chi la frequenta». (2 aprile 2004)

LA PARABOLA DI UNA VITA. L’ultima volta che ce l’ha fatta ad alzarli, gli occhi li ha indirizzati sul “Cristo sofferente”: il capolavoro del Beato Angelico l’aveva stanato lui “nascosto” nei magazzini polverosi del museo Fattori, adesso è un pezzo della “sua” Livorno che lo accompagna negli ultimi respiri. Vincenzo Savio, ex vescovo ausiliare a Livorno e dal 2001 al timone della diocesi di Belluno, 60 anni, se n’è andato così: alle 8,30 di un mercoledì con il sole di primavera, in un letto della sua stanza ai piedi delle Dolomiti. Lui e quel Cristo, quasi si specchiano: due corpi sconquassati dal dolore. Al suo nuovo popolo delle Dolomiti si era presentato così: «Non sarò il padrone della vostra fede ma il servitore della vostra gioia». (…) A Livorno nel ‘77 diventa parroco di un immenso spicchio di periferia e fa i conti con una polveriera sociale nascosta: dentro interi isolati di povericristi che fanno fatica a sbarcare il lunario, il battaglione di ragazzini di “strada” che s’ingrossa ogni giorno. E’ la tragica fine di uno di loro la sconfitta umana che l’ha segnato: si impicca un ragazzo che, segnato da una infanzia d’inferno, gli era stato affidato dall’età di 12 anni dal tribunale dei minori. La parrocchia di viale Risorgimento si trasforma nel parlamentino degli “stati generali” della diocesi: sotto un enorme paracadute la Chiesa s’interroga sul futuro in un sinodo che, sotto la guida di Ablondi, inventa un modo meno gerarchico-ecclesiastico e più partecipato. E fa da apripista in Italia come esperienza-pilota. Lo rifarà a Firenze, in tandem con un altro prelato dell’ala più aperturista dell’episcopato, il cardinal Piovanelli. Nella primavera del ’93 riprende la valigia e torna — è la terza volta — a Livorno. Con i “galloni” di vescovo ausiliare: Ablondi ha inventato tutto l’inventabile per averlo con sé. Aveva preso come esempio don Tonino Bello, profeta dell’arcipelago pacifista ecclesiale: pure Savio era finito nel mirino dei tradizionalisti cattolici per aver detto messa con la bandiera arcobaleno. Ma l’ultima fase della vita è contraddistinta soprattutto dal rapporto con la sofferenza: «Capire l’alfabeto della malattia e mettersi alla scuola del dolore», così l’aveva definito Savio: una nuova frontiera della condivisione con gli afflitti, fin nella propria carne. La sua diocesi è in un sinodo dedicato al «parlarsi come riconoscimento di un appartenersi l’un l’altro» e Savio decide di rompere il silenzio e mettere a nudo la sua condizione di malato. Ma senza guardarsi l’ombelico come fosse il centro del mondo: continua il sinodo, continua gli incontri, fa la chemio all’ospedale insieme agli altri malati. (1 aprile 2004)

FRA I BARACCATI. Né “mons.” né “don”: è per tutti soltanto “Vincenzo” quel tipo bergamasco, Savio di cognome, che da giovane seminarista negli anni settanta arriva a Colline in mezzo alla “favela” di casa nostra che sono le baracche alle spalle dell’ex Fiat, in via Torino. Sono gli anni delle lotte nel nome dei diritti delle famiglie con lo sfratto e la scelta di stare dalla parte dei “ragazzi di strada”. (10 luglio 2010)

DALLA PARTE DELLA PACE. Non aveva avuto paura di restare da solo, se c’era da difendere un principio. Il blog di Accattoli ricorda la sua «libertà di parola» quando era rimasto l’unico vescovo italiano, con l’Italia impegnata nella guerra in Iraq, a dire che non accettava l’ideologia della “guerra preventiva” e continuava a sognare che fosse possibile che «ogni uomo si senta fratello di ogni altro uomo». (31 marzo 2014)

A SPASSO CON RATZINGER. A Livorno Joseph Ratzinger era arrivato da cardinale, il custode dell’ortodossia della fede, e quel giorno del ’96 gli fece chiedere di primo mattino agli organizzatori di essere accompagnato a fare una passeggiata su quel viale Italia, in fronte a quel mare che lo aveva stregato. Poche ore prima, fino all’una di notte – ricorda chi era nello staff che preparò quella visita – era andata avanti era andata avanti la conversazione a tu per tu fra lui, futuro Papa, il cardinale-prefetto, e l’allora vescovo ausiliare Vincenzo Savio, che in tandem con Ablondi rappresentava l’ala rinnovatrice della Chiesa. (12 febbraio 2013)

IL SOGNO DI MARADIAGA. «Io sogno e questo è uno dei miei sogni». Oscar Andrés Rodriguez Maradiaga risponde a chi gli chiede se sarà possibile veder salire sugli altari dei santi e dei beati il vescovo Vincenzo Savio, che a Livorno è stato prima seminarista, poi parroco ai Salesiani e quindi vescovo ausiliare al fianco di Ablondi prima di esser nominato alla guida della diocesi di Belluno. E Maradiaga non è uno qualsiasi: arcivescovo salesiano in Honduras, è stato fra i cardinali che in conclave hanno eletto Ratzinger come pontefice. Non solo: è stato lui stesso nel lotto dei tre-quattro papabili per la successione a papa Wojtyla. Per la stampa inglese (in testa Times, Financial Times e Guardian) era il numero uno fra i favoriti. «Savio fra i santi? Io sono convinto di sì», ha detto il cardinale in una intervista al “Corriere delle Alpi”, a margine di un incontro a Belluno. Che cosa l’alto prelato latinoamericano apprezzava di più del suo amico Savio? «Soprattutto la sua gioia, l’entusiasmo di cui era capace. Vincenzo era veramente un animatore: delle comunità, delle parrocchie, delle diocesi in cui ha operato. Soprattutto sul piano spirituale e poi su quello culturale. E anche un grande lavoratore: lavorava lui e faceva lavorare anche gli altri. (4 novembre 2006)

VERSO GLI ALTARI. Monsignor Enrico Dal Covolo lo indica esplicitamente come «santo nei nostri pensieri» quasi facendo immaginare un percorso verso la beatificazione. È vero che il segretario di Stato non è più il cardinal Bertone che era amico personale di Savio, salesiano come lui, ma monsignor Dal Covolo è pur sempre il rettore della Pontificia università lateranense e ha predicato gli esercizi spirituali di Quaresima al papa nel 2010. Senza contare che stiamo parlando del religioso che si occupa come postulatore delle cause di beatificazione della congregazione salesiana (e soprattutto di quella di papa Luciani, che era stata sollecitata proprio da Savio). (31 marzo 2014)

IO COMUNISTA TI DICO ADDIO. Un dirigente di Rifondazione comunista tributa un commosso omaggio pubblico, molto affettuoso e sincero, all’amico vescovo che non c’è più: protagonista Sergio Barsotti, ex presidente alla circoscrizione 4, quella dove prestava la sua opera don Vincenzo Savio allora parroco dei Salesiani, ora morto da vescovo a Belluno. Ricorda la «mia gioia di riaverti nella nostra città, nel nostro quartiere» quando Savio tornò a Livorno come ausiliare. Con affetto sottolinea che la scomparsa «lascia nei cuori e nella mente i ricordi incancellabili e i sentimenti più sinceri, nei quali certamente ti terrò».  (26 aprile 2004)

LA MALATTIA CON LA GENTE. Ancora una volta monsignor Vincenzo Savio spiazza tutti: è stato lui stesso a voler mettere a conoscenza del fatto che ha un tumore — più precisamente: una neoplasia addominale — la sua comunità ecclesiale di Belluno e Feltre. Segnalando che in tutte le chiese bellunesi si pregherà per la salute del vescovo, il vicario episcopale monsignor Andrich ha però sottolineato una richiesta che Savio ha rivolto ai fedeli e agli amici: «Egli desidera che nel pregare per lui vengano ricordati tutti gli ammalati: si sente infatti solidale e partecipe di un’esperienza difficile che lo unisce a tante persone della sua comunità diocesana». Non è un mistero che anche i bellunesi hanno imparato ad apprezzare la carica innovativa che Savio ha portato all’interno di quella Chiesa veneta: al posto del solito “Eccellenza reverendissima”, dice subito che «preferisco che mi chiamiate semplicemente Vincenzo».

CAMBIA L’ORATORIO. Nel 1976, nel pieno degli anni della contestazione, dopo una intensa esperienza nel sud Italia lavorando in incognito come contadino e poi tra i rom, un giovane parroco venne assegnato alla chiesa dei Salesiani di Livorno: don Vincenzo Savio, bergamasco, oggi vescovo ausiliario della nostra città. «Non c’erano più le baracche, ma c’erano i grandi casermoni: nei rioni popolari l’abbandono scolastico era altissimo e vedevo nella solitudine una nuova forma di “povertà”». L’oratorio salesiano non bastava più: provarono a ridisegnarne l’identikit perché «a noi interessava lo sport come aggregazione, non come una struttura commerciale in competizione con Picchi Calcio o Libertas». (Ursula Galli, 24 maggio 1998)

LA CASA È UN DIRITTO. «La casa non è un tetto per ripararsi dalla pioggia e dal freddo, è molto di più: è la possibilità di avere uno spazio proprio. E una compagnia per chi è solo, per chi è anziano: e a maggior ragione per chi è anziano e solo». Il vescovo ausiliare Vincenzo Savio, braccio destro di mons. Ablondi, il dramma dei senza casa li ha nel proprio dna di prete: da seminarista fra i baraccati di Colline-Coteto, come parroco ai Salesiani parlando di «peccato sociale degli alloggi sfitti» e seguendo di persona con la comunità parrocchiale tante famiglie di povericristi nel momento shock dello sfratto esecutivo. «Lo paragono a una violenza carnale: senza casa – una persona è alla mercè di tutti, è oggetto di usurpazione». Lo ripete dopo che un uomo si è tolto la vita per questa condizione sociale insostenibile: «Spesso l’aver casa è il requisito numero uno per poter avere anche altri elementi di identificazione: affetti, lavoro, relazioni umane» (14 ottobre 1998)

L’ultima immagine è tratta dal profilo twitter di Nicola Sangiacomo

9 Comments

  1. Giovanni Laterra ha detto:

    Bellissimo ricordo di una bellissima persona.

    1. Marco ha detto:

      Grazie per un ricordo che raccoglie tutti gli elementi che tracciano il profilo di un uomo che ha scelto il servizio per gli ultimi e che ti faceva sentire importante e ottimista a prescindere da quello che eri. Un dono insieme ad Alberto, di cognome Ablondi, che lo volle fortemente a Livorno.

      1. Mauro Zucchelli ha detto:

        Non avrei potuto dirlo meglio. Ciao, marco

  2. Massimo Bianchi ha detto:

    Un ricordo affettuoso.Ebbe anche un interesse per la politica,animando una”scuola” di formazione,che ha dato alcuni protagonisti alla vita cittadina.Una scuola che anticipò l’alleanza tra PCI e parte della DC.La Circoscrizione 4 fu il luogo di incontro ,in antitesi con l’alleanza PCI e PSI che reggeva il Municipio.Mannelli e Cecio sono stati tra i protagonisti di quella stagione,che negli sviluppi successivi avrebbe potuto portare il primo ad essere Sindaco. Non andò così.Una pagina che dovrà essere ricostruita.Saluti

  3. Massimo Bianchi ha detto:

    Hai ricordato Mons.Savio sacerdote e Vescovo.Ebbe anche un interesse per la politica,animando una “scuola”da cui uscirono “allievi”destinati ad avere un ruolo importante nella vita cittadina,con scelte politiche anticipatrici del dialogo tra PCI e parte della DC.La circoscrizione

  4. lucyluxλουτσια ha detto:

    Ho conosciuto personalmente don Vincenzo: ho fatto parte del Consiglio parrocchiale dei Salesiani e insieme abbiamo organizzato aiuti ai terremotati, interventi a favore di chi era meno fortunato di noi…grazie Mauro per aver ravvivato il ricordo di una persona unica e speciale!

  5. Paolo Fenzi ha detto:

    Ho conosciuto Vincenzo durante gli anni universitari. È stato importante in diverse scelte che io, ma tanti altri, abbiamo fatto in quegli anni. Sono “tornato indietro” di più di 30 anni con sentimenti di gratitudine profonda, ma anche di sofferenza. Comunque grazie Mauro, grazie davvero

  6. Roberta ha detto:

    Sono Roberta Medolago la nipote di Vincenzo Vescovo (figlia di sua sorella Rosaria),l’articolo è arrivato come un colpo al cuore. Vi sono dettagli che i piu’ non conoscevano, ma alla vigilia dei 20 anni di nascita in Cristo (2024) di Vincenzo Savio è giusto che siano condivisi. Onestamente non so cosa ne penserebbe lui, ma lo vedo con la sua biro Bic nera, pronto a scrivere la sua risposta. Intanto ringrazio Mauro (che non conosco personalmente)per le emozioni rivissute ,ora mi prendo il tempo di rileggere e rileggere…

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