Un mercoledì di giugno di 60 anni fa l’assassinio di Medgar Evers: come Martin Luther King prima di Martin Luther King nell’America cuore d’Occidente ma in dolce stil apartheid. Il passato che non passa
di Mauro Zucchelli
Il 12 giugno è una data da ricordare perché è morto qualcuno che ha lasciato una impronta forte nella nostra storia di uomini e di donne: si chiamava Medgar Wiley Evers, e oggi, per quanto a distanza di 60 anni esatti, siamo in lutto con la speranza di aiutare a riscoprire un eroe del tutto dimenticato. Sparito del tutto dall’immaginario made in Italy: in mezzo a quell’oceano di tutto che c’è ovunque in rete, il suo nome è ricordato assai meno che quello del gatto d’una star del pallone.
È il sessantesimo anniversario di quel mercoledì da canaglie in cui l’hanno ammazzato: sull’uscio di casa, poche ore dopo uno storico discorso in cui l’uomo della Casa Bianca – quel John Fitzgerald Kennedy che ne ha combinate parecchie ma non ha né fatto assaltare il Campidoglio né nascosto nell’antebagno di Mar-a-Lago le carte top secret – ha annunciato di aver spedito nel quartier generale dell’Università dell’Alabama un battaglione della Guardia Nazionale per esigere che venisse applicata l’ordinanza con cui la Corte Distrettuale aveva deciso che due giovani neri dovevano essere accettati dall’ateneo.
Era il ’63 e, seppur in funzione principalmente anticomunista, l’Italietta traballante si apriva al centrosinistra e dava gambe sia alla riforma della scuola media sia alla nazionalizzazione dell’energia elettrica (prima che i golpisti facessero sentire il “tintinnar di sciabole”). Al tempo stesso nelle istituzioni non c’era stato un gran taglio netto con il passato: però anche grazie a papa Giovanni XXIII e al Concilio, da un lato, e agli effetti degli anni di boom economico, dall’altro, era un Paese meno plumbeo dopo che erano state sconfitte le tentazioni di svolta autoritaria con Segni e Tambroni.
Altrove no. Si decanta il rigore tedesco di regolare i conti con il proprio passato nazista, eppure l’attività anti-hitleriana coinvolse una esigua minoranza e fino al processo di Francoforte negli anni ’60 c’è stata una gram voglia di metterci una bella pietra sopra e vai. E negli Stati Uniti? Se Kennedy si schierava dalla parte delle lotte contro il razzismo e le istituzioni giudiziarie statunitensi idem (abbastanza), la “pancia” dell’ “America profonda” aveva sussulti sconvolgenti. Si potrebbero riempire centinaia e centinaia di righe per mettere in fila gli episodi di razzismo che soprattutto nel Sud degli Usa si moltiplicarono. E non stiamo parlando di due insulti al bar o qualche scherzo pesante: c’era il rifiuto di stati come il Mississippi di far votare i neri nonostante fosse garantito dalla Costituzione, per gli afroamericani c’era la quasi impossibilità di potersi iscrivere all’università o di ottenere una casa in affitto, c’erano discriminazioni sul lavoro e un certo qual apartheid in numerosi aspetti della vita quotidiana, compreso il rifiuto di tanti negozianti di avere neri come clienti della bottega. Teniamocelo bene in mente: non nel medioevo bensì negli anni ’60, quando molti di noi o dei nostri genitori c’erano già.
Nella foto: la moglie di Evers, Myrlie, raccoglierà il testimone del marito e diventerà una leader nera, eccola nel 2013 con il presidente Usa Barack Obama
Al pari di tanti ex ragazzi neri, non sapeva darsi pace di una cosa: non aveva neanche diciott’anni quando, volontario, era stato spedito a combattere i nazisti in Europa e lì sul campo di battaglia il colore della sua pelle non era stato un problema, anzi lo avevano congedato con titoli di merito e una promozione a sottufficiale. Il guaio non era stata la guerra ma, al contrario, la pace: era diventato attivista e leader delle battaglie dei neri.
Non gli ha fatto spavento nemmeno doversi fare ogni santo giorno 15 miglia per andare a lezione: quel diploma lui lo voleva. E la scuola non sarebbe stata lontana, ma era solo per bianchi: quella riservata ai ragazzi neri era lontano. Ripeto: non siamo nel medioevo e stiamo parlando del più ricco Paese del mondo, il faro dell’Occidente democratico.
Ve lo ricordate “Mississippi Burning”, l’ultrapremiato film del 1988 con Gene Hackman e Willem Dafoe agenti Fbi? Devono spaccare l’omertà del paesino che ha fatto sparire peggio della “lupara bianca” tre attivisti afroamericani, e i capibanda sono lo sceriffo col suo vice. È una storia vera e la “Corleone” segregazionista americana sta a mezz’ora d’auto dal posto in cui Evers era nato, cioè quel buco di strapaese che è Decatur, un grappolo di case in un fazzoletto di quattrocento metri per 400, nemmeno duemila anime in tutto. Lo ammazzeranno invece a Jackson, sempre nello stato del Mississippi (e non a Decatur come scrive “Life”), sotto gli occhi di moglie e figli il 12 giugno del ’63. Una fucilata alla schiena sparata da un cecchino nascosto a 50 metri di distanza dentro un boschetto di caprifoglio.
La fine di Medgar – esponente anche della Gran Loggia Prince Hall, ramo della massoneria più aperta agli afroamericani – è arrivata al culmine di una sfilza di tentativi di assassinarlo. Erano anni che lo ripeteva ai cronisti: «Puoi vederlo tu stesso, sono qui e non ho intenzione di andarmene». Senza farsi troppe illusioni sui rischi per la propria vita: «Ho messo le radici qui nel bene e nel male: spero per il meglio, però se il peggio arriva, io ci sarò».
I killer ce la fanno dopo averci provato con il fuoco (attaccando con le molotov la sua abitazione) e poi puntando a travolgerlo con un’auto. Pochi mesi prima, sempre nel Mississippi, si era “infiltrato” fra i raccoglitori di cotone per compiere indagini di controinformazione sulla morte di Emmett Till, trucidato dai suprematisti a 14 anni (la madre farà una “guerra” legale per far celebrare i funerali con la bara scoperchiata così che tutti potessero vedere il cadavere martoriato del figlio). Anche la storia di Evers finirà in un film del ’96 (“L’agguato – Ghosts from the Past”), protagonista Alec Baldwin.
Gli investigatori acciuffano un simpatico farabutto del Ku Klux Klan locale e lo sbattono in cella: l’atteggiamento del presidente Kennedy e del fratello Robert (finiranno ammazzati entrambi) è durissimo, a Evers vengono tributati i massimi onori militari. Insomma, il messaggio che arriva dalle istituzioni non è affatto filo-razzista. Meglio: da una parte delle istituzioni, anche perché un ex governatore e un alto ufficiale delle forze armate ostentano amicizia con il regista dell’omicidio. Il cancro sta poi nel sistema giudiziario e forse ancor di più nella società civile: fatto sta che per due volte la giuria (tutti bianchi, manco a dirlo) si impappina, non arriva a un verdetto e a metà anni ’60 Byron De La Beckwith la sfanga in barba a tutti.
Nella foto: il presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy accoglie alla Casa Bianca i familiari di Evers: a sinistra la moglie Myrlia, a destra il fratello Charles, anch’egli attivista
Il sistema della giustizia non deve averlo proprio ritenuto un caso da non dormirci la notte. Ma dal Mississippi viene anche Robert Burt DeLaughter Sr., il procuratore che metterà con le spalle al muro il boss del Ku Klux Klan: “Mai troppo tardi”, come dice lui in un libro che ha avuto una certa fortuna. Tradotto: bisogna aspettare quasi trent’anni e alla metà degli anni ’90, nell’era di Bill Clinton presidente, il suprematista viene condannato. La moglie di Evers: «Solo l’odio verso gli assassini mi ha impedito di naufragare, mi sono aggrappata a quello».
Per capire l’aria che tira: solo all’inizio dell’estate 2020 questo stato Usa ha eliminato dalla propria bandiera il richiamo esplicito al vessillo dei confederati filo-schiavisti nella guerra di secessione. Ma si intravede anche qualcosa che sta cambiando: Philadelphia – ma il paesino del Mississippi, non la metropoli della Pennsylvania – porta ancora oggi il marchio di quella strage razzista firmata Ku Klux Klan, ma un prete pentecostale nero ha ottenuto la quarta riconferma di fila come sindaco.
Il nome di Evers aveva tutte le carte in regola per diventare quel simbolo che sarà rappresentato poi da Martin Luther King: anzi, alle spalle del celebre intervento dal titolo “I have a dream” che rimbalza ancora nelle scuole di tutto il mondo, c’era proprio la mobilitazione indignata di King dopo l’assassinio di Evers. E se ricordiamo che il più straordinario cantautore-poeta del Novecento, quel Bob Dylan premio Nobel per la letteratura nel 2016, ha dedicato la hit “Hurricane” contro il razzismo dietro la condanna del pugile Rubin Carter, è ben più difficile che qualcuno di noi ricordi che lo stesso Dylan una dozzina di anni prima aveva raccontato l’omicidio di Evers in una traccia (“Only a Pawn in Their Game”) contenuta nell’album “The Times They Are a-Changin’”. Il 33 giri è un manifesto che annuncia l’ineluttabilità di quest’onda di cambiamento, la canzone indica nel suprematista assassino nient’altro che una pedina in un gioco molto più grande anche dell’odio razziale del Ku Klux Klan.
Non catalogatelo come folklore: l’équipe dell’Anti-Defamation League, organizzazione ebraica americana che tiene gli occhi aperti sui rigurgiti di razzismo e antisemitismo, già prima della pandemia sottolineava che la potenza di fuoco della propaganda suprematista bianca è raddoppiata nell’ultimo anno analizzato (più 120%) e già in precedenza era risultata il doppio dell’anno precedente. Non è tutto: il direttore dell’Fbi Christopher Wray, secondo quanto riporta BbcNews, avverte che il “fondamentalismo razzista” è arrivato negli Usa a essere considerato «minaccia prioritaria nazionale» con un grado di pericolosità allo stesso livello dei terroristi del cosiddetto Stato islamico.
Ecco su chi ci soffermiamo a piangere oggi il nostro lutto. È anche un “mea culpa” per non averlo fatto prima: Evers è stato solo uno dei molti che hanno pagato il biglietto al posto nostro per lasciare a noi un mondo un po’ meno infame.
Post scriptum: di fronte a quella “livella” che è la morte («’nu rre, ‘nu maggistrato, ‘nu grand’ommo, / trasenno stu canciello ha fatt’o punto», cit. Totò), non esiste se non la pietà: una preghiera, chi crede, e un ultimo saluto. A tutti, quelli belli e quelli brutti.
Se però, dopo aver fatto memoria di Evers avanzasse un posticino in questo mio giorno di lutto, prenoto uno strapuntino – magari anche formato corridoio del treno – per Cormac McCarthy, forse non lo scrittore che ho amato di più (vedi alla voce Silvio D’Arzo e Gabriel Garcia Marquez, per dirne un paio) ma parole acuminate come pochi. Se n’è appena andato: d’altronde, ce l’aveva detto che questo “Non è un paese per vecchi”. Se n’è andato ma ha lasciato il mese scorso un libro nello scaffale: e la storia, siccome un ordine dell’universo dev’esserci per forza, spicca il volo dal Mississippi. Del resto, anche lui viveva nel Grande Sud americano: ma a ovest del Texas anziché a est com’è il Mississippi.
Post post scriptum: «Sapeva quanto è fragile il ricordo delle persone amate. Certo, noi chiudiamo gli occhi e parliamo con loro. Certo, noi aneliamo a risentire le loro voci anche una volta sola, ma queste voci e questi ricordi si affievoliscono sempre più, finchè ciò che un tempo era carne e sangue non è più che eco e ombra. E alla fine, forse, nemmeno questo» (Città della pianura, Cormac McCarthy)
Un bel ricordo.Purtroppo non è inconsueto che le vittime del razzismo,dell’intolleranza,della violenza delle dittature vengano cestinate nell’oblio.Il 10 giugno cadeva il 99°anniversario dell’omicidio di Giacomo Matteotti da parte dei fascisti.In Piazza ci siamo ritrovati in sei o sette,senza nessun rappresentante delle Istituzioni o delle cosiddette associazioni “anti”.
Purtroppo vale il detto di Carducci che siamo passati dalla poesia alla prosa.Mi congratulo per il tuo ricordo.
PS:anche Martin Luther King era massone e anche in Italia ci sono Logge a Lui dedicate.Saluti