E’ un eccidio all’Elba ottant’anni fa: inizia con una rivolta nella galera di Pianosa con lo stato in tilt dopo l’8 settembre. Il massacro nelle celle e poi l’assurdo vagabondaggio per sbattere da qualche parte gli altri 14 detenuti da punire. Una storia da film, e uno dei protagonisti si chiamava come il regista Giuseppe Tornatore
di Mauro Zucchelli
Ciascun cronista sa che le notizie càpita di andarci a sbattere involontariamente. Guai a farsi venire la voglia di fare i ganzi: magari non sei tu che cerchi le storie (come Andrea Purgatori, uno al quale quantomeno per la verità sul caso Ustica dobbiamo tutti molto: requiem aeternam dona eis Domine). Magari sono le storie che ti vengono a cercare: tu neanche te l’immaginavi. Anzi, cosa ci fa fra i piedi ‘sta roba? È accaduto proprio nel giorno dell’80° anniversario della liberazione di Livorno: ma non c’entra Livorno. C’entrano però i nazisti e direi pure i fascisti: solo che qui, stando a quel poco che ho capito, nessuno interpreta il ruolo che gli sarebbe stato assegnato. Cioè: le vittime innocenti, le bestie feroci, il piccolo paesaggio locale e la Grande Storia del Mondo.
Cominciamo con quel che bisogna evitare: dunque spoilero subito che va sotto l’etichetta di “eccidio di Procchio” questa «piccola storia ignobile / (che) mi tocca raccontare / così solita e banale come tante / che non merita nemmeno due colonne su un giornale / o una musica o parole un po’ rimate / che non merita nemmeno l’attenzione della gente: / quante cose più importanti hanno da fare» (cit. Guccini).
I giorni sono quelli dell’armistizio dell’8 settembre ’43 e siccome, al pari degli amori di Venditti, certe storie «fanno dei giri immensi / e poi ritornano», ecco che c’incastra qualcosa anche la data di oggi, 19 luglio. Livorno veniva liberata ma Roma subiva il bombardamento choc di San Lorenzo: il raid di quasi seicento aerei alleati del Northwest African Air Forces, metà dei quali bombardieri pesanti; quattromila bombe giù da più in alto delle nuvole; più di settecento morti e poco meno di 2mila feriti. Un bilancio tremendo anche perché ci si cullava nell’illusione che nessuno avrebbe mai colpito la città del Cupolone e del papa. Un bilancio disumano ma esatto dal punto di vista strategico: neanche una settimana più tardi, il re fa arrestare Mussolini e lo caccia dal potere. Meno di due mesi più tardi l’armistizio dell’8 settembre ’43: con la memorialistica fascista che insiste sul tradimento di un’alleanza sudicia e suicida con Hitler, mentre il problema vero è stato lo spappolarsi delle istituzioni con il fugone del circo barnum di casa Savoia che lascia militari e civili in balia della furia hitleriana.
Il pistolotto l’ho fatto, e cosa ci combina con la nostra piccola storia e con Procchio? In realtà, tutto inizia in un’altra isola dell’Arcipelago davanti alle coste toscane: a Pianosa c’è un carcere in mezzo al mare. Forse le notizie non circolano come nei bar di piazza Grande ma dopo l’8 settembre si è capito che qualcosa è accaduto. Figuriamoci: si squaglia lo stato in una istituzione totale che è il braccio con cui lo stato ti fa pagare i conti. Inutile dire che, se tutto traballa, i detenuti provano a dargli una bella spallata e casomai scappare. Come e dove, boh. Ma provarci.
Risultato: cinque galeotti li ammazzano di botte subito, se ho capito bene. Sempre ammesso che non abbia preso fischi per fiaschi, pochi se ne occuperanno poi a guerra finita: non sono martiri ai quali si possa ascrivere un po’ di nobiltà combattente, potrei cavarmela immaginandoli come rubagalline e borsaneristi, invece probabilmente sono ergastolani che hanno sul groppone un omicidio. Figurarsi che nel ’51, quando alla corte d’assise di Lucca la giustizia mette sotto processo gli imputati del pesante pestaggio dei presunti capi della rivolta, l’aula del tribunale si presenta curiosamente con le parti lese rinchiusi nel gabbione e con le uniformi a strisce da galeotto mentre gli imputati sono in «impeccabili abiti borghesi», nota un cronista, liberi di muoversi.
Comunque sia, quel giorno di metà settembre ’43 l’ordine e la disciplina dentro il carcere di Pianosa vengono ristabiliti: a distanza di oltre sette anni, le cronache giudiziarie ricostruiranno attraverso le testimonianze la “cura” con cui il direttore del carcere, dopo aver saputo che l’armistizio aveva fatto nascere nei reclusi qualche fantasia di libertà, aveva deciso di colpirne qualcuno per educarne un bel po’. Erano in un’isola fuori dal mondo, in una galera fuori dal mondo, in mezzo a una guerra che si era trasformata in un casino: chi avrebbe mai potuto dirgli qualcosa se dava una bella lezione a questi qui? D’altronde, anche i suoi superiori mica erano buonisti, e i nazisti appena arrivati quelli poi…
Tema: prendete un gruppetto di detenuti senza nessuna arma né difesa, dateli in pasto a una folla di secondini con armi, mazze, bastoni e tutto il resto, mettete il capo di tutto a guidare questa bella ripassata. Ne muoiono cinque, e mi sembra già poco.
C’è chi l’ha raccontata: ad esempio, in “La ritrattazione” che in tandem con Giulio Caprilli scrive lo scrittore elbano Raffaello Brignetti, un tipo nato singolare se è vero che, essendo figlio d’un guardiano di fari, andava a scuola in barca tutte le mattine. Ma anche: il romanzo di Gianfranco Vanagolli sui “dannati del Priamar” o un resoconto di Elbareport ad opera di Umberto Mazzantini. Probabile che i giornali dell’epoca non ne abbiano scritto al momento delle violenze in quel difficilissimo inizio dell’autunno ’43 (a stento uscivano in edicola e comunque la censura non scherzava: poteva anche imbiancare pezzi di articolo): ma, a dire il vero, sia “Il Tirreno” su scala locale che quotidiani nazionali come “Corriere” e “la Stampa” ne hanno dato conto. La trovate anche su wikipedia e nell’Atlante che gli ex partigiani dell’Anpi e l’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia ha dedicato allo stragismo premeditato di Ss e repubblichini (www.straginazifasciste.it). Solo che poi è sparita da gran parte della memoria collettiva perché è difficile tifare per gli ergastolani e farne degli eroi: questa memoria però bisogna rispolverarla perché siamo solo a metà del racconto, e la prima parte non è la più incredibile.
Non è chiaro se la guarnigione nazista sia arrivata sull’isola – piatta come una tavolata di famiglia a Natale – per prenderne possesso dopo l’armistizio e sbatter via i badogliani. Non è chiaro nemmeno se il carcere risponda a Badoglio, ai repubblichini fascisti, all’occupante tedesco o a chissà chi, forse nessuno. Fatto sta che, dopo aver accoppato quei cinque, ci si ritrova con altri 14 rivoltosi – anche questi assassini e rubagalline – alla quale bisogna ficcare in testa che così non si fa, e ficcarglicelo per bene.
Cosa succede in questi casi? Un bel trasferimento punitivo: vedrai ti passa la voglia di fare il bischero e sognare di lasciare la tua cella. Solo che non sono tempi normali, ma proprio per niente. Di penitenziari è ricco il nostro Arcipelago ma, in mezzo a quel bailamme che sta diventando la guerra qui sull’uscio di casa, ciascun direttore di carcere sa che deve evitare di prendersi in collo altri carcerati perché le scorte di viveri sono quelle che sono e il sovraffollamento non aiuta a tener tutti tranquilli in cella e soprattutto perché le rotture di scatole extra non sono le benvenute. A Pianosa hanno piantato una grana? Se la veda qualcun altro: anche perché, nel frattempo, non esiste una autorità in grado di chiamare il direttore del carcere e metterlo in riga.
La conseguenza è presto detta: quei 14 reclusi sono stati mandati via da Pianosa per esser sbattuti in un’altra galera a piangere lacrime amare ma in realtà li rimbalzano di qua e di là. Qui il racconto dovrebbe dilungarsi per mostrare il rapporto che, nel bene e nel male, si instaura fra i 14 galeotti e il plotone di soldati tedeschi. Il loro girovagare dura giorni e giorni, si arrangiano a dormire in situazioni di fortuna. Dentro una situazione generale che è un pandemonio: con le catene di comando italiane completamente andate a ramengo e quelle tedesche che hanno la difficoltà di raccapezzarsi in un contesto del genere (vaglielo a spiegare a quelli di Berlino o anche solo del comando a Roma…). Aggiungete poi che l’Arcipelago e l’Elba non la conoscono i tedeschi proprio per nulla, ma anche gli italiani cosa ne sanno? Sono carcerati arrivati dagli angoli più remoti del Bel Paese e sono finiti lì un po’ a casaccio. Chissà se su quella collina c’è uno che può darci una stalla per dormire…
È un’impasse: c’è un gruppo che ha le armi e uno no, ma ogni momento potrebbe essere l’attimo per un blitz che rovescia gli equilibri, e comunque tutti sono stanchi. Come se ne esce? Si dirà poi che dal comando tedesco è arrivato l’ordine: farli fuori e finita lì. È quel che accadrà a metà ottobre, dopo quasi un mese di un girovagare assurdo a piedi d’una comitiva senza uguali. Guardie e carcerati – anzi, nazisti e ergastolani – in pellegrinaggio senza meta. L’ultima notte i carcerati sono così stremati che non si sa neanche se li abbiano legati o no, fatto sta che dalla stalla nessuno se dà a gambe. All’alba li portano sulla spiaggia di Procchio, si rimedia qualche vanga per scavare. C’è da fare una trincea: ma quant’è difficile crederci, visto che si tratta di fare una buca nella rena a pochi passi dalla battigia. Una trincea lì non servirebbe nemmeno a fermare un’onda del mare, altro che l’avanzata del nemico. Parte la sventagliata di mitra ed è tutto finito.
No, non ne sono così sicuro che sia stato un ordine da un feldqualcosa con accento bavarese. Nessuno può certificarcelo: i 14 sono finiti nella buca della sabbia, chi ha sparato è sparito nel nulla e, a quanto è dato sapere, in quel girotondo di follia nessuno sa quale ufficiale e quale reparto, insomma chi. Di più: non sono sicuro nemmeno che fosse un gruppetto di Ss fra le più feroci e invasate. Penso semplicemente che si volessero togliere da quell’impiccio e smetterla di patire fra stalle, fienili e magazzini per quei maledetti ergastolani. Del resto, erano ergastolani, no? Bisognerebbe riprendere il reportage di Hannah Arendt che si mette a fare il mio mestiere (splendidamente) e per il “New Yorker” segue il processo a Eichmann, la nostra inviata speciale lo darà alle stampe con il titolo “La banalità del male”.
Dobbiamo smetterla di pensare che si sia trattato di una sorta di delirio: l’avrebbero rivendicato, invece la nomenklatura nazista è stata così attenta a cercare di cancellare anche le tracce burocratico-amministrative. Ma la mostrificazione aiuta i mostri. Eichmann si difende come avrebbe fatto qualsiasi ragioniere-capo, un funzionario ligio alle disposizioni. Ma a Pianosa e all’Elba l’Ordine si squaglia e per quasi un mese è il rapporto nazisti-ergastolani a dettare regole che non sono regole: è una parabola del potere, del potere di chi ha in mano la vita e la morte altrui. Non era un atto di guerra ma un assassinio a sangue freddo, dopo aver diviso con quei 14 decine di chilometri di cammino. Questa piccola storia ignobile ci dice sulla natura umana più di mille discorsi: quei soldati tedeschi saranno tornati a casa e avranno abbracciato i loro bambini, a guerra finita saranno diventati impiegati del catasto sassone o verdurai della Westfalia.
«Ci vorrebbe un giornalista», diceva un mio direttore per tirare una frecciata a tutti noi, con il tesserino rosso e i bollini dell’Ordine, lì in riunione a discutere sul bì o sul bà. No, io direi che ci vorrebbe un cineasta: ci si potrebbe fare un film, e anche qui il capriccio del destino avrebbe perfino già indicato il nome del regista: Giuseppe Tornatore. Non è forse vero che un suo omonimo è stato ammazzato in galera? Fatto sta che il disegno dell’identikit umano dei personaggi in una situazione-limite come questa varrebbe già di per sé il prezzo del biglietto.
Nella foto in alto: Il camion con cui i detenuti furono trasportati alla fucilazione, fotografato alcuni anni prima a Marciana Marina (da Wikipedia). Più sotto: “La Stampa” segnala nel ’63 l’esito della causa giudiziaria contro il ministero della giustizia intentata da uno dei detenuti bastonati nel ’43 a Pianosa
Un articolo da concorso letterario.Servirebbe ad alimentare la nostra memoria collettiva e sopratutto ai tanti giovani che non hanno cognizione della tragicità di questi avvenimementi perchè nelle famiglie ormai non si trasmette la memoria.Della scuola non parlo perchè mi verrebbe da incazzarmi.Bravo e tanti saluti