Cosa Nostra aveva tutto da perdere ammazzando il giudice mentre erano in discussione provvedimenti anti-mafia: Riina si fa garante dell’alleanza con “chi sta più in alto”. Ucciso perché l’indomani avrebbe detto ai giudici su cosa stava lavorando insieme a Falcone
di Mauro Zucchelli
La cosa più sorprendente della strage di via D’Amelio – l’assassinio del giudice Paolo Borsellino – è che non c’è stata nessuna sorpresa. A cominciare dal luogo (la casa della madre) e dalle modalità (una auto-bomba).
Non era indispensabile essere uno 007 con raffinate competenze di intelligence per prevedere che il rischio principale per Borsellino sarebbe stata una vettura riempita di esplosivo: era accaduto nel luglio ’83 con il giudice Rocco Chinnici; nell’aprile ’85 nell’attentato (fallito per una tragica fatalità) contro il giudice Carlo Palermo neanche due mesi dopo il suo arrivo; soprattutto, nel maggio ’92 contro il giudice Giovanni Falcone.
Non occorreva essere un genio del controspionaggio per immaginarsi che il posto più semplice in cui provarci era il passaggio dall’auto a una abitazione e, se la casa era stata “protetta”, era immediato pensare che il punto debole di tutta la fase di tutela stava nel momento in cui il giudice scendeva per andare, come sempre, a far visita all’anziana madre. Pensate che avessero messo un divieto di sosta davanti all’ingresso di quel palazzo così come ci sono intorno a qualunque significativa caserma in qualunque angolo del Bel Paese? No, se l’erano dimenticato: non c’è voluta nemmeno tutta questa gran capacità militare, imbottisci una utilitaria di esplosivo e la fai saltare quando il bersaglio passa accanto. E “deve” passarci proprio accanto perché le auto sono un po’ dappertutto. L’agente alla guida della prima auto di scorta, magari con il senno di poi, spiegherà di aver intuito confusamente che in tutto quel guazzabuglio di auto davanti al cancello della signora Borsellino c’è qualcosa che forse non va, ma non fa in tempo a razionalizzare quell’istinto poliziottesco che poi…
«Nonostante tutti sapessero che il prossimo sarebbe stato Paolo, nonostante lui stesso avesse confidato a un paio di persone che a Palermo era arrivato l’esplosivo per lui, – dice la sorella Rita Borsellino – qui in via D’Amelio non era stata presa nessuna misura precauzionale».
Non interessa qui, però, spulciare i cento dettagli a caccia di una contro-verità: se i 90 chili di semtex-H erano davvero di produzione cecoslovacca, se il botto ha davvero lasciato un buco largo quasi due metri e mezzo e profondo 34 centimetri, se la 126 amaranto imbottita di esplosivo era stata “pagata” mezzo milione di vecchie lire a un ladro e se ne è rimasto solo il blocco motore. Di contro-verità ce ne sono, as usual, quante ne vogliamo: come, ad esempio, che era lì una seconda auto bomba (una Audi 80), e guardacaso l’avevano tirata fuori i consulenti della difesa tanto per far impazzire un po’ i giudici.
L’ “altra verità” sul plateale assassinio del giudice Borsellino mette al centro un oggetto (l’agenda rossa del magistrato) per richiamare l’attenzione su un fatto: in via D’Amelio non c’erano solo i killer di Cosa Nostra ma anche gli uomini con le “stellette” appartenenti a settori deviati delle istituzioni. Non stiamo parlando dell’ “a chi giova?”. Stiamo dicendo che il piano poteva compiersi solo – ripeto: solo – se qualche “colletto bianchissimo” si fosse macchiato le mani sulla scena del crimine. Tradotto: non è “concorso esterno”.
C’è un bel libro di Giovanni Bianconi, che come cronista del “Corriere” ha seguito sia la stagione del terrorismo che quella delle mafie. Si intitola “Un pessimo affare” e indica quanto poco fosse utile per Cosa Nostra assassinare Borsellino. Anzi, era proprio controproducente: era in discussione l’ “ergastolo duro” per i boss mafiosi, la cricca di politici più sensibili ai sussurri delle cosche erano riusciti a buttare la palla in corner e si poteva sperare che fra ferie estive e un po’ di melina il decreto legge non fosse riconvertito in tempo e decadesse. A che pro sfidare lo Stato con un attacco frontale? È quel che dicono alcuni capibastone in un preoccupato faccia a faccia con Totò Riina, e lui spiega che in una serie di favori incrociati con misteriosi soggetti tanto potenti quanto innominabili quell’omicidio lo devono fare, punto e basta. Come dire: lo so che ci rimettiamo nell’immediato ma ci leghiamo a qualcuno che non vi posso dire ma fidatevi di me, alludendo agli interessi di una super-Cupola molto più potente della Cupola mafiosa…
In effetti, bisogna guardare ai 57 giorni che separano la morte di Falcone da quella di Borsellino come una corsa contro il tempo per quest’ultimo. Lasciamo perdere che Borsellino l’ha detto alla moglie, non è qualcosa di astratto e generico: è una “via crucis” sotto gli occhi di tutti. C’è un dettaglio di quest’attesa della morte che mi sembra illuminante: una delle persone che lo vede in via D’Amelio dal balcone di casa sua fa rientrare i figli in casa. Non la vedo come una complice: semplicemente, tutti sanno che Borsellino è in attesa della sua “sentenza finale” che non reggono la tensione e lo strazio, e in effetti qualche secondo più tardi l’autobomba esplode.
Quando parlo di “corsa contro il tempo”, non è affatto casuale ogni riferimento all’intervento che Borsellino fa pubblicamente nella biblioteca di Casa Professa poche settimane prima di morire: il tasso di commozione e di devota ammirazione laica per i due giudici antimafia è tale che Borsellino poteva cavarsela con qualche bella frasina. Invece sa di esser condannato a morte e lancia la sfida con quella che diventa la sua sentenza di condanna ma che è forse anche il punto più alto della strategia di inquirente. «In questo momento, oltre che magistrato, io sono testimone». No, non testimone del valore dell’amico, testimone dei suoi successi, eccetera: testimone in senso tecnico-giudiziario. Cioè, ripete in pubblico di aver molto da dire e da far riversare in atti giudiziari, «avendo condiviso a lungo la mia esperienza di lavoro con Falcone e avendo io raccolto come amico di Giovanni tante sue confidenze».
È un colpo da maestro: gli impediscono di indagare sulla morte del suo amico Falcone e lui, a malincuore, accetta la scelta che è consentita dalle “regole” dell’ordinamento. Ma c’è un “ma”: essendo stato Falcone assassinato per il suo lavoro sul fronte caldo della giustizia, non esiste persona al mondo che ne sappia di più di Borsellino di cosa avesse in testa Falcone e su quali ipotesi e scenari si stesse muovendo. In concreto: ve lo dico io su cosa stava lavorando Falcone e ne posso dare testimonianza utilizzabile in sede giudiziaria. E vediamo se qualcuno ha qualcosa da ridire su questo: dirà poi al Csm Maria Falcone, sorella di Giovanni, che nel trigesimo della morte del fratello, Borsellino le aveva detto che il fratello «era molto vicino a scoprire cose tremende, avrebbero fatto saltare parecchie cose». Del resto, due colleghi di Borsellino hanno raccontato che pochi giorni prima di essere assassinato il giudice confidò di esser stato «tradito da un amico». L’aveva detto piangendo: cosa che non era mai accaduta prima.
L’assassinio di Borsellino doveva avvenire quel giorno, non più tardi. Lui va in pressing sui magistrati che indagano sulla morte di Falcone, dice pubblicamente che ha molto da dire e chiede di esser ascoltato, loro tentennano, nicchiano, prendono tempo. Poi però accettano di vederlo. Lo riferisce l’allora procuratore aggiunto di Caltanissetta: pochi giorni prima di esser ammazzato, Borsellino era stato contattato dalla procura per essere sentito («risulta anche dai tabulati telefonici»). Il magistrato Nino Di Matteo, ora consigliere del Csm e in passato al lavoro da pm su inchieste contro Cosa Nostra, aggiunge: l’appuntamento c’era già («per lunedì 20 luglio o nei giorni successivi»). Borsellino viene fatto saltare in aria meno di 24 ore prima: viene ammazzato non tanto per quel che aveva fatto fin lì nella caparbia lotta anti-mafia ma per quello che avrebbe potuto fare l’indomani.
A questo punto, bisogna seguire una traccia precisa: l’agenda rossa che a Paolo Borsellino era stata regalata da un capitano dei carabinieri. Ne aveva fatto il “diario” sul quale annotava quanto andava raccogliendo come spunti e tasselli del puzzle riguardi alla morte dell’amico Giovanni Falcone, assassinato meno di due mesi prima – pure lui con una montagna di esplosivo telecomandato a distanza – sull’autostrada nel tratto di Capaci. Per la sorella del giudice, Rita, «in quell’agenda c’è scritto il motivo per cui Paolo è stato ucciso»: lo dice a Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza che al rebus di quell’agenda sparita hanno dedicato un libro.
Quell’agenda rossa è così importante: per lui, come per “loro”. Anche perché Borsellino in quei giorni ha speso la propria autorevolezza personale in faccia a faccia con alcuni collaboratori di giustizia, incluso Gaspare Mutolo che diventerà una figura chiave proprio perché non è mai stato uno stinco di santo. Mutolo ha chiesto di parlare «solo con il dottore Borsellino»: i vertici della Procura stabiliscono che Borsellino si occupi di altro, e se proprio è indispensabile che ci sia lui ci dev’essere anche un altro pm. Che è come dire a Mutolo: stattene zitto, e glielo dice lo Stato.
Alla fin fine Borsellino riesce ad ascoltare Mutolo: solo che, stante la materia incandescente, quegli incontri sono verbalizzati solo a metà, per la parte meno spinosa. Il resto rimane a livello confidenziale e magari, chissà, potrebbe finire negli appunti dell’agenda rossa. Non ne abbiamo la controprova, eppure Borsellino non molla mai quel quadernetto: lo conferma la moglie Agnese Piraino, segnalando che vi aveva scritto qualcosa anche prima di uscire di casa per l’ultima volta, e sicuramente l’aveva presa con sé perché lei l’ha visto con i suoi occhi.
Peccato che in via D’Amelio, sul luogo della strage, l’agenda rossa non si trova. Ovvio che nessuno possa trovare anomalo il gran guazzabuglio di investigatori e magistrati subito dopo l’esplosione. Ma sulla borsa del giudice (e sulla sua agenda rossa) si scatena subito una caccia forsennata. Come mai è sparita? Un barlume di verità lo porta uno scatto del primo fotoreporter giunto sulla scena: stava andando in vacanza con la famiglia, ha visto una grande colonna di fumo e, avendo le antenne affinate da anni di mestiere, pianta lì i suoi cari, e si fionda sul posto. Scatta a ripetizione, fra le tantissime foto ce n’è una in cui si vede una scena surreale: un ufficiale dell’Arma che si muove in direzione diversa da tutti gli altri e esce dalla scena portando con sé la borsa di Borsellino (post scriptum: finirà assolto da ogni accusa).
Vabbè, in quel casino. Ma la borsa è destinata a un valzer abbastanza surreale. In effetti, poco dopo esser sparita (portata via), rieccola sulla scena dell’esplosione: la ritrova un sovrintendente di polizia. Qualcuno l’ha riportata lì, ma priva dell’agenda. Siccome c’è ancora qualche focolaio, chissà che qualcuno non speri che il fuoco se la divori per coprirne la sparizione. Il diavolo fa le pentole ma i coperchi gli vengono maluccio: alla fine abbiamo la borsa quasi intatta e l’agenda sparita. Come ne escono “loro”? Ecco che salta fuori un teorema di fanta-fisica: pochi istanti prima di arrivare in via D’Amelio Borsellino tira fuori l’agenda rossa dalla borsa, e l’esplosione lascia indenne l’una e polverizza l’altra. È già abbastanza cervellotica, poi spunta fuori un video dei vigili del fuoco che su Sky mostra l’agenda integra. Non resta che arrendersi: o l’ha fatta sparire un essere umano che cercava proprio quell’agenda rossa o se la sono portata via gli alieni in una missione per prendere contatto con gli umani e hanno avuto la sfiga di atterrare proprio quel giorno lì in via D’Amelio.
È da dire che il capopattuglia di una volante arrivata in via D’Amelio pochi istanti dopo la strage ricorda che un tale gli si presenta come funzionario dei servizi segreti e gli chiede dov’è la borsa del giudice. Un altro poliziotto dice di aver visto «almeno quattro o cinque» figuri vestiti di tutto punto in giacca e cravatta in una giornata di caldo torrido: spiccavano sulla scena, lui li conosceva di vista come uomini dei servizi segreti. Ne consegue una domanda: ma come facevano questi a essere qui pochi istanti dopo la strage?
Roberto Scarpinato, magistrato dell’équipe antimafia (e ora parlamentare M5s), ha le idee chiare: a Borsellino doveva essere impedito di parlare ai giudici ma bisognava far sparire anche l’agenda rossa per evitare che «parlasse anche da morto». Ma sulla scena della strage, in mezzo a una tal presenza di investigatori e magistrati, davvero avrebbe potuto essere un picciotto d’una cosca a compiere tutto questo trabagai per far sparire l’agenda e poi rimetterci la borsa? No, l’agenda poteva farla sparire solo qualcuno da dentro le istituzioni. L’ha ripetuto anche nel podcast “Mattanza”: anche perché nell’immediatezza dell’assassinio qualche “manina” va a rovistare anche nell’ufficio (sorvegliatissimo) del giudice.
Qui forse il racconto ci potrebbe portare al fronte caldo che più di recente si è aperto nella narrazione di Cosa Nostra: tutto quel che c’è nella galassia di Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio, e del suo amico Salvatore Baiardo. Compresi ovviamente gli schizzi che arrivano sulla giacca di Silvio Berlusconi, morto qualche settimana fa e santificato a reti unificate in misura mai vista per nessuno: c’è la sua discesa in politica elaborata fin dal ’91-92, c’è la conversione alla strategia stragista da parte della ‘ndrangheta (che ha sempre tenuto a inabissarsi per evitare che omicidi troppo clamorosi possano innescare una reazione dello Stato). I miei «piccoli occhi mortali» (cit. ultima lettera di Aldo Moro) sono troppo piccoli e troppo miopi per immaginare qualcosa di più di congetture plausibili. E chiunque si è accorto che le cosche ora reagiscono ai collaboratori di giustizia più con l’overdose di rivelazioni false che con la lupara: è più facile intorbidare le acque che proseguire la logica dello scontro frontale, come dice una vecchia regola delle “barbe finte” dell’intelligence. Dunque, a ogni “pentito da 90” non si reagisce più semplicemente sterminandogli moglie, figli, nonni e cugini ma piazzando fra i piedi dei pm dieci falsi pentiti che moltiplichino le rivelazioni fino a creare una ingestibile panna montata di congetture.
Resta il fatto dell’agenda rossa di Borsellino. Perfino nella sentenza che manda assolti dall’accusa di inquinamento delle indagini alcuni poliziotti (un po’ perché si derubrica l’accusa e un po’ grazie alla prescrizione), si mette l’accento su un fatto dimostrato: «la partecipazione (morale e materiale) alla strage di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino». Dunque, non è soltanto un cronista di provincia a indicare che bisogna smetterla di guardare all’uccisione di Borsellino come di un mito e basta, gli si vuol impedire concretissimamente di riversare nell’inchiesta giudiziaria di Caltanissetta quel che sapeva come testimone. Lo dice l’«anomala tempistica dell’eccidio», spiegano i giudici.
Ma soprattutto sono i giudici, e non le elucubrazioni mie, a segnalare l’ingerenza di soggetti extramafiosi nella strage di via D’Amelio: il pentito Gaspare Spatuzza parla della presenza di «una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo e la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino». È, dicono i giudici, una presenza «anomala e misteriosa di un soggetto estraneo ai clan»: ed essa trova spiegazione «solo alla luce dell’appartenenza istituzionale del soggetto, non potendo logicamente spiegarsi altrimenti il fatto di consentire a un terzo estraneo alla consorteria mafiosa di venire a conoscenza di circostanze così delicate e pregiudizievoli per i soggetti coinvolti come la preparazione destinata all’uccisione di Paolo Borsellino».
Anche l’agenda rossa viene fatta sparire da qualcuno che non appartiene a Cosa nostra. «A meno – scrivono i giudici – di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti alla mafia che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione non è riconducibile ad una attività materiale di Cosa Nostra».
Un racconto drammatico .Se fosse la verità accertata si dovrebbe riscrivere la Storia della Prima Repubblica.Bravo davvero.Saluti
Grazie Mauro, il tuo racconto è la dimostrazione che c’è chi ha colto l’insegnamento di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: perseguire tenacemente la ricerca della verità, sempre!