Some of the stories that I'd like to print (cit. Ochs feat. Zuc)
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Il mio compagno di banco Franco Carnieri, cronista con la schiena dritta e la tuta blu
Il cronista Franco Carnieri al centro, fra l’ex leader Cgil Vittorio Cioni e l’ex sindaco Bino Raugi, entrambi poi dirigenti Anpi (foto Il Tirreno)
Nel terzo anniversario della scomparsa, tengo a ricordare con affetto un collega che è stato molto più di un collega: Franco era un compagno di banco, e ha raccontato la classe operaia come nessun altro

Sono tre anni che non è più in mezzo a noi Franco Carnieri, cronista del “Tirreno” (e tanti anni prima di “Paese Sera”). Gli sono stato compagno di banco per tanto tempo e tanto ho imparato. Soprattutto in termini di una dirittura anche spietata verso sé stessi: se aveva qualcosa da dirmi, non era per nulla tenerino. So che lo faceva perché mi voleva un gran bene. Lasciando il servizio mi aveva consegnato un calibro professionale, uno di quelli che aveva anche mio padre. Inutile in una redazione di giornale se non a dirti da dove vieni: e se «le parole sono importanti», direbbe Nanni Moretti, le radici lo sono perfino di più. E uno come lui teneva l’appartenenza alle origini da tuta blu una attenzione particolare: nessuno più di lui è stato voce della classe operaia livornese, nemmeno io che pure da quel ceppo di lavoratori metalmeccanici provengo. Detto che faccio parte di una categoria che ha mille peccati, se c’è una cosa che mi fa andare in bestia è la solita tiritera del giornalista leccapiedi e venduto: vengo dall’oratorio salesiano di Colline e sebbene don Dagna cercasse di aiutarci a utilizzare argomenti dialettici più sofisticati, qui scappa la risposta standard che invita a riferirsi “ar budello” della propria augusta genitrice ma anche per li rami di tutto il resto dello “stramalidetto” parentado a vario titolo coinvolgibile. Lo dico perché ho incontrato nella vita professionale un esempio come Franco, e forse non è l’unico: alla faccia degli starnazzanti.

Ecco che qui, adesso che anch’io ho lasciato la redazione e non ho più la carta di giornale sotto i piedi, per ricordarlo nel terzo anniversario della sua scomparsa mi affido alla mia piccola micro-editoria e vi ripropongo il modo con cui gli ho dato l’ultimo abbraccio dalle colonne del “Tirreno” nell’estate 2020.

 

di Mauro Zucchelli

Se n’è andato in silenzio alla soglia degli 81 anni: li avrebbe compiuti fra una settimana e mezzo, lui che era nato nello stesso giorno di Romano Prodi. In silenzio perché Franco Carnieri, ex cronista del “Tirreno” per lunghi anni, non amava granché i toni strillati quando servivano solo a far gonfiare la vanagloria personale tutta chiacchiere, tesserino professionale e prosopopea. Li amava invece quando era la voce della lotta collettiva, della battaglia operaia: cronista in tuta blu, e non per vezzo da tifoso bensì perché rivendicava una appartenenza di classe.

Del resto, veniva da una famiglia di maestri d’ascia che ha rappresentato più di qualcosa nella storia della cantieristica livornese: non stiamo parlando della potenza di fuoco da capitani d’industria quanto semmai dell’orgoglio del saper fare bene le cose. Suo padre Dario e suo nonno Gino l’odore della pece nel loro cantierino lo conoscevano bene. Dietro la maestria della manualità di quel riparare le barche c’era una fierezza di mestiere metà artigiana e metà operaia: la ritroviamo nella parte migliore del movimento operaio.

Lo rivendicava anche con una certa ruvidezza. Come quando lo sbatterono fuori da una conferenza stampa del ministro democristiano Giovanni Prandini che stava mettendo a ferro e fuoco il porto: «Buongiorno ministro, sono Franco Carnieri». Prandini s’inalbera: «Ah, lei è l’amico dei portuali, si vede proprio che non capisce nulla». Carnieri figuriamoci se china la testa: «Signor ministro, qui se c’è qualcuno che non ha capito nulla mi sembra proprio che sia lei».

Economia e soprattutto sindacato, era di questo che si occupava per il “Tirreno”: la trincea incandescente dei problemi del lavoro, insomma. Nel bel mezzo di una stagione complicata contrassegnata da un susseguirsi di trasformazioni: l’uscita di tante fabbriche dal regno delle Partecipazioni Statali (in cui le rivendicazioni erano scandite dalle battaglie per la conquista di carichi di lavoro, soprattutto da parte dello stabilimento Fincantieri e della Cmf), la fine dell’ex Spica, l’arrivo delle multinazionali, il primo round della deindustrializzazione con l’eclisse della vetreria Borma fino alla chiusura della Delphi. Ma anche dalla rivoluzione epocale che cambia volto al porto: il tramonto del monopolio dei portuali, gli scontri (fisici) sulle banchine per i decreti Prandini, lo sbarco degli ammiragli-commissari, la complicata nascita delle Autorità portuali con Livorno a fare da apripista, il nuovo identikit del governo della portualità e le banchine in mano ai privati, la mutazione della Compagnia che si fece anche impresa, i nuovi equilibri di potere in porto.

Guai al cronista che si tira in ballo in prima persona in un articolo, ma qui bisogna raccontare quanto a lungo siamo stati compagni di banco nella cronaca di Livorno del Tirreno: diversi per storie, provenienze, età e chissà cos’altro ma anche uguali in una certa idea del mondo. Si potrebbe far notte con il racconto dei fotogrammi di una vita a contatto di gomito per più ore di quanto ne passavamo in famiglia, qui basti ricordare due flash.

L’uno riguarda il giorno in cui mi spiegò la sua idea di integrità morale: «Le tasche della giacca e dei pantaloni, fattele cucire chiuse ben bene perché non basta non chiedere, devi anche evitare che qualcuno i regali in tasca te li infili direttamente lui». Lo conferma il figlio Emiliano, ricordando che quel che il babbo gli ha detto in un pomeriggio in cui la sua malattia gli ha dato un po’ di tregua: «Spero di averti insegnato l’onestà». Poi aggiunge con un nodo che gli inchioda un po’ la gola: «L’altro insegnamento era: stai dalla parte di chi è più debole».

L’altro riporta al giorno in cui ha lasciato la scrivania accanto alla mia per andarsene in pensione: non mi ha regalato un libro di quelli fighi che lasciano un patrimonio di idee. Mi ha regalato un calibro professionale, uno di quelli da operaio specializzato di una volta. Lo sapevamo benissimo entrambi che sarebbe stato del tutto inutile per misurare la lunghezza di un articolo o l’ingombro di una foto o se un titolo è ok. Serve a raccontare una appartenenza operaia, una fierezza del saper fare: una tuta blu nel cervello perché in quella di stoffa non c’entravo.

La salute gli aveva giocato qualche brutto tiro mancino, ma di recente era migliorato e aveva ripreso a riconoscere chi gli stava a fianco. Aveva un culto per le battute di Totò e aveva ricominciato a scherzare con i figli, raccontano che invece alla moglie abbia riservato un dolcissimo «Come sei bella».

Franco lascia la moglie Nadia, i figli Emiliano e Ascia, i nipoti Vittorio, Olga e Emma: a loro vada l’abbraccio di noi cronisti come lui e di tutti quanti lavorano al “Tirreno”. La camera ardente è alla cappella mortuaria dell’ospedale, oggi alle 16 i familiari, gli amici e quanti ne hanno apprezzato la dirittura morale e le doti umane lo accompagneranno nell’ultimo viaggio verso il cimitero dei Lupi.

Prima di incamminarsi con lui vale la pena di ricordare lo scherzo che, come raccontano i familiari, gli fecero i colleghi appena approdato nella redazione di viale Alfieri. Erano i giorni dell’attentato a papa Wojtyla e a qualcuno venne in mente di cogliere al volo l’occasione: «Franco corri, hanno sparato al vescovo», gli telefonarono dalla redazione. Era sera tardi, era appena arrivato dopo una giornata di lavoro: in casa gli dissero almeno di cenare. Lui riprese il giubbotto e tagliò corto: «Il giornale è il giornale».

Franco Carnieri era arrivato al Tirreno negli anni ’80, ci rimarrà fino al 2006. Inutile dire che fra gli ultimi articoli che ha firmato c’è “L’autunno da brividi della componentistica auto”, c’è il barlume di speranza per i 70 dell’ex Carbochimica, c’è l’ultimo giorno della Delphi prima della definitiva chiusura dei cancelli. In precedenza era stato assistente tecnico all’Itc e al Nautico. Ma soprattutto era stato da cronista alla “scuola” di “Paese Sera”, che aveva in città una redazione: era lì che si era fatto le ossa. Come per l’episodio che riporto qui di seguito con le parole di Franco Carnieri in un articolo del 2003: tanta era la sua refrattarietà a mettersi in mostra che si era solo dimenticato di dire che per Paese Sera la foto l’aveva fatta lui.

Nelle foto sopra: Franco con penna e taccuino davanti alla prefettura durante un presidio operaio. Nel ritaglio sotto: la prima pagina dell’Unità (settembre 1969) racconta il blitz livornese con la bandiera vietcong

Così nel 2003 Franco Carnieri rievocava sul Tirreno il blitz filo-vietcong nel ’69: era stato lui a fotografarlo per Paese Sera, e questo ve lo dico io perché lui non lo fa.

Una medaglia realizzata col metallo di uno degli aerei Usa abbattuti nei cieli del Viet Nam del Nord devastato dai bombardamenti a tappeto comandati da Nixon. Fu consegnata da una delegazione vietnamita a un gruppetto di portuali livornesi che nel giorno del funerale di Ho Ci Min (morto il 3 settembre 1969), salirono a bordo di una nave americana attraccata nello scalo labronico, ed ammainarono la bandiera al posto della quale issarono quella del Viet Nam del Nord. Un’azione spericolata di sapore gappista (gruppi d’azione partigiana durante la Resistenza), che ebbe un’eco nazionale e fu assunta in Viet Nam come un esempio «militante» di solidarietà internazionale. Ma anche un’azione in nome della pace, per opporsi ad una guerra che vedeva il “colosso” scaricare su un piccolo paese tutto il suo potenziale bellico.

«Quando morì Ho Ci Min – ha raccontato Umberto Vivaldi, uno dei protagonisti che con pochi altri aveva sempre rifiutato il lavoro alle armi – con altri compagni di lavoro decidemmo di fare qualcosa di clamoroso come testimonianza contro i bombardamenti del Viet Nam del Nord. Saputo che alla calata Assab c’era da caricare materiale bellico su una nave da guerra statunitense, andammo in Compagnia e chiedemmo di lavorare. L’idea – dice Vivaldi – era quella di salire a bordo della “Jodett” per sostituire la bandiera Usa con quella vietnamita».

La «squadra» era composta di «fegatacci». Di coraggio ne occorreva molto: la nave era «territorio americano», ed a bordo gli ufficiali tenevano alla cintura – non per figura – pistole che sembrano cannoni.

«Tutti – la parola è tornata a Umberto Vivaldi – volevano assolvere al compito della sostituzione della bandiera. Alla fine la spuntai io. Era il tramonto. Muovendomi come un gatto, arrivai al pennone a poppa e tolsi la bandiera Usa e la nascosi sotto le gomene; poi, da sotto la camicia presi quella vietnamita e la issai sul pennone. L’azione fu “fotografata” da dietro una rete da Franco Suich. La bandiera vietnamita sventolò per circa un’ora. Quando gli ufficiali americani scoprirono la cosa, successe il finimondo; tutti i portuali furono presi praticamente prigionieri. Arrivarono il comandante di Camp Darby, i carabinieri, il questore… rivolevano la bandiera ad ogni costo. Arrivò anche il “console” Italo Piccini. In sostanza, si rivolse a tutti quei caporioni e disse: o liberate i miei portuali e li mandate a casa; o li liberate e li fate continuare a lavorare o fra venti minuti vi trovate qui mille loro compagni. La cosa – racconta Vivaldi – finì dopo poco, quando la bandiera americana fu trovata dove era stata nascosta e rimessa al suo posto».

Dunque, missione compiuta? «Per niente: o perché non aveva funzionato la macchina o perché non aveva funzionato il fotografo, non era venuta neppure una foto. Non c’era cioè la documentazione da passare ai giornali. Così che era come se non fosse successo niente. Ma non ci arrendemmo. Si decise di ripetere l’operazione su un’altra nave americana, la “Export Commerce”. Andò bene. Operammo lo stesso gruppo; la sostituzione la feci io forte dell’esperienza precedente. Unica differenza: tutto fu documentato con le foto di due cronisti di Paese Sera. Finirono sui giornali nazionali della sinistra».

 

 

4 Comments

  1. Ivo ha detto:

    Bel ricordo del tuo articolo

  2. Claudio Massimo Seriacopi ha detto:

    Grazie Mauro,
    per questo bel ricordo di Franco Carnieri, grande cronista del Tirreno!

  3. Massimo Bianchi ha detto:

    Un bel ricordo.Avevamo una diversa visione politica,ma la coerenza ci univa.Un bravo giornalista e un bravo compagno .Una stagione ormai lontana difficilmente ripetibile.Saluti

  4. Giovanni Golino ha detto:

    Dalla parte del più debole!

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