Un piccolo libro fuori commercio di Luigi Bianchi, un signore del giornalismo: racconta come è scappato dalla poltronissima più ambita (gli offrirono subito soldi e vicedirezione) nell’era in cui la P2 voleva conquistare il giornale. Il filo nero non porta solo a Gelli, va molto più lontano: al di là dell’Atlantico
di Mauro Zucchelli
«Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». È il teorema di Agatha Christie. Ma Luigi Bianchi dev’essersi chiesto: e se gli indizi sono cinque, sei, sette e nemmeno li conti più? Con una differenza: Christie scriveva gialli e faceva risolvere a Poirot qualsiasi bega; Bianchi era in quegli anni uno dei “colonnelli” del “Corriere della sera” e per il principale quotidiano italiano decifrava la scena politica. Anzi, ne era il gran signore, visto che guidava l’organizzazione dei giornalisti parlamentari. Eravamo, chi ha almeno sessant’anni lo sa, fra la fine del centrosinistra e l’inizio del Caf, fra la stagione delle stragi di stato e l’assassinio di Aldo Moro, fra il “tintinnar di sciabole” del piano Solo e il “piano di rinascita” di Licio Gelli (passando per il tentato golpe del principe Junio Valerio Borghese misteriosamente rientrato in extremis).
Gli indizi sono numerosi e lui – che se n’è andato per sempre, novantacinquenne, nel febbraio di tre anni fa – li elenca in un piccolo libro che ha lasciato come una sorta di testamento umano (e privatissimo) alla famiglia, e la famiglia ha fatto bene a pubblicare. Anzi, benissimo. Quel libro è una edizione fuori commercio: si intitola “Briciole” e i più curiosi possono trovarlo nella biblioteca livornese dei Bottini dell’Olio. C’è arrivato a quarant’anni esatti dall’intervista-clou di Licio Gelli a Maurizio Costanzo pubblicata dal Corriere.
Non posso dimenticare tutta la passione con cui sottolinea l’amore per il giardinaggio o l’attenzione alla filosofia: come se avesse attraversato gli anni più complicati della vicenda politica made in Italy come un tale che per gli accidenti della storia si era trovato a raccontarla dalla prima linea ma in realtà aveva il cuore fra i libri e i fiori.
Lo racconterò qui facendogli un torto: lo riporto al mestiere che ha fatto e che lo ha tenuto in certo qual modo prigioniero. Ma quel libro minuto è, senza che lui ci mettesse ombra di prosopopea, una testimonianza del baratro sul quale abbiamo ballato.
Prima di farlo, però, devo dire che Bianchi – per un decennio direttore del Tirreno a partire dal 1983 – è stato il direttore (con Livio Liuzzi al fianco) che mi ha assunto al giornale, dopo dodici anni di precariato: senza conoscermi granché, salvo quel che scrivevo nella cronaca guidata da Gigi Casini e nelle pagine culturali che avevano come responsabile Federico Buti (e Franco Carratori vice); senza cercare il pedigree per me che ero figlio di operaio metalmeccanico. E, per giunta, senza nemmeno l’immancabile pistolotto sul mestiere al momento in cui mi hanno messo sotto il naso l’agognato contratto da firmare, finalmente.
Ma chi era davvero l’ho scoperto tanti anni più tardi. Poco prima di lasciare il suo e il mio giornale: cioè quando mi è arrivato fra le mani quel piccolo libro di cui dirò. Il racconto “dal di dentro” di quel che la sua collocazione professionale l’aveva portato su uno dei nervi sensibili della mutazione antropologica dei poteri in quel volger di anni.
Gli indizi, dite voi? Eccoli.
Il primo riguardava un diktat del direttore: una intervista di peso a una mezza figura in casa democristiana: parlamentare navigato, ce l’aveva fatta ad assurgere allo strapuntino di sottosegretario (e soprattutto era abilissimo a districarsi negli equilibri del sottobosco scudocrociato spicciafaccende) ma, insomma, non era un tipo che valesse così tanto spazio sul primo giornale nazionale. Però, negli archivi del “Corriere” si trovano a più riprese pezzetti inutili su quel che pensava: proprio questo la dice lunga su quanto questo deputato contasse dentro la macchina del “Corriere”. Proprio perché erano pezzi inutili.
Il secondo tassello del mosaico riguarda una richiesta analoga: stavolta è per il nuovo capo di stato maggiore della Difesa. L’annuncio della nomina va in bella evidenza in prima pagina con una “bio” che è quasi una agiografia tant’è positiva: figurarsi che invece anni prima il giornale aveva registrato le perplessità di averne fatto il numero uno della Marina militare, visto che era «diventato ammiraglio a tre strisce solo in terza valutazione».
Nell’uno come nell’altro caso nota un mix fra imbarazzo e arroganza da parte del direttore nell’ordinargli l’articolo. Soprattutto gli pare una cosa strana perché ha imparato che quel direttore sa valutare bene l’attenzione agli occhi dei lettori, e qui si sta parlando di pezzi di nessun interesse. Cosa gli risponde? Sono amici dell’editore, devi farlo.
Il terzo episodio che Bianchi cita ha a che fare con il fatto che il direttore chiede a un giovane cronista politico di talento un pezzo sul nuovo stile delle campagne elettorali a caccia di consenso con modalità più moderne. All’ultimo tuffo il pezzo viene dimezzato ed era ormai in pagina. Niente di che, nei giornali capita di aggiustare la pagina anche in zona Cesarini. Ma per cosa? In tipografia arriva dall’alto il diktat che bisogna trovar posto a un intervento di Gustavo Selva, anima della destra anticomunista più aggressiva. E siccome Bianchi ne chiede il motivo, gli dicono che quel pezzo su Selva andava messo in ogni modo. Solo che la decisione non è del direttore bensì dell’amministratore delegato, e qui le cose si fanno strane perché un amministratore delegato taglia i conti, non i pezzi. Qualcosa non torna, e questo qualcosa ha a che fare con il Potere e con il Palazzo.
Ce n’è abbastanza perché Bianchi decida di mettersi a fare il suo mestiere in primo luogo per capire dov’è finito il suo “Corriere”. Da Indro Montanelli gli arriva una soffiata: gli dice che sta arrivando in plancia di comando la destra bavarese guidata in quegli anni da un tipino come Franz Joseph Strauss. Anziché bersela, cerca riscontri: lo fa con Amintore Fanfani che sa avere agganci confidenziali solidi in quel mondo. No, loro non c’entrano, dice il leader dc.
L’intuizione giusta gliela offre una “signora dei salotti”, in quella Roma che pare la copia della “Grande Bellezza”. Lei è la regista di quest’andirivieni di pubbliche relazioni e gli racconta che Tassan Din, che al “Corriere” ha preso a fare il bello e il cattivo tempo da quando è amministratore delegato, non conta granché. E stila una personale gerarchia delle genuflessioni: Tassan Din si genuflette a Ortolani, tutti e due in ginocchio se c’è anche Gelli, ma se compare “Giulio” «si stendono tutti come zerbini». Di Sorrentino in Sorrentino: eccoci al “divo Giulio” che, lei non lo dice, ma tutto sembra far capire che è Andreotti, manco a dirlo.
Si potrebbe rientrare nello schema standard della gerarchia dei poteri occulti che dominano sul Bel Paese. In realtà, ad esempio sulla figura di Franco Di Bella, a quel tempo direttore del “Corriere”, Bianchi esce dai luoghi comuni: niente “mostrificazione”, anzi per Franco Di Bella spende parole di stima («il miglior cronista mai incontrato in decenni di attività», però aveva difficoltà nel leggere la politica e aveva bisogno del report quotidiano alle 8 di mattina da parte di Bianchi). Ma è proprio per questo che non gli quadra quel che sta facendo il “nuovo” Di Bella: l’opposto di quel che conosceva, e qui suona un altro campanello d’allarme. I campanelli poi si susseguono mettendo in fila quel che è accaduto a Aldo Moro, e soprattutto la fine che ha fatto il giornalista Mino Pecorelli. Ammazzato senza pietà.
Tira una bruttissima aria: e non solo perché il terrorismo rosso ha ucciso Carlo Casalegno (vicedirettore della “Stampa”) e gambizzato Indro Montanelli (ex “Corriere”, poi fondatore del “Giornale Nuovo”) e Emilio Rossi (numero uno del TgUno Rai). Quella è roba del ’77 sì, ma ora è stato assassinato Walter Tobagi (firma di punta del “Corriere”) e c’è stata la fine tragica di Pecorelli. Al terrorismo si somma un grumo nero e indecifrabile che non gli piace per niente.
Bianchi vuole mollare il posto da grande capo del “Corriere” a Roma. Il suo editore gli fa ponti d’oro per farlo rimanere: la nomina a vicedirettore, un bell’aumento di stipendio e una busta subito con un grosso pacco di quattrini. Ha davanti a sé uno scenario: da un lato, restare con tutti gli onori al “Corriere” e diventare uno dei grandi nomi di riferimento; dall’altra, finire a lavorare per l’editore Caracciolo alla guida di un giornale locale in provincia (“La nuova Sardegna”), lontano dai centri che contano e dalla prima fila. I boss del “Corriere” glielo sbattono sul muso: rischia di finire «nell’eremo sardo» e di lavorare «con gente che io non vorrei vicina neanche di tomba».
Vi ricordate quel filo che portava alla destra bavarese e invece non era nulla? Non era giusta la risposta, ma resta la domanda: perché questi colpi di timone verso destra? Bianchi racconta un episodio minimo e sconosciuto: due chiacchiere con un cronista economico del “Corriere”, chissà forse davanti alla macchinetta del caffè. Gli dice di aver saputo che l’editore ha avuto una bella iniezione di capitali dall’Argentina. È adesso che Bianchi decide proprio di tagliare i ponti.
È vero che i capitali viaggiano a giro per il mondo: la finanza di oggi ci ha abituato al vorticoso girare di liquidità – in cerca talvolta di collocazione e, talaltra, di riciclaggio – e dunque non è detto che “Argentina” voglia dire proprio qualcosa di legato all’America Latina. Ma dobbiamo tener conto che mezzo secolo fa la globalizzazione era assai meno spinta che adesso, non c’erano i computer a gestire flussi digitali.
Vuol dire forse che i golpisti argentini stavano cercando di dare l’assalto alle centrali del Potere in uno stato-chiave dell’Occidente come l’Italia? Difficile crederlo, anche perché basterà ricordare la disfatta nella primavera del 1982 nella guerra delle Falkland: ma quella guerra era stata innescata come arma di distrazione patriottica di massa per far fronte alle proteste causate dalla dura crisi economica. Dunque, non si può dire che l’Argentina fosse una potenza economica. Ma se pensate che gli Usa aggrediscono l’Afghanistan ritenendolo “santuario del terrorismo islamico”, cosa dovremmo di quella seconda metà degli anni ’70 in cui gran parte dell’America Latina era sotto il controllo di spietate dittature militari?
Questa provenienza di capitali che vanno all’assalto del “Corriere” richiama alla memoria il fatto che i vertici della P2 avevano forti coperture in Argentina: Gelli aveva passaporto diplomatico di quel Paese e la P2 aveva fra i propri membri due degli esponenti del direttorio che affiancava il generale Videla nello straziare gli argentini.
Ho trovato un indizio “strano”, anche là dove meno te lo aspetteresti: l’ha detto Luigi Bianchi che se n’è andato ma lo ripete anche Franco Di Bella, il brillante cronista che resta a fare il direttore del “Corriere” sotto la cappa della P2. In un libro pubblicato da Rizzoli l’anno dopo la sua uscita di scena (“Corriere segreto”), a pagina 271 liquida in 31 righe l’assalto di Calvi al giornale. Imbarazzante? Sì, siccome però non era un cretino, piazza lì un collegamento fra il magma velenoso attorno al “Corriere” e un tourbillon fatto di «finanziamenti segreti forniti a taluni partiti, i legami con la finanza vaticana e quella massonica d’Oltreoceano». E poi: «Quelli ancora più misteriosi con certe dittature centroamericane (quale ruolo, ad esempio, ebbe Somoza?)». Occhio, però, che il seguito non porta alla cassaforte di qualche autocrate parafascista di questo o quello stato latinoamericano. Guarda a ambienti al di là dell’Atlantico ma negli States: era «chiaramente ingaggiato negli Usa» il killer che avrebbe dovuto uccidere quel rompiscatole del vicepresidente dell’Ambrosiano; c’è un «andirivieni di ambigui e affascinanti personaggi legati alle “grandi famiglie delle due coste» (atlantiche).
L’hanno chiamata “operazione Condor” ed era la diga eretta in America Latina contro l’avanzata dei “rossi”: è stata inizialmente vista come una “santa alleanza” fra le destre militari sudamericane, forse non è solo dietrologia immaginare che dietro vi sia stata la regia di Washington. Segnatamente di Henry Kissinger: ora ultracentenario va a tessere una sua diplomazia “personale” con la Cina (vista l’incapacità di Biden e Trump), anche allora era quello che teneva il timone nel tumultuoso trapasso fra Nixon e Ford in seguito allo scandalo del Watergate. Detto per inciso, qualcosa che dal loro punto di vista potrebbe tornare utile anche in Italia: come bastione anti-Urss è considerato il “ventre molle” in Europa. Berlinguer e Carrillo lanciano da Livorno l’eurocomunismo nel luglio ’75, con un anno e mezzo di anticipo sul battesimo ufficiale allargato alla sinistra francese: è uno strappo da Mosca, Washington non ci crede. E si prepara…
Basta alzare appena lo sguardo e ci accorgiamo che quell’angolo di America Latina era ospitale per l’ “internazionale nera”: “Colonia Dignidad” è un abisso di male il cui calderone è stato scoperchiato da un film del 2015. Per capirci: sul finire degli anni ’70 l’Argentina è in mano a una delle dittature più sanguinarie: migliaia e migliaia di oppositori o anche solo di persone poco allineate al regime vengono torturate o scaraventate nell’oceano con i “voli della morte”. Ma non c’è solo l’Argentina del golpe guidato da Videla (nel ’76): nel ’73 i militari di Pinochet conquistano il potere nel Cile governato dai socialisti di Allende, in Paraguay è dalla metà degli anni ’50 che il generale Stroessner giverna col pugno di ferro; nel ’64 l’esercito prende il potere in Brasile; nel ’71 il generale Banzer si insedia al vertice della Bolivia; in Colombia spadroneggia la repressione dei paramilitari (in tandem con la guerriglia); in Uruguay il potere è in pugno a un regime dittatoriale e via elencando. Senza contare che a metà anni ’80 le informative dell’intelligence brasiliana segnaleranno che gli interessi della P2 si erano spostati in parte al Brasile…
Coincidenze? Fasi politiche che per un capriccio del destino corrono in parallelo? Forse. Fatto sta che – lo dice la relazione di minoranza – un alto funzionario di polizia, iscritto alla loggia di Gelli e già noto alle cronache per il pasticciaccio delle indagini sulla morte di Luigi Tenco, ricorda alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 che uno dei responsabili regionali della loggia gli confidò che, al di fuori dell’Italia, era l’Argentina il Paese di riferimento per la loggia supersegreta. Con tre sottolineature: 1) Gelli era il factotum di Isabelita Peron, la vedova del leader sudamericano; 2) il banchiere Roberto Calvi aveva stabilito forti collegamenti finanziari nel suo impero fra l’Ambrosiano italiano e le controllate argentine; 3) Gelli e Calvi erano in grado di condizionare la vita politica argentina. Non solo: nella relazione di maggioranza si segnala che, in parte anche millantando peso politico, Gelli aveva avuto un ruolo di rilievo nel ritorno al potere di Peron e era consigliere economico dell’ambasciata argentina in Italia.
Non era, però, solo il legame affaristico con un Paese in cui gli “amici degli amici” avrebbero consentito a Gelli di fare tutto quel che voleva. Proprio la situazione sull’orlo del precipizio, con “squadroni della morte” di militari e la lotta armata della sinistra più radicale, di fatto trasforma l’Argentina – ma un po’ tutte le dittature latinoamericane di questo periodo – in un pozzo senza fondo e senza regole. Obiettivo: avere uno stato “amico” sulle grandi rotte finanziarie internazionali così da utilizzare lo schermo istituzionale di un apparato statale per coprire spericolate manovre che coinvolgevano anche la finanza vaticana.
Cosa significhi lo spiega bene una piccolissima storia minore che ho rintracciato su una pagina del “Corriere” di nove anni fa: è la storia di un quasi-desaparecido, si chiamava Victor Basterra e stava per essere inghiottito dalla “macchina della morte”. Si salva perché è un mago del fare i passaporti falsi e gli alti papaveri del regime militare argentino inviati direttamente dall’ammiraglio Massera, un mammasantissima della dittatura, lo “invitarono” a preparare quattro documenti con la foto di un tizio. Quel tizio in Argentina lo conoscevano tutti più che in Italia: era Licio Gelli, se ne sarebbe servito perché in Italia erano state scoperte le liste segrete. Lo racconta Antonio Ferrari ricordando che la dirigenza del “Corriere” verrà travolta dallo scandalo P2 ma dal Sud America il corrispondente Giangiacomo Foà aveva indicato al suo giornale quel che stava succedendo. Inascoltato, anzi minacciato.
Caro Mauro, la ricostruzione di Bianchi è certamente interessante. Credo però per comprendere sino in fondo il grave episodio della P2, di cui la prima vittima è stata la massoneria, bisognerà attendere l’apertura degli archivi degli Stati Uniti. Nel disegno che fu certamente anticomunista, vi sono ancora molti punti inesplorati .Peraltro i finanziamenti esteri alla politica italiana sono stati tradizionali. Vedo che pochi si ricordano il massiccio intervento americano in favore della DC e il lungo aiuto che l’Unione Sovietica dette al PCI. Finanziamenti che sono andati nel oltre il 1975. Il GOI ha pagato duramente la stagione della P2 e anche oggi questa è la prima domanda che ci viene rivolta. La risposta più convincente venne data dal GM degli anni 90 quando disse “che la P2 stava alla massoneria come le brigate rosse al comunismo”. La seconda te la dico per curiosità è “perché nel GOI non ci sono le donne”. Comunque avendole vissute queste amare vicende rimando fiducioso che la Storia prima o poi metterà al pulito l’intera verità. Naturalmente per noi è stato un pesante vulnus che in più occasioni ci ha portato a riflettere che i nostri meccanismi non sempre ci hanno riparato ga guasti come questo. Saluti. Massimo ________________________________