Quattro piccoli di una famiglia rom muoiono nell’incendio della loro baracca a Livorno: sono passati 16 anni, il cordoglio della città è stato quel che è stato (scarso, compreso il mio). La Chiesa locale aveva mostrato solidarietà ma il reggente di allora l’ha pagata cara, la sua carriera è stata stroncata per aver accolto i funerali (ortodossi) nel duomo (cattolico)
di Mauro Zucchelli
C’erano una volta i giornali in cui i cronisti tiravano tardi fino all’ultimissima ora utile per andare in stampa: anche se in provincia non succede mai niente. Cosa lo fate a fare? Me lo disse un grande capo già tanti anni prima che le chiusure venissero davvero anticipate a orari diciamo così inconsueti, e capii che era l’inizio della fine.
Quella sera eravamo rimasti in tre: con me in cronaca di Livorno c’erano due colleghi con cui ho condiviso parecchie nottate (e parecchia vita) in redazione al “Tirreno”: l’uno era Alessandro Guarducci e l’altro Luciano De Majo. Mezzanotte e mezzo, ultimo giro di nera giusto per sentirsi ripetere, come previsto dal grande capo, che «tutto tranquillo» e «per voi stanotte nulla». Invece no: si capisce subito che nella caserma dei vigili del fuoco c’è una emergenza. Ma cosa? «Richiama». Un pezzetto per volta salta fuori che una squadra è sotto il ponte di Pian di Rota per un incendio. Dov’è il problema: solite sterpaglie, no? Dovrebbe essere una baracca. «Ma chi vuoi che ci sia a quest’ora in una baracca in mezzo al nulla?». «Scusa se richiamo, chiedo per scrupolo: c’era mica un clochard dentro? Ferito?».
A questo punto si contano i minuti: più avanti cominceranno gli anni in cui il taglio dei costi porterà all’eliminazione del centro stampa livornese e a affidarsi a quello del gruppo della “Nazione” a Firenze, ma a quel tempo la rotativa era ancora quella del “Tirreno” a Livorno in zona Picchianti, avevamo margini di flessibilità maggiori (per lo scrutinio delle elezioni importanti capitava di andare avanti fin quasi all’alba). Però non si può tardare comunque oltre una certa ora perché al mattino prestissimo devi essere con il giornale in edicola: ormai bisognava decidere se era un fatto di importanza tale da riaprire una pagina per inserire la notizia. Magari mezza pagina o un titolo a quattro colonne se l’incendio si fosse avvicinato a qualche capannone industriale.
Ma quella notte succede molto ma molto di più: la baracca non è vuota, ci sono forse due bambini dentro, anzi probabilmente quattro. Sì, tutti morti. Ma non ci si capisce niente: di adulti non c’è nessuno, i genitori non si trovano. Anzi, no o forse boh: sono stati visti due tip, un po’ male in arnese e alquanto disperati, che poi sono spariti. Come mai?
Luciano e Alessandro mettono insieme i particolari per ricostruire la storia, gli dò una mano per cercare riscontri rapidi, buttar giù qualcuno dal letto, trovare dettagli. Ci scambiamo quel che sappiamo, a me tocca il pezzo d’appoggio sul mistero di queste due “ombre” attorno alla baracca, poi fuggite nella notte. “Invisibili”, com’è stata la loro esistenza.
Quel 10 agosto mi ha segnato. Ma a metà: non sono poi molto diverso dal resto dei livornesi per i quali il problema principale era tutt’al più se con un lutto del genere – quattro anime innocenti di povericristi martiri già nell’infanzia – si poteva fare o no Effetto Venezia. Il grande cuore di Livorno ridotto a una nocciolina, e io devo smetterla di inventarmi indignazione: sono anch’io così. E, padre di due figli a quel tempo ragazzi anche loro, io potevo rassicurarmi: sono morti perché i loro genitori li hanno lasciati soli, io non lo farei mai, figuriamoci. So come si fa il babbo, io. E allora questi derelitti crocifiggiamoli più di quanto abbia già fatto la loro esistenza.
Mi è tornata in mente questa cosa (e questa riflessione) adesso che scocca il 16° anniversario di quella sciagura. È riapparsa a galla e, incredibile a dirsi le sinapsi si sono riconnesse più velocemente del solito muovendosi per conto loro: un pezzo di ricordo dopo l’altro, un flash a distanza di mesi dall’altro e talvolta anche di quattro-cinque anni. Per aprire un’altra storia agganciata a quella dei bambini rom: quella dell’ultimo abbraccio al momento del funerale.
Intanto perché, diversamente dal solito con le esequie all’indomani della morte, qui siamo in presenza di un qualcosa che passa dagli accertamenti dell’autorità giudiziaria su eventuali responsabilità: è una cosa di straordinaria civiltà, dice che ciascuno di noi è talmente importante, qui e ora, nell’Occidente opulento e diseguale, che non può morire senza esser certi che non sia stato per morte violenta. Al tempo stesso, però, si allunga lo strazio: in questo caso, un mese. E poi: come fare a dare l’addio a questi quattro piccoli in modo adeguato?
Facciamoli in duomo, l’edificio religioso al centro della città: una sottolineatura dell’importanza che per tutta Livorno vuol avere questo lutto; un luogo abbastanza grande per contenere il cordoglio, con la comunità dei nomadi che si sta mobilitando.
L’idea, mi ricordo, salta in testa a don Paolo Razzauti, che sta reggendo pro tempore la diocesi nel lunghissimßsso interregno fra l’uscita di monsignor Coletti (mandato a Como) e l’arrivo del nuovo vescovo (Giusti). Sembra sacrosanto. Ma non è così semplice: questa comunità rom non è di religione cattolica mentre la cattedrale è consacrata come tale. Però non sono nemmeno così lontani: sono ortodossi, dunque appartengono al ceppo cristiano.
Se la guardiamo dal punto di vista di quel che ci si può aspettare, non c’è dubbio che chiunque in una fase di tal “incertezza ecclesiastica” si metterebbe allineato e coperto. Tante belle parole di circostanza ma il funerale fatevelo laggiù al palasport o dove volete voi: sono gli anni in cui la gerarchia ecclesiastica si rinserra al calduccio dei valori non negoziabili e cerca anzi che plasmino la società là fuori.
Ma don Paolo ha come nickname Libeccio e deve aver sentito che c’è da dare una testimonianza: aprire agli “zingari” le porte della chiesa più importante per dir loro che Dio piange con loro il loro dolore, non importa con quale nome chiamino il Creatore e se è lo stesso modo con cui lo chiamano don Paolo e i “padroni” di quella chiesa così grande. Mi conferma un amico monsignore da Roma che anche lui sapeva che don Paolo, in qualità di amministratore diocesano, cioè un reggente ad interim, ha chiesto conforto all’ex vescovo livornese Coletti e all’ex arcivescovo pisano Plotti, ed entrambi l’hanno sostenuto. Del resto, sono già mesi che la chiesa cattolica della Misericordia è stata data in affidamento agli ortodossi rumeni perché possano pregare. Non è forse vero che con Ablondi Livorno è stata la patria dell’ecumeni dell’entourage di papa Ratzinge?r. Più precisamente: le cronache riportano che monsignor Filoni, sottose gretar io di stato nell’era Ratzinger, si fa avanti con una telefonata: vuol porgere personalmente le condoglianze a nome di Benedetto XVI, addolorato per la tragica morte dei quattro bambini nel rogo di Livorno.
E così accade quel che è bene che accada: il funerale dei quattro bimbi rom viene celebrato in cattedrale ed è il momento più alto di un abbraccio della città che, l’ho detto, resta fermo a metà. Un po’ no, anche in cattedrale non c’è nemmeno lontanamente non dico la folla di Natale ma nemmeno quella del Corpus Domini o del Mercoledì delle Ceneri. Ecco, la Chiesa cattolica quel giorno è stata la buona coscienza della città multireligiosa e multietnica, della Livorno senza ghetto. Anche se un bel pezzo di noi (e di me) si è girata dall’altra parte. Insomma, ha dato testimonianza di quel Cristo che ha detto di esser venuto a farsi ammazzare in croce per difendere gli ultimi fra gli ultimi.
Pensate che a don Paolo abbiano detto bravo. No, anzi uno dei cardinali più importanti in Vaticano – e segnatamente quello che si occupava delle nomine dei vescovi – gli fa una bella filippica: non avrebbe dovuto azzardarsi a far qualcosa del genere. Cambia anche il nunzio e anche lui gli fa la ramanzina. Tradotto: ricordo di aver se’guito passo dopo passo il toto-nomina e di aver azzeccato in anticipo l’arrivo di don Simone Giusti, segnalandone il lavoro al fianco del cardinal De Giorgi nell’Azione Cattolica che veniva riportata nei ranghi dopo il ciclone Bindi. Fino a un certo punto il tam tam delle mie fonti nella nomenklatura episcopale metteva don Paolo nella terna dei futuri vescovi, poi d’improvviso sparisce. La chiave di lettura è una: a don Paolo hanno fatto pagare la scelta di aver accolto in cattedrale il funerale dei piccoli rom e il dolore delle loro famiglie senza badare se erano rom e senza preoccuparsi dell’identikit della loro religione. Ve l’immaginate se fosse accaduto con papa Francesco? Quei cardinaloni sarebbero stati mandati a spegnere i lumini in sacrestia.
E don Paolo? Per quanto ne so, gliel’avevano promesso un bello strapuntino a Roma a occuparsi di qualcosa che gli avrebbe consentito di ottenere prebende e onore. Come Bartleby di Melville, credo abbia detto qualcosa del tipo: avrei preferenza di no. Di sicuro c’è solo che è rimasto qui fra noi e che la sua pagina social è diventata una “piazza” frequentata con passione anche da chi in chiesa ci mette piede poco o punto. Ma questo forse è già un altro discorso. O forse no: è sempre lo stesso.
👏👏👏✊🏻
Grazie, Zucchelli. Ricordo-testimonianza accorata, preziosa per contenuto e per la sincerità più unica che rara.
(Mi piacerebbe sapere se e come il vescovo Giusti in seguito con p. Razzauti toccò l’argomento)