Cosa si nasconde dietro l’incredibile shopping di campioni del pallone fatto dalla lega saudita, oltre agli investimenti kolossal con cifre del tutto fuori mercato per far saltare il banco in tutti i principali sport. E non è un gioco
di Mauro Zucchelli
In porta Yassine Bounou alias Bono, portiere afro-canadese ex Siviglia (che a guardia della rete del Marocco è stato una delle rivelazioni ai mondiali in Qatar), oppure Edouard Mendy, numero uno ex Chelsea (che ha in bacheca anche una Champions League). Entrambi poco più che trentunenni.
Una robusta retroguardia ad alto tasso di ficisità presidiata, come centrali, da Kalidou Koulibaly, 32 anni, anch’egli in forza al Chelsea ma soprattutto al Napoli, e dall’ex giallorosso romanista Roger Ibanez, 24 anni, brasiliano della zona di Porto Alegre, magari alternandosi con Ghislan Konan, difensore ivoriano che si è fatto notare in Francia nel Reims. I terzini? Merih Demiral, 25 anni, turco ma ben conosciuto dalle nostre parti (Sassuolo, Juve e soprattutto Atalanta) e Alex Telles, brasiliano, 31 anni, curriculum fra Inter, Man Utd e Siviglia, paragonato forse con un eccesso di generosità a Roberto Carlos.
Per il centrocampo i nomi sono quelli di Sergej Milinkovic Savic, 28 anni, serbo di Catalogna, lanciato nel firmamento calcistico dalla Lazio; di Fabinho, 30 anni, nazionale nel suo Brasile e parabola fra Real, Monaco e Liverpool con tanto di scudetto inglese e titolo europeo; di Ruben Neves, 26 anni, portoghese, “faro” del Wolverhampton in Premier, non del tutto sbocciato se nel 2014 lo consideravano uno dei dieci migliori talenti del Vecchio Continente; di Seko Fofana, 28 anni, certificato di nascita targato Parigi ma naturalizzato ivoriano, giovanili nel Man City, poi una traiettoria che passa anche per l’Udinese prima di arrivare a Lens in Belgio. Come possibili alternative troviamo l’ex interista Marcelo Brozovic (30 anni), N’Golo Kante (32 anni, ex Chelsea e ex Leicester) e Franck Kessie (27 anni, un passato anche in Atalanta, Milan e Barcellona).
Per l’attacco non c’è bisogno di far le presentazioni perché si tratta di superstar: a cominciare da Neymar, 31 anni, soprannome “O Ney” che fa rima con quello di Pelè, provenienza Barcellona e il Psg dei fuoriclasse, e da Karim Benzema, “pallone d’orissimo”, 35 anni, per quasi tre lustri al Real Madrid (con oltre 350 gol in quasi 650 partite). Ma gli altri non sono certo panchinari: basti dire che stiamo parlando di Sadio Mané (31 anni, sei stagioni al Liverpool con una Champions League e una Supercoppa europea), Allan Saint Maximin (26 anni, ultimo indirizzo precedente Newcastle) più Malcom (26 anni, curriculum con Barcellona a Zenit San Pietroburgo) e Roberto Firmino (31 anni, brasiliano come Malcom, una bandiera per il Liverpool con più di 80 gol con la maglia dei Reds). Come rincalzi di lusso: Riyad Mahrez (32 anni, 43 gol nel Man City e quasi altrettanti nel Leicester), Habib Diallo (28 anni, ex bomber dello Strasburgo in Ligue 1), Aleksander Mitrovic (28 anni, punta del Fulham nel campionato inglese).
In realtà l’elenco potrebbe continuare: abbiamo lasciato in disparte figure come Juan Miguel Jiménez López (Juanmi), trentenne attaccante del Betis, o Jota, ventiquattrenne ala del Celtic e del Benfica, oppure Moussa Dembelé, alle spalle gol per Atletico Madrid, Olympique Lione e Celtic, o anche Jordan Henderson, capitano della nazionale inglese e pilastro del Liverpool, mvp della Premier nel 2020.
Campioni da shopping
Cosa hanno in comune? Fino a poche settimane fa giocavano in uno dei cinque grandi campionati di calcio europeo (soprattutto nella Premier inglese), dalle prossime settimane li vedremo tutti nella Saudi Pro League, il campionato dell’Arabia Saudita, una realtà calcistica che nel ranking Fifa è classificata al 54° posto nel mondo, cioè sotto il Malì e appena sopra la Finlandia. Però non facciamo tanto i furbetti: gli azzurri dell’allora ct Roberto Mancini sono stati sbattuti fuori dai mondiali del Qatar dalla Macedonia del Nord: parliamo di una nazionale di calcio che “costa” teoricamente la metà del Monza e un decimo del valore di mercato degli azzurri. Nella geografia del calcio mondiale sta in 68° posizione: sopra l’Iraq ma sotto le isole di Capo Verde (grandi quando la provincia di Firenze ma con metà abitanti). Possiamo chiamarlo il nulla? Sì, è il nulla, eppure…
Alla lista dei calciatori approdati alla corte del pallone saudita – non sono affatto solo dinosauri a fine carriera, basta guardare le età – non abbiamo fin qui aggiunto il nome forse più famoso di tutti, quello di Cristiano Ronaldo, solo perché il contratto è stato firmato l’antevigilia di Capodanno. In realtà, se mettessimo nel conto anche lui, arriveremmo a una rosa che vale 651 milioni di euro, secondo Transfermarkt, un borsino che vale come una sorta di “bibbia” del settore. È questo il valore del flusso dei principali giocatori che hanno fatto la valigia e se ne sono andati a giocare per il campionato saudita: solo parlando dei principali e mettendo nel conto il valore attuale (25 milioni per Sadio Mané che nel 2019 era quotato 150, idem per Neymar ora a 60 ma nel 2018 valeva tre volte tanto, 15 per Ronaldo che alle soglie dei trent’anni era a bilancio per 150).
Per avere un paragone: quel valore-quotazione di 651 milioni per i 27 nella nostra “rosa” degli ultimi arrivati nel campionato saudita super di gran lunga quello della rosa di qualsiasi squadra esistente in Italia (575 milioni il Napoli, 552 il Milan, meno di 500 l’Inter), in Bundesliga supera questo standard solo il Bayern, in Spagna solo Barcellona e Real, in Premier siamo quasi al livello del Tottenham.
Parlano altri numeri: dei 25 giocatori più importanti di tutto il campionato dell’Arabia Saudita, uno è arrivato due anni fa (è il brasiliano Talisca passato dal calcio cinese), uno è Cristiano Ronaldo che ha firmato poco dopo lo scorso Natale, gli altri 23 hanno messo nero su bianco questa estate la scelta per una delle quattro-cinque società che dominano la scena. Di più: tutto l’ammontare teorico dei valori (opinabile) dei giocatori dell’intero campionato saudita arriva a 924 milioni di euro. Quasi triplicato rispetto allo scorso campionato: non arrivava a 350 milioni (e dieci anni fa era poco più di 110, l’equivalente della nostra serie D). Dal punto di vista economico, il campionato saudita è ancora lontano dal valore complessivo delle rose delle grandi leghe europee (attorno ai 4 miliardi i campionati di Italia, Francia, Spagna e Germania, più di 10 la Premier League inglese), e tuttavia dal nulla siamo già a un passo da quel che il calcio “vale” in realtà dove è consolidato da decenni: appena meno dei numeri che fanno il campionato turco e portoghese, più di quel che si registra in Russia e in Messico o addirittura in Argentina).
L’offerta choc a Mbappé
Bisognerebbe aggiungere poi la proposta choc a Kylian Mbappé, il fuoriclasse ventiquattrenne francese: un pacchetto non lontano dal miliardo di euro per convincerlo a giocare all’ombra dei minareti sauditi. Per ora il tentativo è andato a vuoto: anche una superstar sa che i suoi colpi più straordinari dipendono anche dalla qualità di chi gli sta intorno, dalla velocità delle ripartenze, dalla capacità di leggere davvero i movimenti senza palla, dagli assetti decisi dal mister. In una parola: dalla cultura calcistica. Sì, proprio cultura, anche se non si fa sui libri.
Per ora ha resistito anche Victor Osimhen, lo straordinario bomber del Napoli. Per capire con chi abbiamo a che fare: a Napoli ora il suo stipendio salirà a sette milioni all’anno, i sauditi gli offrono 175 milioni se firma per cinque anni. Per Benzema si parla di un ingaggio da 200 milioni all’anno.
Dell’ex ct azzurro Roberto Mancini non si sa, ma si sono già in panchina figure di rilievo: Nuno Espírito Santo (ex delle panchine di Tottenham, Valencia e Porto) , Cosmin Contra (ex ct della nazionale rumena), Czeslaw Michniewicz (in passato selezionatore della nazionale polacca), Jorge Jesus (ex mister del Benfica) e soprattutto Steven Gerrard (ex bandiera del Liverpool prima in campo e poi fra i tecnici delle giovanili).
Le superstar e poi il vuoto
Il problema è lo scarto netto fra le star importate in massa questa estate e la grande massa dei giocatori locali: il campionato è disputato da 18 squadre, i giocatori tesserati sono più di mezzo migliaio (530, il 27,7% dei quali sono stranieri), hanno un valore medio attorno a 1,9 milioni di euro e una età media appena sotto i 28 anni. Così come non esistono più le mezze stagioni, nella Saudi Pro League non ci sono molti giocatori di medio calibro e praticamente non ci sono squadre di medio livello: un poker di società hanno una rosa che vale più di 100 milioni (Al Hilal, Al Nassr, Al Ahli e Ittihad Club), un paio sono sui 40-45 milioni di valore, tutto il resto – e cioè due terzi delle contendenti – hanno un valore sotto i 25 milioni e, più spesso, sotto i 15. Cioè quanto una nostra buona squadra di serie D.
La reazione finora è stata: sono arrivati gli sceicchi scemi, hanno talmente tanti soldi da buttar via che si divertono a comprarsi i giocatori di calcio. Un po’ come i presidenti gonzi d’un tempo che, stufi dell’ennesima ganza e dell’ennesima supercar, si compravano una squadra di pallone. Tradotto: ben venga che si spennino questi polli, almeno finché serve a dare un centravanti in più alla nostra squadra. Un po’ come quando sono arrivati i cinesi, poi i fondi americani…
È una chiave di lettura sciocca, miope, inadeguata. Armando Sanguini, ex ambasciatore e ora senior advisor dell’istituto di ricerca Ispi, fa le lastre al giovane reggente Mohammed bin Salman: anche perché non è come qui da noi, le politiche della dirigenza Juve o di De Laurentis a Napoli non si discutono in consiglio dei ministri e non dipendono direttamente dalla premier Meloni o dal ministro Abodi. Lì sì: trattasi di monarchia assoluta in una organizzazione statuale semi-feudale in cui l’allargata dinastia regnante domina l’economia senza che nessuno ci metta becco (e chi lo fa non ha molto tempo per raccontarlo, com’è accaduto al giornalista Jamal Khashoggi, trucidato dai sicari a Istanbul). «L’obiettivo – afferma – è quello di far crescere il ruolo e anche l’influenza del suo paese. L’Arabia Saudita è gigantesca nelle dimensioni, ma in fondo non è ancora arrivata all’apice delle ambizioni che coltiva. Bin Salman sta cercando di alzare il livello di visibilità del proprio paese anche perché questo significa realizzare investimenti. Ne ha tanto bisogno pur avendo già un sacco di soldi a disposizione. Gli investimenti giganteschi, compresi quelli legati allo sport, e nello specifico al calcio, vanno in questa direzione».
Non è una strategia nata dalla sera alla mattina, e si allarga all’intera area panaraba (fin qui ci siamo limitati all’Arabia Saudita ma qualcosa del genere in senso ampio sta accadendo negli Emirati, in Qatar, in Kuwait e in Bahrein): dopo una fase iniziale di semplici sponsorizzazioni, molte delle quali sono rimaste (con il logo di Emirates, Etihad e Foundation Qatar ovunque), è arrivata quella della conquista del pacchetto di controllo di club. Principalmente inglesi.
Si inizia comprando le squadre
Ci ha pensato l’Osservatorio calcistico del Cies a tracciare la mappa degli sceicchi che si sono comprati una società di calcio in Europa: basti ricordare che il ricchissimo Fondo per gli investimenti pubblici dell’Arabia Saudita (Pif) si è preso il Newcastle. Sempre sotto la bandiera saudita troviamo pure i club dell’United World Group (in mano a Abdullah bin Musaid Al Saud, principe-imprenditore della famiglia reale di Riyad): lo Sheffield United, promosso nella Premier League inglese; lo Chateauroux, terza divisione francese; il Beerschot, serie B belga. Anche l’Almeria (in Spagna) è di proprietà saudita: in questo caso, si tratta di Turki Al-Sheikh.
Arriva dal Qatar invece la proprietà del Qatar Sports Investments, fondo guidato da Nasser Al-Khelaïfi, con un patrimonio personale di 60 miliardi di dollari e un fatturato che sfiora il mezzo migliaio di miliardi di dollari annui: in Italia lo conosciamo come il padrone di Porta Nuova a Milano (“Bosco verticale” e dintorni), ma è anche uno dei principali azionisti di Harrods, Volkswagen, Lagardere, Airbus, Tiffany e via elencando. Figurarsi che quell’investimento nel Psg si dice sia stato contrattato personalmente dal presidente Nicholas Sarkozy a cena con il principe qatariota e Michel Platini in cambio del pressing francese per far assegnare i mondiali al Qatar. Si aggiunge l’Aspire Zone Foundation (presidente Tariq Al Naama), qatariota anch’essa, che possiede sia l’Eupen nella massima serie belga sia del Cultural Leonesa, serie C iberica.
Quanto al pallone con vessillo degli Emirati il City Football Group è controllato all’81% dal fondo Abu Dhabi United Group: ha in pugno non solo il Man City ma anche squadre-simbolo in vari continenti (Mumbai City in India, Melbourne City in Australia e New York City in America), senza dimenticare vari altri club come quello spagnolo di Girona, quello belga di Lommel e quello francese di Troyes. Riguardo al Bahrein, che sappia io c’è unicamente il Wigan nella terza divisione inglese: appartiene al Phoenix 2021 Limited.
Tenete bene a mente i nomi di Tamin Bin Hamad Al Thani e di Mansour Bin Zayer Al-Nayan, l’uno del Psg e l’altro del City: hanno messo nel “motore” finanziario delle loro squadre negli ultimi cinque anni oltre 1000 milioni di euro. In tandem con operazioni e ricadute sul territorio: altrettanti gli investimenti in progetti in genere infrastrutturali o immobiliari ad alta redditività.
Non c’è soltanto il calcio. Il ciclismo vede la presenza di due grandi squadre con quartier generale (e “marchio”) sia nel Bahrein che negli Emirati: “Bahrain Victorious” (ex Bahrain-Merida e Bahrain-McLaren) è stato il team di Vincenzo Nibali e “Uae Team Emirates” è la squadra della star slovena Tadej Pogacar.
Nel gran circo automobilistico della Formula Uno i paesi della Penisola araba sono entrati con forza già da anni. A far da apripista è stato il Bahrein, un gruppo di isolotti grandi tre volte e mezzo l’isola d’Elba ma con un milione 300mila abitanti: è accaduto nel 2004, poco dopo la trasformazione da emirato in monarchia costituzionale. Almeno 150 milioni di euro per far decollare un circuito modulabile in sei assetti differenti. Da allora sono stati disputati 20 gran premi di F1, poco rispetto agli oltre cento italiani o i quasi 80 tedeschi ma già un buon numero. Cinque anni più tardi debutta il gran premio di Abu Dhabi, che già dal 2007 ospitava eventi di Formula Uno. Nel 2021 arrivano anche le gare sui circuiti del Qatar e, pochi giorni dopo, di Gedda (Arabia Saudita).
La sabbia sulla pista
Ad esempio, il circuito del Bahrein soffre il problema della sabbia appena s’alza un venticello, cercano di rimediarla “incollando” le dune intorno. Si tratta di una sorta di Disneyland della Formula Uno: non c’è solo il circuito ma poli di commercio, di svago e di turismo nel segno di quella “lasvegasizzazione” che punta a far uscire i paesi dal Golfo dall’economia del petrolio ricollocandoli in un sistema basato sul divertimento della fascia vip del globo, in particolare dell’Occidente. In tandem con il mattone: non solo residenze chic ma opere tali da farne l’avanguardia architettonica a livello mondiale, grazie alle risorse sconfinate dei fondi sovrani. Quello saudita risulta avere un patrimonio nell’ordine dei 770 miliardi di dollari, più del Pil di Norvegia e Finlandia messe insieme.
Manca qualcosa? Sì, il golf. Dagli inizi dello scorso giugno martedì 6 giugno il golf professionistico del pianeta ha come padrone Mbs, sigla che sta per Mohammed bin Salman, principe ereditario saudita. A suon di fantastiliardi buttati nel piatto ha fatto saltare per aria l’assetto consolidato attorno alla coppia di organizzatori internazionali della tradizione del golf: il Dp World Tour e il Pga Tour. Alla conquista di campioni da affiliare al nuovo polo “LIV”, quasi per intero (97%) in mano al Public Investment Fund (Pif), ve lo ricordate? Ha reclutato grandi stelle del firmamento golfistico ma, per dirne una, Tiger Wood ha fatto marameo, almeno per ora (nonostante la promessa di 600 milioni di dollari), così come Rory Mcllroy (davanti anche lui a cifre quasi analoghe). Racconta Alberto Stabile sull’ “Espresso” che per un po’ è andata avanti una “guerra civile” fra vecchi organizzatori e nuova realtà, senza lesinare i colpi sotto la cintura. Salvo che poi alla fine, d’improvviso, dopo essersele dette di tutti i colori e aver fatto “volare le mamme” e i loro “tegami”, come si diceva qui da noi fra i ragazzini non tanto vip dell’oratorio, ecco che è scoppiata la pace. Nel senso che il fondo saudita si è mangiato tutto, punto e basta: manco a dirlo, con l’esultanza di quel simpaticone di Donald Trump che fra golf e sauditi si trova come a Mar-a-Lago.
Tu chiamalo se vuoi “sportwashing”
Il report di Grant Liberty, organizzazione per i diritti umani, segnala che l’Arabia Saudita «ha speso almeno 1,5 miliardi di dollari in eventi sportivi internazionali di alto livello con l’obiettivo di migliorare la propria reputazione». Un caso di “sportwashing”, insomma: per l’associazione, attraverso «la buona reputazione delle star dello sport più amate del mondo», si punterebbe a «oscurare un record di brutalità, torture e omicidi sui diritti umani».
A quanto abbiamo già citato aggiunge tornei di scacchi, la Saudi Cup che con 60 milioni di dollari è l’appuntamento più costoso al mondo nel settore dell’ippica, si sottolinea l’accordo decennale con la Formula Una che vale «650 milioni di dollari», un supertorneo di biliardo (33 milioni di dollari), il match di boxe fra Ruiz e Joshua (per un giro d’affari di 100 milioni), un patto decennale da mezzo miliardo di dollari con la Wwe del wrestling. Proprio mentre, secondo gli attivisti dei diritti umani, la repressione del dissenso si è fatta più dura e la guerra contro lo Yemen ha causato 100mila vittime, buona parte dei quali in conseguenza degli attacchi aerei sauditi.
«Houston, abbiamo un problema»: è (grossomodo) quel che disse Jack Swigert, pilota dell’Apollo 13 che avrebbe dovuto portarlo sulla luna e invece per poco non ci lascia le penne. Perfino un tipino scafato come Marotta, gran timoniere dell’economia dell’Inter (e, prima, della Juve), ha ammesso che l’accaparramento saudita dei talenti del calcio mondiale non l’avevano previsto né lui né i suoi colleghi. «Di fatto non sappiamo ancora quali saranno le conseguenze», dice in una intervista a Sky in cui “fotografa” la situazione: sono stati «portati via dall’Europa 22 calciatori di talento» dando in cambio «alle casse dei club europei circa 700 milioni», ma questo ha «impoverito il livello sportivo» e fatto perdere posizioni «dal punto di vista della competitività economica». Lo ripete guardando in particolare al tema dei diritti tv: potrebbero esserci contraccolpi negativi per il fatto che gli arabi sono prepotentemente entrati «in uno scenario dove non erano presenti».
La “guerra del pallone”
Marco Belinazzo, che per il Sole 24 Ore segue l’economia dello sport, ricorda che gli arabi: 1) «hanno acquisito i diritti della Supercoppa spagnola e italiana imponendo un nuovo format»; 2) «l’anno prossimo ospiteranno il mondiale per club vecchia maniera e si preparano al nuovo mondiale per club a 32 che dal 2025 la Fifa ha preparato»; 3) rinunceranno alla candidatura della Coppa del mondo per nazionali nel 2030 ma solo per motivi di tempo e ci riproveranno nel 2034; 4) le indiscrezioni parlano del piano di una Superlega araba. Belinazzo, in realtà, va oltre: disegna sotto il segno del pallone una nuova “guerra dei mondi” – da un lato le democrazie occidentali, dall’altro le potenze autocratiche (area araba compresa) – che mette in palio l’«egemonia economica sullo sport più amato al mondo». Obiettivo: oltre a «ripulire la loro immagine e legittimare il potere», soprattutto «edificare un nuovo modello di società basato sull’autocrazia e su libertà limitate concesse per volontà del sovrano». Dall’altra parte, a resistere non c’è l’Europa bensì gli Usa: il campionato americano ha preso Lionel Messi e ha «oltre 60 club europei acquistati da fondi o imprenditori americani anche in vista del mondiale del 2026». Le istituzioni del calcio europeo non ci sono: anzi, «la Fifa di Infantino – dice Belinazzo – sponsorizza la crescita dell’Arabia Saudita, la Uefa di Ceferin ha in Al Kelaifi e nel Qatar un sostegno formidabile».
Parlavo prima del golf e di come il superfondo saudita abbia cercato di svuotare di campioni le tradizionali realtà occidentali del settore per poi inghiottirsele e poi diventare padrone incontrastato del campo. Le avvisaglie ci sono già: nel calcio si parla di allargare alle squadre degli “sceicchi” la Champions League. Prima che si inventino una Superlega mondiale per conto loro. Mai dimenticare comunque che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: basti pensare all’ultimo gol di Cristiano Ronaldo, che esulta facendosi il segno della croce. Un gesto da nulla: ma vietatissimo farlo in pubblico nell’Arabia Saudita, al 13° posto nel mondo per le persecuzioni di cristiani.
Nelle foto dall’alto: la presentazione del neo-acquisto Karim Benzema fra i dirigenti sauditi; Ronaldo esulta facendosi il segno (vietato) della croce; la pista saudita di Gedda vista di notte dall’alto; l’urlo di Kylian Mbappé, fuoriclasse francese
DALL’ARCHIVIO DEL BLOG
Segnalo due post pubblicati nei mesi scorsi al ritorno da un viaggio nel Golfo Persico
Ho visto il futuro e…/1: di sceicchi e di ultragrattacieli, di soldi e di fanta-architetture
Ho visto il futuro e…/2: il fascino discreto dell’autoritarismo, e l’Occidente rischia di essere il passato
I giocatori sono mercenari costosi.Una tratta di schiavi pagati profumatamente a fronte di tanti che muoiono per fuggire dalla fame,dalle guerre ,dalle pulizie etniche . C’è solo da arrossire.Saluti