Some of the stories that I'd like to print (cit. Ochs feat. Zuc)
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Istruzioni per un golpe nascosto: incidente, strage e rapimento per fermare Moro, Berlinguer e De Martino
Formidabili quegli anni dal ’73 al ’78. La figlia di Moro racconta: mio padre ridisceso in extremis dall’Italicus che poi sarebbe esploso. Sofia, un camion si schianta a tutta velocità contro l’auto di Berlinguer. Misterioso rapimento del figlio del leader socialista (con un riscatto “avvelenato” dai servizi segreti?)

di Mauro Zucchelli

C’era una volta un Paese che nel giro di cinque anni ha visto finire nel mirino di tre strane storie oscure di stragi e rapimenti tutti e tre i leader dei suoi principali partiti. Quel Paese si chiama Italia: non esiste qualcosa del genere in tutto l’Occidente avanzato. Era cinquant’anni fa, nel periodo dal ’73 al ’78, quello contrassegnato dall’avanzata delle sinistre, che si è inchiodata a un passo dall’assalto al cielo. Nel frattempo, dal ’60 per un paio di decenni si sono susseguiti tentativi di svolta autoritaria che hanno avuto come protagoniste forze occultate dentro la “pancia” delle istituzioni: almeno cinque, fra Tambroni e il piano P2 di Licio Gelli, passando per il golpe Borghese nella notte dell’Immacolata 1970, sei anni prima il “tintinnar di sciabole” del generale Di Lorenzo, nel ’74 il putsch in guanti di velluto di tipi come Edgardo Sogno.

Non basta: in quel quinquennio nel cuore degli anni ’70 si sono contate 191 vittime degli “anni di piombo” (ma il bilancio complessivo dell’ondata di terrorismo, anche al di là di quei cinque anni, fa salire a 350 i morti con più di un migliaio di feriti, cit. Bianconi).

Tutto questo accadeva in una Europa che abbiamo voluto credere in pace per tre quarti di secolo dopo la fine di Hitler nel maggio ’45 e fino all’aggressione di Putin all’Ucraina. Non è stato così. Anche lasciando fra parentesi quel che accadeva in Italia, guai a dimenticare la guerra nei Balcani negli anni ’90 (con stermini etnici tipo Srebrenica sotto gli occhi dei caschi blu) o il fatto che anche nel cuore del nostro Occidente si conducevano “guerre a bassa intensità” nell’Irlanda del Nord (contro la repressione inglese dell’indipendentismo dell’Ira: 3.500 morti, metà dei quali civili) e nei Paesi Baschi (contro l’Eta: poco meno di mille morti).

Come se ne uscì? “Comprando” consenso con l’indebitamento, cercando cioè di raffreddare le tensioni sociali con la crescita della spesa pubblica (ricordate le pensioni ai quarantenni?). Nel ’73 il debito pubblico italiano è ancora al di sotto del 40% del Pil, lo ritroveremo al 120% vent’anni più tardi con la fine della Prima Repubblica: al netto degli effetti dell’inflazione (cioè a valori parametrati sul 2022), il debito passa da circa 500 miliardi di euro di inizio anni ’70 a 1.800 alla metà degli anni ’90 mentre la crescita del Pil rallenta e poi si ferma. Dal 2000 in poi è grossomodo lì, il punto più alto l’abbiamo raggiunto nel 2007.

Ma riprendiamo il filo: non si può buttarla lì che i tre massimi leader politici di un Paese sono stati “avvertiti” in modo pesantemente personale e lasciarla cadere nel nulla. Di prim’acchito viene in mente soltanto Aldo Moro rapito e assassinato dalle Brigate Rosse nella primavera 1978, vero? Di nuovo: non è stato così.

È proprio un episodio che riguarda Moro ad aver messo in moto la mia attenzione. Qualcosa di ruzzolato nel dimenticatoio, salvo la citazione fatta da Concita De Gregorio nel 2021. Cosa? Moro solo per un caso fortuito si è salvato in extremis dall’attentato che nell’agosto ’74 ha fatto esplodere un vagone del treno Italicus in una galleria appenninica fra Firenze e Bologna. Era salito a bordo ma l’avevano richiamato e fatto scendere per andare a firmare alcune carte importanti…

Ne ho trovato traccia in un piccolo libro di una piccola casa editrice milanese, della quale vedo in catalogo le cose più varie (dalle indagini Fbi su John Lennon alla comunicazione giuridica dell’area germanica). Si intitola “La nebulosa”, lo potete trovare nella biblioteca comunale livornese dei Bottini dell’Olio (qui il catalogo: opacsol.comune.livorno.it/SebinaOpac/.do).

È importante anche perché è una testimonianza diretta: l’ha scritto Maria Fida Moro, la figlia dello statista Dc, la cui tormentata vicenda personale è rispecchiata nell’altrettanto complicata militanza politica (inizialmente nello Scudocrociato, poi Rifondazione, quindi Msi e Alleanza nazionale, dunque radicale, successivamente fra i moderati del centrosinistra, infine vicina all’area di Meloni nel 2021). Risale al 2004, trent’anni dopo la strage (e più di 25 dopo l’assassinio del padre): sei righe a pagina 196. Per quanto ho potuto trovare, ne ha dato notizia il “Corriere della Sera” in un boxino a due colonne a fondo pagina. L’aveva preannunciato poco prima dell’uscita del libro la stessa Maria Fida Moro in una trasmissione in onda su una tv locale veneta.

Qualcosa di più la stessa figlia di Moro racconta in un altro libro – anch’esso reperibile in tante biblioteche (qui il catalogo online di quelle toscane: biblio.toscana.it) o nelle librerie anche online – che Giovanni Fasanella (non proprio uno degli ultimi arrivati fra i cronisti che si sono occupati di stragismo) ha curato con Antonella Grippo per Rizzoli nel 2006. Titolo: “I silenzi degli innocenti”.

Maria Fida Moro: «Papà allora era ministro degli esteri e avrebbe dovuto raggiungerci in treno a Bellamonte, sulle montagne del Trentino dove di solito trascorrevamo insieme le vacanze estive. Era già salito sulla sua carrozza alla stazione Termini e il treno stava per partire, quando all’ultimo momento arrivarono dei funzionari e lo fecero scendere perché doveva tornare a firmare alcune carte». Lei aggiunge di aver pensato che la bomba su quel treno «avesse come obiettivo proprio lui».

In realtà, non viene creduta: forse si sbaglia, forse è la foga dell’affetto di figlia, che le fa raccontare anche di altri strani incidenti all’auto, con le gomme che scoppiano e il veicolo che va fuori strada («quel giorno con lui c’ero anch’io», «già altre volte si era salvato per il rotto della cuffia»).

Giusta obiezione 1: una strage sul treno è già un obiettivo clamoroso, possibile che volessero aggiungerci la morte di Moro quando sarebbe stato più facile colpirlo in altri momenti? Giusta obiezione 2: possibile che l’apparato di sicurezza, saputo che c’era una bomba a bordo, abbia salvato il solo Moro e lasciato morire i passeggeri? Sta di fatto che la testimonianza non è quella di un complottista stralunato bensì della figlia che aspettava il padre in arrivo lassù nella casa di vacanza.

Quanti “misteri della Repubblica” si sono aggrumati in quella vicenda. Difficile credere che il terrorismo rosso non avesse a che fare con un fermento sociale nelle fabbriche e nelle metropoli, come se fosse solo un esercito di agenti della Cia o del Kgb truccati da brigatisti. Anche senza tuffarsi per forza nei tanti libri su quegli anni, basta però forse  solo un’occhiata al docu-film di Sky su “Roma di piombo” per farsi un’idea della (limitata) intelligenza strategica delle Br quando argomentano il motivo della scelta di Moro anziché Andreotti come bersaglio o le aspettative riguardo alla reazione di partiti e istituzioni: rapimento “su commissione” magari no, semmai una capacità di visione talmente modesta da poter essere indotti a fare il lavoro sporco che ad altri avrebbe giovato assai.

Mettiamo per un attimo fra parentesi tutto quel che non si sa: compresi i dubbi sul fatto che, per dirne una, il giorno del rapimento Moro aveva cinque borse e ne sono state ritrovate tre, quelle con la roba meno scottante. Mettiamo in frigo anche i pasticciacci sulle piste investigative e sui covi sotto il naso: la gag sull’indicazione di “Gradoli” sembra presa da uno show di Aldo, Giovanni e Giacomo, a maggior ragione dopo che la moglie di Moro suggerisce di controllare se a Roma esista una via Gradoli (dove effettivamente sarà ritrovato il covo).

C’è qualcosa che abbiamo davanti agli occhi e che sembra la sceneggiatura di un film scritta giusto da complottisti senza pace. Ma Maria Fida Moro mette la vicenda di suo padre in linea con quel che è capitato al numero uno dei comunisti Enrico Berlinguer nell’ottobre 1973 a Sofia e al leader socialista Francesco De Martino nell’aprile di quattro anni più tardi: il primo si era salvato per miracolo da un gravissimo incidente stradale (la sua auto, scortatissima, era stata centrata da un camion pirata e il suo autista era morto sul colpo); il secondo era stato azzoppato dall’insuccesso elettorale del Psi e definitivamente sbattuto fuori dalla scena politica dal misterioso rapimento del figlio Guido.

In entrambi i casi si tratta di episodi rimasto tutt’altro che segreti. Il tentativo di assassinare Berlinguer, forse da parte degli 007 bulgari con il beneplacito del Kgb, è stato rivelato nel ’91 da Emanuele Macaluso, alto dirigente Pci, in una intervista a “Panorama” (e confermato da Bianca Berlinguer, figlia di Enrico, nel film di Veltroni): i detrattori dicono che l’incidente c’è stato sì ma è stato un normale scontro stradale, Macaluso puntava a “santificare” Berlinguer facendone un martire post-mortem. Solo che poi lo riducono a una spericolata gimkana di camionisti idioti. Se la Casa Bianca ce l’ha con Moro, al Cremlino non amano Berlinguer: il mondo è diviso in blocchi, ciascuno faccia il bravo e si metta in riga…

Non è tutto. Quel che è incredibilmente rimasto fuori dalla memoria è il rapimento del figlio del giurista alla guida del Psi, in quei mesi silurato dalla dirompente ascesa di Craxi. Se sul compromesso storico firmato Berlinguer in dialogo con Moro tutti pensano di sapere tutto, almeno chi ha parecchi capelli bianchi, confesso che anch’io avevo lasciato finire fuori da ogni radar il primo rapimento del familiare di un alto dirigente di partito per condizionarne le scelte politiche. Dietrologie? Mica tanto: anche la sentenza ammette che sì il sequestro è stata portata avanti da una gang di criminali comuni ma con motivazioni talmente zoppicanti che una causale politica non è affatto da escludere.

De Martino junior tornerà a casa al termine di quasi un mese e mezzo di prigionia, dopo il pagamento di un riscatto. Il leader socialista ha un ottimo stipendio da docente universitario ma non si può davvero definire ricco. La mobilitazione, insieme alla vendita di qualche piccolo bene di famiglia, porta a raccogliere la cifra chiesta dai rapitori. Ma con la “manina” di qualcuno che tanto amico non doveva essergli: alcune delle banconote provengono dai riscatti di altri sequestri.

È una “bomba a orologeria” per macchiare la fama di rettitudine che accompagna De Martino. Proprio mentre con la morte di Moro appassisce la prospettiva del compromesso storico e la solidarietà nazionale si riduce a un Pci ingabbiato nelle logiche “governiste”, ecco che viene spazzata via anche la gamba socialista. Prima dal risultato elettorale, poi dall’arrivo di Craxi (su posizioni assai meno disposte al feeling con Berlinguer), infine con l’eliminazione politica di De Martino: nel ’71 era stato il frontman della corsa di socialisti e comunisti uniti verso il Quirinale. Ci vorranno 23 scrutini per toglierlo di mezzo e, con i voti del Msi a rimpiazzare i dissidenti interni alla Dc, aprire la strada a Giovanni Leone: comunque, non c’era andato mai neppure troppo vicino, gli erano mancati sempre un centinaio di voti. Nel ’78, con i nuovi equilibri determinati dallo spostamento elettorale a sinistra del Paese, avrebbe potuto riprovarci? Ma intanto – lo dicono le carte degli archivi nazionali di Washington declassificati già nel 2004 dicono chiaro e tondo il tifo che la Casa Bianca di Nixon e Kissinger hanno fatto alle elezioni del ’71 per arrivare alla soluzione Leone contro Moro e contro le sinistre. Solo tifo, tutto qui?

Non bisogna dimenticare però che il risiko della politica non è solo un teatrino di schieramenti: il vento del voto gonfia le vele di questa o quella forza, a seconda della capacità di rappresentare i propri blocchi sociali di riferimento, la propria “gente”. È possibile dunque che fosse finita la stagione dell’avanzata delle sinistre così come non ho avuto risposta quando, nel 2016, in un dibattito con Romano Prodi (alla guida del governo più di “sinistra” che l’Italia abbia avuto: lui, non D’Alema), avevo chiesto se era finita dentro le pieghe della società l’era dell’Ulivo, cioè l’arcipelago di tasselli che lottavano per l’avanzamento delle riforme sociali. Forse non c’era più niente da redistribuire, forse le ragioni della globalizzazione avevano così stregato il centrosinistra moderato da allontanarlo dalle periferie e dalle nuove figure proletarizzate.

Dopo lo sfilacciamento dell’Ulivo fra le mille anime interne, è nata questa idea idiota del partito a vocazione maggioritaria: in una Italia che non l’ha mai concessa neppure alla Dc più straripante, il Pd si metteva a cercare di fare cappotto: si immaginavano un “partito della nazione” forse di tipo thailandese o che ne so. E invece: eccoci a fare i conti con l’incapacità anche solo di imbastire un minimo di alleanze. Tornassero in vita Togliatti e Berlinguer, si metterebbero alla lavagna a spiegare l’alfabeto, forse anzi le aste e le cornicine. Ma anche evocare Berlinguer è un errore: quanti son buoni solo a lustrargli l’altarino come fosse santa Rita da Cascia ma non ne imparano la lezione. «Ha da passà ‘a nuttata»: ma sarà lunga, lunghissima. Mentre a destra Giorgia Meloni ha da scegliere se diventare una Merkel-Chirac o se fare la demo-populista: il generale Vannacci gliel’hanno buttato fra i piedi i suoi per ancorarla alla fiamma, lei ha messo la sorella a cercare dì presidiare il partito. Intanto, di qua cominciamo: A come ape, B come bue, C come cavallo…

Nelle foto (dall’alto): la storica stretta di mano fra Moro e Berlinguer (da Finestraperta); Moro alla cena di gala nel ’71 con Kissinger; la prima pagina della Stampa dedicata alla strage dell’Italicus; Berlinguer con De Martino; un primo piano del leader socialista Francesco De Martino; Berlinguer in mezzo a un gruppo di dirigenti Pci mostra l'”Unità”

2 Comments

  1. lucyluxλουτσια ha detto:

    Ironia graffiante, a tratti sarcasmo costituiscono l’alimento di questo articolo che ha alla base ricerche socio-politiche e un’inequivocabile propensione al dibattito e al ‘ripensamento ‘ storico.

  2. Massimo Bianchi ha detto:

    Un ricordo complesso.Su ciascuno degli episodi che hai ricostruito la ricostruzione non è ancora arrivata alla verità.Peraltro in buona compagnia con tanti altri episodi su cui la parola fine è tarda ad arrivare.Comunque sia il tuo impegno è veramente “civico”. Saluti

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