Some of the stories that I'd like to print (cit. Ochs feat. Zuc)
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Il Sud Sudan non ha palasport ma conquista le Olimpiadi: dal basket-miracolo all’afro-calcio in ascesa
Ai mondiali di pallacanestro i “neri in maglia nera”, figli orgogliosi di una nazione giovane e poverissima, staccano il biglietto per Parigi 2024. Cresce lo sport africano, fra le 100 superstar di Champions ci sono 19 giocatori africani. I talenti, i barconi e il lutto per il sogno di Samia finito in fondo al mare

di Mauro Zucchelli

Niente coglie lo spirito del tempo quanto i riflessi pavloviani di Google: quando ero ragazzo c’era la Treccani a far da Cassazione e per i più ganzi l’Enciclopedia Britannica, ora detta legge quel che Google ti invita a chiedergli. Tu l’avessi provato qualche settimana fa, bastava digitare “Sud Sudan” per vedersi tirar giù una sfilza di: guerra, guerra civile, povertà, eccetera. In effetti, questo spicchio nel mezzo dell’Africa, incastrato fra il Congo ex Zaire, l’Etiopia, l’Uganda e il Sudan – grande il doppio dell’Italia, ma non più di 11 milioni di abitanti – il Fondo monetario internazionale lo mette fra i dieci Paesi più poveri al mondo. Anzi, nell’ultimo report che ho visto, proprio all’ultimo posto: mezzo migliaio di dollari all’anno, campano cioè con poco più di un dollaro e mezzo al giorno. Un confronto: è settanta volte di più lo standard del Pil italiano, seppur inchiodato da vent’anni (mentre quello sud sudanese ha la seconda crescita maggiore al mondo: più 24%).

Non bastasse, in quella fascia del Continente nero si sono susseguite le guerre civili (durate più di quarant’anni a partire dal ’55 con un breve break negli anni ’70) e i golpe dei militari (tre negli ultimi quattro anni): quanto basta per distruggere, paralizzare la ricostruzione o impedire la realizzazione di infrastrutture anche minime. Risultato: una economia di sussistenza esposta a tutti i venti. Compreso il fatto che, come spiega “Nigrizia”, la rivista dei padri comboniani che ben racconta il Sud del mondo, i combattimenti fra esercito e paramilitari in Sudan (dal quale la popolazione sud-sudanese si è staccata con il referendum indipendentista del 2011), rischiano di mandare in tilt la possibilità di export del petrolio sud-sudanese tramite il principale porto della nazione vicina. E il petrolio «rappresenta per Juba oltre il 90% degli introiti governativi e il 70% del Pil». Poi arriva uno e si chiede come mai questi bischeri se ne vengono in barcone quando potrebbero starsene comodi a casa loro…

Fine del pistolotto. Già, perché adesso Google non ti indirizza più su sventure, sfighe, fame, orrore e morte bensì su “Sud Sudan basket”. Può capirlo solo chi si è scoperto a piangere come un bambino di fronte alla gioia di questi ragazzi nerissimi all’ultimo mondiale di pallacanestro dopo la vittoria che ha spalancato alla squadra sud-sudanese le porte delle prossime Olimpiadi.

Ciò non toglie che abbiano alle spalle storie incredibili che né io né voi e nemmeno il meglio dei nostri talenti si è mai sognato di vivere. A cominciare da un dato: si sono guadagnati un posto ai Giochi di Parigi 2024 ma «non hanno mai giocato in casa». Il motivo? Nel loro Paese non c’è nemmeno un palasport che sia uno. Dunque, hanno potuto farcela solo perché fuggiti altrove: quattro giocatori sono orfani a causa della guerra e due sono nati in campi profughi, come ricorda “La Giornata Tipo”, blog di culto di qualunque appassionato baskettaro.

Beninteso, nell’immediato la palla a spicchi non riempirà di farakh hala o shayaa (bocconcini) né di gibna bayda (formaggio) i piatti dei povericristi: ma forse si sentiranno meno abbandonati e soli, ritireranno fuori l’orgoglio delle proprie radici come hanno fatto i ragazzi della squadra ai mondiali di basket.

Il miracolo l’avevano potuto intravedere a febbraio quando – lo riporto da “La Giornata Tipo” – i neri in maglia nera hanno per la prima volta nella storia cestistica battuto il Senegal e, grazie a nove vittorie in dieci partite, hanno staccato il biglietto per i mondiali. È un miracolo che porta il nome di Luol Deng: il citato blog baskettaro lo mette via twitter nel Pantheon sud-sudanese in tandem con Manute Bol. Luol vivente, Manute morto pochi mesi prima di veder coronato nel 2011 il sogno dell’indipendenza del suo Paese: l’uno e l’altro giocatori sui parquet delle superstar Usa (Manute negli anni ’80-90, Luol per 14 stagioni fino al 2019).

Bol viene dall’etnia dinka considerata «la più alta del mondo»: alto 2,31, un record mai superato da nessuno neanche fra i giganti della pallacanestro yankee (ma con un bisnonno che si favoleggia avesse 159 mogli e fosse alto 2,39 mentre il padre di Manute era 2,21 e la mamma 2,06). Per capire cosa aveva alle spalle negli anni in cui la scena era dominata da Larry Bird, Karim Abdul Jabbar e Michael Johnson: «fino ai 15 anni visse in un villaggio, pascolando mucche, combattendo talvolta con i leoni per difendere i suoi animali». Lo portarono negli Usa che (forse) era quasi analfabeta e si impose al college iniziando una carriera che avrebbe toccato Golden State, Philadelphia 76ers e Miami Heat (franchigia in cui ha iniziato anche suo figlio Bol Bol). Toccherà anche il campionato italiano a Forlì, prima di smettere definitivamente e restare intrappolato nel clima di sospetti dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Dopo aver mantenuto mezzo villaggio con i soldi del suo ingaggio, inizia una carriera da attivista: anche accettando di esporsi a scene abbastanza umilianti nel pugilato o nell’hockey pur di raggranellare sponsor e pagare nel suo Paese «strade, ospedali, scuole» (tirando fuori «di tasca sua 90 milioni di dollari»).

Nelle squadre di poverissimo basket che aveva finanziato c’è anche il campetto in cui ha mosso i primi passi il suo “figlio” cestistico, Luol Deng: era in un centro per profughi e Manute  aveva scelto di persona Luol. Deng ha sempre detto che «a Bol devo tutto», e ha portato avanti il suo sogno: fare del basket lo strumento di emancipazione dei giovani della sua terra finalmente indipendente inventandone la federazione in un Paese senza palasport (e dove lui dunque non  ha mai potuto giocare).

La favola si completa con la presenza in panchina di Royal Ivey: anche lui talento Nba, poco sud-sudanese e parecchio newyorkese, ma di Harlem che è un mondo a parte. Su “Ultimo Uomo”, prezioso giornale online di uno sport che non è solo record e punti, Deng dice: «Quando sono arrivato negli States, non avevo scarpe da basket: Ivey fu il primo a darmi le sue. Siamo diventati amici, e ogni festività in cui non potevo permettermi di tornare a casa la trascorrevo con la sua famiglia».

Adesso Ivey, che negli Usa campa con lo stipendio da assistente allenatore in casa dei Brooklyn Nets, dice ai giornalisti: «Un anno fa ci allenavamo all’aperto, su campi allagati con le aquile che volavano sopra di noi». Siccome la sua franchigia americana  non l’ha lasciato andare nei giorni in cui la sua nazionale africana aveva bisogno di lui, in panchina si è seduto Luol Deng: della federazione basket sarebbe il presidente, ma al bisogno è anche lo sponsor, il finanziatore, l’ambasciatore e chissà cos’altro, figuriamoci se è un problema fare il coach.

Ai mondiali di questi giorni il Sud Sudan debutta perdendo d’un niente contro Porto Rico (96-101) e  inciampa contro la Serbia (83-115) ma travolge la Cina (89-69), le Filippine (87-68) e soprattutto l’Angola (101-78). Vince il girone, ottiene il miglior piazzamento di una nazionale africana ai mondiali di basket e ora vede le Olimpiadi: trascinata da Carlik Jones e Nuni Omot.

La storia di quest’ultimo è un’altra favola: i genitori sono in fuga dalla guerra e dalla fame, 300 chilometri a piedi per cercare salvezza in un campo profughi keniota. È lì che lui viene al mondo ed è lì che vive in mezzo al nulla quando il destino bussa alla porta con il volto di una sorta di “Caritas” versione protestante: la famiglia, dopo un villaggio rurale centroafricano e una sistemazione di fortuna (campo profughi), viene paracadutata nel Minnesota. Il padre no, per lui niente visto. La mamma fa due lavori per mettere insieme la minestra e il futuro dei figli: a Nuni dice di fare sport per integrarsi con gli altri ragazzi, lui che non parla inglese. Comincia col football ma sono più le botte che la soddisfazione. Un bel giorno un tipo si accorge che nel basket quei 2,06 di altezza potrebbero tornare utili e lo porta davanti a un canestro: è amore a prima vista. La carriera poi non sarà semplicissima: Omot diventa un giramondo fra Macedonia, Belgio, Polonia, Germania, il ritorno nella seconda lega Nba, poi Egitto e ora Taiwan. Ma ora ha fatto la storia: così come l’hanno fatta.

Sia chiaro, non stiamo parlando di oriundi inventati perché gli azzurri del calcio non hanno il bomber e allora scovano trisnonni negli alberi genealogici di giocatori sudamericani, pronipoti di emigranti, noi che siamo così fieramente sovranisti. I cestisti sud-sudanesi giocano in Nba americana, in Australia (che è una superpotenza del basket) o a giro per il mondo. A quanto riferito da “Oltre la linea” riportando le parole del capitano della squadra Kuany Kuany, giocatori come Sunday Dech, Majok Deng e Deng Acuoth sono stati contattati per giocare per la nazionale australiana: invece sono andati là dove li ha portati il cuore e hanno scelto la maglia del Sud-Sudan, la patria dei sogni e del mito.

È capitato anche a Luol Deng: la sua Olimpiade l’ha vissuta, ma con la maglia britannica. «Rappresentare il Regno Unito per me è stato un onore – queste le sue parole nel 2021 – ma il Sud Sudan era sempre presente nella mia mente».

La storia olimpionica del Sud Sudan è ovviamente recentissima, anche perché questo stato è nato appena una dozzina di anni fa. Agli inizi l’istituzione di un comitato olimpico non era esattamente all’ordine del giorno, c’era da pensare di più a come poter mettere in tavola almeno un piatto al giorno dopo che le guerre avevano portati il Paese alla peggior crisi umanitaria esistente sul pianeta.

Cosa hanno fatto Manute e Luol? Pensare che nel Paese forse con la più alta statura media al mondo il basket potesse diventare emblema di riscatto: l’hanno fatto richiamando la diaspora dei ragazzi s

parpagliati per il mondo. Ma atleti sud-sudanesi hanno fatto già capolino alle Olimpiadi: a Rio 2016 hanno partecipato sotto le  insegne della squadra dei rifugiati internazionali alcuni sud-sudanesi come James Chiengjiek sui 400 m, Yiech Biel e Rose Lokonyen  sugli 800 m, Paulo Lokoro e Anjelina Lohalith sui 1500 m (ultimi o penultimi nelle batterie di qualificazione) più Yonas Kinde 90° in classifica nella maratona.

Già a Londra 2012, pochi mesi dopo l’indipendenza, c’era anche Guor Mading Maker, classe 1984, a quel tempo conosciuto come Guor Marial perché, per evitare impicci burocratici, aveva preso il cognome dello zio (Marial). Si era salvato dallo sterminio che gli ha ammazzato otto fratelli grazie ai genitori che lo avevano spedito in un’altra zona sudanese affidandolo a un parente: comprensibile che a Londra si sia rifiutato di gareggiare con la maglia della nazione che gli aveva massacrato i suoi. Ha gareggiato fra gli “atleti olimpici indipendenti” ed è arrivato 47° nella maratona. A Rio il bis arrivando però 82° dopo esser stato il portabandiera di una delegazione che comprendeva anche Santino Kenyi mezzofondista e Margret Ramat Hassan sprinter. Appartengono al mondo dell’atletica leggera anche i due sud-sudanesi presenti a Tokyo 2021: la velocista Lucia Moris e il mezzofondista Abraham Guem. Non vanno nemmeno vicino al podio ma intanto non sono più gli ultimissimi della fila.

Ai Giochi olimpici le nazioni africane incassano un numero di medaglie ancora ben lontano dai giganti sportivi nel resto del mappamondo: a Tokyo 2021 undici ori (su 340) e 37 volte sul podio (su 1.040), attorno al 3,5% in ambo i casi. Quattro anni prima, a Rio 2016, gli ori erano stati dieci e 45 le medaglie complessive, ai Giochi di Sydney vent’anni prima nove titoli olimpici e trenta medaglie in tutto. Ma alle Olimpiadi n. 20, Monaco ’72, niente più di tre ori (1,6%) per un totale di 17 volte sul podio (2,8%). La crescita dello sport africano è evidente.

Qualcosa del genere si nota ancora di più se utilizziamo un parametro che mescola l’atletismo di base alla maturazione tecnico-tattica e alle modalità di allenamento. Come? Guardando ai calciatori con passaporto africano o comunque come esponenti di seconda generazione di famiglie di migranti che militano in Champions League: guardiamo alla catalogazione che ne ha fatto Transfermarkt (che però esclude casi come quelli di Ndombelè, ad esempio) e ne troviamo ben 19 fra i cento giocatori che hanno maggior valore di mercato. Ecco le origini camerunesi di Kylian Mbappé o di William Saliba, quelle nigeriane di Buyako Saka e di Victor Osimhen, quelle angolane di Rafael Leao, quelle egiziane di Mohamad Salah e quelle eritree di Alexander Isak, quelle ivoriane di Wesley Fofana o di Serge Gnabry e via elencando.

Ne vedremo delle belle ai mondiali 2026 organizzati insieme da Usa, Canada e Messico (paradossalmente con l’appoggio del calcio russo nel conclave internazionale tenuto a Mosca nel 2018 contro la candidatura del Marocco sostenuta da tutta l’Africa più Cina, Brasile, Francia, Turchia e Italia): le squadre in lizza nella fase finale saliranno da 32 a 48 con un tourbillon di partite che metteranno l’accento sulla condizione atletica, e qui la maggiore fisicità di tanti atleti africani potrebbe avere la meglio sulla tecnica europea e sudamericana. Con una sorpresa: aumenteranno i posti un po’ per tutti le confederazioni continentali ma se l’area Uefa si allargherà da 13 a 16 posti, l’Africa quasi raddoppierà (da cinque a nove).

Del resto, è dal maggio di due anni fa che la Nba ha aperto una “gemella” in Africa. L’ha fatto avendo alle spalle una montagna di soldi (i ricavi annui della lega superano i dieci miliardi di dollari). E con uno sponsor d’eccezione: l’ex numero uno della Casa Bianca, Barack Obama, primo presidente Usa di origini afroamericane.

Nel frattempo l’esuberanza di una popolazione giovane che sta al di là del Mediterraneo salta fuori nelle tante storie che lo sport racconta. Sono arrivati con i barconi. Ad esempio, Nfamara Njie, gambiano, un viaggio disperato in gommone che era appena ragazzino anche se non sapeva nuotare: eccolo campione tricolore nei 10mila metri su strada. Ad esempio, l’altro Coulibaly (con la “C” invece che col “K” come quello ex Napoli): di nome fa Mamadou, è calciatore di centrocampo fra serie A e serie B, scappato dal padre prof di ginnastica che lo voleva all’università anziché a fare l’atleta e passato anche da Livorno. Ad esempio, Hussein Omar Mohamed, arrivato dall’Etiopia dopo una disperata fuga da galera e torture perché dell’etnia “sbagliata” rispetto a chi aveva in mano il mitra e la chiave del carcere: chissà se il suo patron si è ricordato di Abebe Bikila, (scalzo) campione di maratona a Roma 1960, e l’ha inventato maratoneta che fa il pieno di successi. Ad esempio, Amidou Diko, maliano, 23 anni, che il taekwondo nemmeno s’immaginava cosa fosse: si è affidato al maestro Baglivo come fosse un secondo padre, si è allenato nel suo clan sforna-talenti e ha conquistato l’oro nel campionato internazionale che vedeva in lizza 1.300 atleti di dieci nazioni. Ad esempio, Musa Juwara, partito da solo dal Gambia che era ragazzino e approdato in un porto italiano grazie alla nave di una ong tedesca: per il suo Bologna segna un gol a San Siro contro l’Inter.

No, non tutte le favole hanno il lieto fine. Non ce l’ha avuto per Shahida Raza, anche lei in arrivo su uno di quei barconi: e parlo al passato perché i sogni della capitana della nazionale pachistana di hockey sono affondati con lei nel mare di Cutro.

Non ce l’ha avuto per Samia Yusuf Omar, che alle Olimpiadi di Pechino aveva corso i 200 ma giungendo ultima: non si era arresa e in vista di Londra 2012 si era messa in cammino in un “viaggio della speranza” per trovare un allenatore in Europa che le insegnasse a correre al meglio di tutto quel che poteva dare. Mi fermo qui, lei è in quello scandalo che è il cimitero di innocenti in fondo al Mediterraneo: invece che proseguire io, vi invito a leggere il libro di Giuseppe Catozzella (“Non dirmi che hai paura”) che la racconta assai meglio di quanto riesca a fare io. E pensare che c’era chi, lucrando i dividendi della paura, predicava uno stupido blocco navale e ora non sa che pesci prendere di fronte a una alluvione di partenze dal Nord Africa. Duole dirlo, ma sempre meglio di quei pezzi grossi di centrosinistra (sinistra ma de che?) che si sono comprati gli sgherri libici e hanno dato loro soldi e carta bianca per farne di ogni.

Nelle foto, dall’alto: Weynen Gabriel, talento del Sud Sudan ai mondiali di basket; l’arsenale di una delle tante milizie; l’esultanza degli atleti sudsudanesi dopo la vittoria decisiva; un gruppo di profughi in fuga; il calciatore africano Upamecano; la velocista Samia Yusuf Omar, atleta somala morta nell’affondamento di un barcone per venire in Europa in vista dei Giochi di Londra 2012 (le immagini sono state rintracciate in rete, in caso di problemi relativi ai diritti segnalatelo nei commenti e provvederemo a rimuoverle immediatamente)

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