Il castello dei destini incrociati nello sfascio dell’Italia sabauda dopo l’8 settembre ’43 : lo scrittore-regista aveva appena iniziato la naja e scappa a 21 anni. Lo racconto qui riaggiustando un articolo che avevo fatto per Il Tirreno. Pasolini la tesi dovrà riscriverla daccapo cambiando corso di studi. In quei giorni Livorno è il crocevia di tanti altri (futuri) uomini illustri: a cominciare dai due Ciampi, Carlo Azeglio e Piero, poi Elio Toaff, i Ciano, il capo della banda fascistissima Koch…
di Mauro Zucchelli
“Tutti a casa”: l’8 settembre ‘43 – lo spappolamento delle istituzioni, lo smottamento dello Stato a partire dal vertice – niente lo racconta meglio del volto così arcitaliano di Alberto Sordi che dà corpo e anima al disorientamento spaurito del sottotenente Alberto Innocenzi: lo straordinario capolavoro di Luigi Comencini l’hanno girato nel ’60 a Livorno perché a distanza di un quindicennio offriva ancora un tal scenario di macerie da sembrare ancora negli anni della guerra.
In una delle scene chiave, la telefonata al “signor colonnello”: «Accade una cosa incredibile, i tedeschi si sono alleati con gli americani». E poi: «Allora tutto è finito, signor colonnello! Ma non potreste avvertire i tedeschi? Ci stanno continuando a sparare!». Infine: «Mi scusi signor colonnello, ma cerchi di comprendere: io ero all’oscuro di tutto. Quali sono gli ordini?» (qui il link al film capolavoro: prima parte https://dai.ly/x74gfua, seconda parte https://dai.ly/x74d6nb)
“Tutti a casa”, ma per arrivarci bisogna essere tutti in fuga. E oggi che le scene dei bombardamenti su Kiev ci hanno riportato a ritroso nella Livorno di quell’8 settembre di ottant’anni fa, scopriamo che fra i 4 Mori, Ovosodo e il lungomare c’è il “castello” in cui si incrociano i destini di una serie di personaggi che non si conoscono e faranno la storia. Non lo sapevano nemmeno i diretti interessati: sapevano solo di essere stati lì ma non di essersi incrociati. A cominciare da Pier Paolo Pasolini: adesso avrebbe cent’anni e spiccioli, in realtà allora è solo un ragazzo che deve andar militare.
Quel mercoledì 8 settembre che di ottant’anni fa cambia la storia non c’è solo Pier Paolo Pasolini a Livorno. C’è Carlo Azeglio Ciampi (che diventerà ministro, premier e capo dello Stato) e c’è il suo amico Furio Diaz (che sarà sindaco e brillante accademico), c’è Mario Lenzi (che rivoluzionerà la stampa locale italiana partendo dal Tirreno) e c’è Pietro Koch (che ha già una solida fama di aguzzino nelle segrete del fascismo). Ma l’elenco potrebbe continuare con le fibrillazioni del famiglia Ciano con Edda Mussolini che le inventato di tutte pur di salvare Galeazzo dopo la notte del Gran Consiglio; idem per la diva livornese Doris Duranti che ha una love story con il ministro Alessandro Pavolini (Minculpop)e cerca di aiutare i suoi cari. E poi il giornalista Giovanni Ansaldo in fuga, la famiglia del futuro rabbino Elio Toaff…
Cominciamo col dire che il 1° settembre ’43 Pasolini prende il treno per venire a Pisa a «fare il soldato», pochi giorni più tardi nel caos dell’8 settembre lo prenderà per tornare a Casarsa («i treni mi hanno riportato, miracolosamente, a casa»). Lo racconterà una sorta di autobiografia postuma edita come “Album Pasolini” nel 2005 da Mondadori sulla base di frammenti. «Un libro indiziario», secondo la definizione della filologa Grazia Chiarcossi, che di P.P.P. è non solo la cugina ma anche la curatrice e l’esecutrice testamentaria morale, soprattutto la persona che gli ha vissuto con lui negli ultimi 13 anni.
Ma non è stato solo un (doppio) lungo viaggio in treno ai tempi della guerra. Siamo nei giorni in cui l’Italia dei Savoia e di Badoglio tratta segretamente un armistizio con modalità da pateracchio, con una firma fatta a metà, poi negato fino al radiomessaggio con i nazisti ormai su tutte le furie e i comandi alleati quasi altrettanto: non a caso, lo Stato si spappola a partire dai vertici e, con le truppe di Hitler in casa, per ciascuno vale il “si salvi chi può”. Figuriamoci per un ragazzo che ha compiuto i 21 anni da pochi mesi.
Lo spiega lui stesso che è sfuggito chissà come alla Wehrmacht che si è presa un treno e lo sta stipando di persone da deportare. Gran bailamme, lui che arraffa un fucile e tiene «la sicura tolta per far fuoco contro i tedeschi” mentre si butta laggiù in «un canale fra Livorno e Pisa» con una fuga «romanzesca», come scriverà agli amici.
Spesso rimbalza nelle biografie pasoliniane il fatto che a fine estate ’43 il poeta fosse a Livorno per entrare in Accademia Navale: forse lo si deve al fatto che il cugino Nico Naldini ha riferito della volontà di Pasolini di entrare nell’istituzione militare della Marina in nome della sua passione per il mare. Ma era un bivio esistenziale in alternativa all’università, poi aveva scelto Bologna. Invece, la nuova edizione delle “Lettere” curate da Antonella Giordano (proprio con Naldini), uscita nel novembre scorso per Garzanti, spalanca la finestra su quest’episodio che cambia la rotta della vita di Pasolini, che era appena arrivato a Pisa inquadrato come caporal maggiore.
«Eccomi là: in fondo alla scarpata, vestito da soldato. Siamo distesi tra i cespugli, sulle rive di non so che fiume o canale (come nei sogni)». In mezzo a una gran confusione «ci rendiamo conto che ci siamo arresi»: in fila a consegnare le armi. Lui e un commilitone si guardano: «noi, due intellettualini deboli e antimilitaristi, che in pochi giorni di servizio militare avevano fatto tutto ciò che gli antimilitaristi fanno, polemici e idealisti, ci leggiamo negli occhi lo stesso pensiero. Consegnare le armi? A questi quattro tedeschi ghignanti? Impossibile. Disobbediamo. Di nascosto ci nascondiamo tra i cespugliacci e nascondiamo il fucile. Quanto alla bomba, la gettiamo in un fosso». Li spingono «come un branco di pecore, con gli ufficiali del “Savoia!” disarmati e mescolati fra la truppa, verso Livorno».
All’improvviso, una sparatoria: chissà se è il conflitto a fuoco nella zona di Stagno. In uno dei primissimi episodi di eroismo della Resistenza dei militari il maggiore Gianpaolo Gamerra, dopo essersi rifiutato di consegnare ai tedeschi uomini e armi, risponde all’attacco a tradimento dei blindati che li hanno circondati.
Nel suo racconto datato ’69 Pasolini spiega che, quando gli altri riprendono il cammino, «io, Castiglioni e gli altri due o tre restiamo nascosti nel fosso». Lasciano sparire all’orizzonte la «greggia grigioverde», loro invece prendono «la strada opposta per la campagna a nord di Livorno: l’uva è matura, il sole è alto, cantano le cicale». È nato l’altro Pasolini, quello che conosciamo.
In quel caos non finisce solo la sua vita di ragazzo, l’università vissuta sì con le serate di poesia ma soprattutto con la fama allegra che gli era arrivata per il suo talento di attaccante nella squadra di calcio dell’ateneo. In quella fuga perde il libretto universitario e all’amico Luciano Serra chiede di informarsi come potrà cavarsela con gli esami. Perde soprattutto la tesi: il relatore era un big come prof. Roberto Longhi, ne aveva già scritto i primi tre capitoli che mettevano al centro le figure di Giorgio De Chirico, Carlo Carrà e Filippo De Pisis.
Lui perde la tesi, noi perdiamo un critico d’arte. Ma acquistiamo un poeta, si consolida la vocazione che già aveva fatto capolino: e la riprova è la decisione drastica di buttare alle ortiche quegli studi e il rapporto con Longhi per andare a chiedere al prof. Calcaterra una tesi su Giovanni Pascoli: lo farà formalmente nel marzo ’44 (e la discuterà a guerra finita nel novembre dell’anno successivo). Basta però dare un un’occhiata a una lettera di quel fine gennaio per capire che, quattro mesi dopo il caos post-armistizio in cui la prima parte della tesi è rimasta forse sull’argine di un fiume o forse dentro un nascondiglio precario, si è già lasciato alle spalle quell’esperienza: «È passata come alle mie membra la stanchezza per i cento chilometri fatti a piedi».
In effetti, già prima nel ’43 proprio un signor nessuno non è: ha pubblicato “Poesie a Casarsa”, edito a sue spese da un libraio bolognese che in quei mesi “cova” un cenacolo di talenti come Roberto Roversi, Francesco Leonetti e Luciano Serra. Lui ha appena passato i vent’anni e questo è solo «il mio primo libretto di poesia» (in lingua friulana): ma con l’applauso di Gianfranco Contini che non è ancora un mostro sacro ma è certo un nome che conta già qualcosa. Agli amici scrive agli inizi del ’44 che «in friulano ho concluso tre libretti»: la seconda edizione delle poesie “datate” Casarsa, un «libretto di dialoghi» e uno di «meditazioni religiose». Quest’ultimo compare già come “L’usignolo della Chiesa Cattolica”: sarà uno dei titoli-chiave dell’intera poetica di Pasolini e, benché dato alle stampe a fine anni ’50 insieme a molto altro materiale, non è un segreto che se ne trovi traccia anche già nel ’43. Però è in lingua italiana: ed è magma incandescente dal punto di vista del travaglio interiore, segno forse di scritture e riscritture?
È da segnalare che in provincia di Parma la Fondazione Magnani Rocca ha ospitato pochi mesi fa la mostra “Fotogrammi di pittura”. Ai raggi x l’influenza che la conoscenza dell’arte figurativa ha avuto su Pasolini cineasta: si pensi alle cinquecentesche Deposizioni del Rosso Fiorentino e del Pontormo che vediamo come tableaux vivants nel film “La ricotta” oppure il Cristo morto del Mantegna di cui ritroviamo traccia nella scena finale di “Mamma Roma”. A dar retta ai curatori dell’esposizione, c’è anche un po’ di Francis Bacon e un po’ di Piero della Francesca tanto in “Il Vangelo secondo Matteo” che in “Teorema”, così come sono reperibili le impronte di Giotto e di Velázquez in “Il Decameron”. Come dire: l’attenzione alla cultura visiva, approfondita nella prima tesi (smarrita), la ritroveremo qualche anno più tardi nel poeta che si mette dietro alla macchina da presa: se il primo impegno come regista è quando nel ’60 gira “Accattone”, già nel ’53 Giorgio Bassani lo aveva chiamato a occuparsi di cinema per soggetti e sceneggiature.
Non c’è bisogno di andare a pescare l’attenzione di Pasolini per “Myricae”, il capolavoro edito da un piccolo editore livornese negli anni in cui Pascoli era prof al liceo classico labronico, per certificare l’interesse di P.P.P. per Livorno dove quel giorno la sua vita ha avuto una sterzata.
«Livorno è la città d’Italia dove, dopo Roma e Ferrara, mi piacerebbe più vivere»: lo scrive nel ‘59 in un tour di tutta la costa della penisola che Pasolini compie al volante di una Fiat 1100 per la rivista “Successo”: «Lascio ogni volta il cuore sul suo enorme lungomare, pieno di ragazzi e marinai, liberi e felici. Si ha poco l’impressione di essere in Italia. Intorno, nelle fabbriche dei quartieri verso il nord, ferve un lavoro che non ha un’aria familiare, e per questo è tanto più amica, rassicurante».
Il brano è datato giugno e il poeta descrive Livorno come «città di gente dura, poco sentimentale: di acutezza ebraica, di buone maniere toscane, di spensieratezza americanizzante». Aggiungendo poi: «Il problema del sesso non c’è, ma solo una gran voglia di fare l’amore. Le facce, intorno, sono modeste e allegre, birbanti e oneste. Pei grandi lungomari disordinati, grandiosi, c’è sempre un’aria di festa, come nel meridione: ma è una festa piena di rispetto per la festa degli altri». Quello con Livorno è il legame di un innamorato, tant’è che quando dedica una sottolineatura all’«acqua più bella d’Italia», ecco che la indica «sotto gli scogli tra Calafuria e la Quercianella»: qui è «tutto perfetto come nelle isole di Verne». Da lontano domina il fantasma del mausoleo di Ciano che non c’è mai stato: è «in cima a una montagna secca di sole, ora ridotta a una specie di bunker, probabilmente pieno di feci».
Dicevo, però, che quei giorni Livorno era il castello dei destini incrociati di giovanotti che poi avrebbero fatto la storia, la nostra storia. Non è affatto casuale il riferimento a Carlo Azeglio Ciampi, classe 1920: famiglia della buona borghesia laico-risorgimentale ma scuole dai gesuiti prima degli studi alla Normale. Niente economia bensì laurea in filologia classica con prof antifascisti come Guido Calogero e Augusto Mancini. Nell’estate ’43 è in servizio militare in Albania, ufficiale del 104° Autogruppo pesante: invece in quei giorni di fine estate è in licenza dai suoi a Livorno. Anzi, a Castiglioncello. Buona parte dei livornesi è già sfollata altrove, diventerà un esodo biblico che lascerà in città solo poche migliaia di abitanti quando i tedeschi svuoteranno tutto il centro dichiarandolo “zona nera” completamente interdetta a chiunque.
Le cronache del pittore Gastone Razzaguta “dipingono” con le parole quest’apocalisse umana al Famedio di fronte al santuario di Montenero: «Torme di sfollati – è il luglio ’43 – hanno preso dimora sulle tombe»: ciascuno ha conquistato «un pezzetto di tomba e lo difende accanitamente perché lì s’è accomodata e ha fatto il suo nido che ritiene sicuro». Raccontava il comandante partigiano Luciano Montelatici che poco prima dell’annuncio dell’armistizio «in poche migliaia si contavano i livornesi che vivevano come cavernicoli in periferia: a Colline, Salviano, Ardenza, Antignano». Le cifre precise le fa lo storico Enrico Acciai, che in “Una città in fuga” scova i report delle Militarkommandanturen: «Su 138mila residenti a Livorno ne erano rimasti appena 15mila». In città c’è appena poco più di un livornese su dieci: tant’è che Beppe Orlandi intitolerà “Li sfollati” il vernacolo-cult che raffigura quest’epoca.
Ciampi si presenta al capitano del presidio militare più vicino per chiedere ordini: trova l’emblema dello Stato che si squaglia, lo trova che arraffa quel poco che può e consiglia paterno al giovane ufficiale di sparire anche lui. Sì, ma dove? Fuga in Abruzzo dove ritroverà il suo prof dissidente. Per timore di ritorsioni su familiari non segue l’amico Furio Diaz, che in quei giorni sceglie di darsi alla “macchia” per unirsi ai tanti ragazzi che, magari confusamente, ma a combattere al fianco dei nazisti non ci vogliono proprio andare e allora non resta che raggiungere i partigiani nei boschi.
Diaz sarà il primo sindaco post-Liberazione in quella Livorno che come “decimo porto” diventerà lo snodo-chiave della logistica militare alleata: lui comunista alla guida di una giunta che rimane “formato Cln” anche nel bel mezzo della “guerra fredda” (ma nel ’56 rompe col Pci per l’invasione dell’Ungheria). Stranezza per stranezza, va detto che dell’antifascista Diaz troviamo un editoriale sul giornale gemello di quello di casa Ciano qualche giorno prima dell’8 settembre: se n’era appena andato in fuga il direttore Giovanni Ansaldo, ex gobettiano avvicinatosi a Mussolini (al punto da diventare una delle voci-simbolo della radio di regime). Lascia la “villa rossa” in zona ospedale e pianta in asso il giornale per provare a salvarsi l’anima nei tempi supplementari…
Si incrociano i destini in un groviglio di fughe. Quella dei familiari di Galeazzo Ciano, dopo la notte del Gran Consiglio che fa saltare Mussolini: alla moglie Edda, figlia del Duce, arriva una telefonata da Roma, via in tutta fretta dalla villa livornese con l’idea stupida di mettersi sotto l’ala di Hitler per provare a salvarsi dalla voglia degli altri gerarchi di farlo fuori. Quella della famiglia Toaff: il futuro rabbino-simbolo Elio, figlio del rabbino Alfredo Sabato, tenta di mettersi al riparo nei dintorni di Pisa, prima dai Raccah e poi dai Pardo Roques (sterminati con il blitz assassino teleguidato da un fascista che vuol arraffarne il patrimonio). Quella di un Ciampi che non potrebbe essere più differente da Carlo Azeglio: è Piero, casa davanti a quella che era stata di Amedeo Modigliani, da Livorno se ne va da sfollato bambino poco prima dell’armistizio, chissà se già con quel mal di vivere del poeta-chansonnier che diventerà fonte di ispirazione per tanto cantautorato.
Nel frattempo, se da Castiglioncello era sparito Ciampi, poche ore più tardi lo sarà anche Giuseppe Scarani, capitano del 6° Bersaglieri, in convalescenza per le ferite sul fronte russo. C’è una gran confusione e mancanza di ordini, a lui invece ne arriva uno ma senza spiegare molto altro: il comando lo spedisce a Ardenza a costituire un caposaldo affidandogli un pugno di uomini e quasi zero viveri, figuriamoci le munizioni. L’indomani un ufficiale tedesco gli intima di lasciare la posizione, lui rifiuta: loro ritornano in 30 con un’autoblinda, «io aprii il fuoco». La terza volta non tornano i tedeschi: è un ufficiale superiore italiano del comando piazza di Livorno che gli dà l’ordine di piantarla lì e andarsene.
L’8 settembre a Livorno c’è anche un altro giovanotto di 25 anni: si chiama Pietro Koch e sta cercando di imbarcarsi, lo ricostruisce lo storico Mimmo Franzinelli. Koch è già stato ufficiale dei Granatieri di Sardegna, poi deve averne combinata qualcuna delle sue: imbrogliucci immobiliari, assegni a vuoto e cambiali non pagate. Stava aspettando di imbarcarsi: lo ritroveremo come il numero uno dei torturatori repubblichini più feroci in accoppiata con la banda Carità.
Sul lungomare di Livorno ma un po’ più a sud del porto quel giorno troviamo anche Mario Lenzi: era un ragazzo di 16 anni e non si sarebbe davvero immaginato di diventare un grande giornalista e, soprattutto, un “creatore” di giornali. Come Il Tirreno negli anni ‘70, dopo la requisizione da parte del sindaco comunista in nome del diritto all’informazione. Racconta la grande fuga dei sodati che lungo l’Aurelia «lasciavano i fucili appoggiati ai muri e chiedevano abiti civili alla gente», passavano anche «piccoli convogli di camion militari» e quando finivano la benzina «venivano abbandonati sul ciglio della strada o buttati in un fosso». Si sparge a voce che il deposito dell’esercito al Boccale è stato «lasciato senza sentinelle: tutto il paese si precipita al saccheggio». Invece al Lazzeretto «i soldati girarono i cannoni verso la strada, per sparare a zero contro i tedeschi se fossero spuntati da dietro la curva».
Insieme agli amici riesce a scovare «tre vecchi fucili ‘91» e, nel comando militare abbandonato a villa Frilli, «due mitragliatori Skoda con quattro cassette di munizioni». Risultato: quando vedono sei motosiluranti tedesche che aprono il fuoco contro alcuni piroscafi, piazzano le mitragliatrici sul moletto e cominciano a sparare. Le unità tedesche erano «distanti almeno sei chilometri», i loro Skoda avevano «una portata di poche centinaia di metri» eppure rimasero «convinti di partecipare in modo decisivo alla battaglia». Il prete del paese li accolse «con un sorrisetto di complicità». Li portò in chiesa e disse: preghiamo…
Veramente interessante.La storia locale non ha meno dignità della Storia che si insegna nelle scuole.Bisognerebbe inserirla nei programmi scolastici.Lo proposi al momento della consultazione sullo Statuto della Regione.Non ebbi risposta.Bravo .Saluti
Grazie per l’attenzione con cui segui questi racconti. La storia locale è una miniera di scoperte perché sembra più vicina e meno logorata
Grazie Mauro: un “8 settembre” tutto da.riflettere…
Grazie, Mauro. Un affresco straordinario che si legge tutto d’un fiato per rileggerlo poi con cura e attenzione.
Grazie. Mi è parsa una storia curiosa, neanche i diretti interessati la conoscevano. E, indirettamente, dice anche che materiale umano avevamo a Livorno.