“Quel matrimonio non s’ha da fare”, strillano da Mosca. Il granduca se ne infischia: con la sua Olga scappa a Livorno per giurarle amore eterno finché… Cosa ha da dirci questa storia (così rosa ma anche così nera)
di Mauro Zucchelli
La notizia, i cronisti della “Gazzetta livornese” quel venerdì di ottobre anno Domini 1902 l’avevano fiutata giusta. «Col treno delle ore 11,50 giunsero nella nostra città il Granduca Paolo Alessandrowich e la sua consorte. Provenivano da Genova e si recarono in casa dell’Archimandrita Kierofilis in via Ricasoli numero 15, piano primo». Dieci righe in tutto, quasi invisibili nelle colonnette della cronaca locale, a quel tempo non usava neanche il titolo ma solo un grassetto in testa di capoverso (“Arrivo di principi russi”): del resto, i «due ospiti augusti» viaggiavano «in strettissimo incognito», come si compiace di notare il cronista, che quel velo di segretezza è riuscito a bucare.
Quel che però il reporter non azzecca è il motivo della visita: lasciate perdere la grafia scapestrata del nome, con il nostro Pavel Aleksandrovič stiamo parlando di un Romanov, la dynasty degli zar. E in effetti era non solo nipote dell’imperatore russo Nicola I ma anche bisnipote del re prussiano Federico Guglielmo III ma anche figlio di Alessandro II, protagonista del lunghissimo risiko fra Russia e Inghilterra in quel “grande gioco” che, a suon di trame, intrighi, 007 e tradimenti, si è giocato in Asia nell’Ottocento. Non basta: il cronista si è accorto che sono andati dall’archimandrita, una sorta di “vescovo” ortodosso, e ne ha dedotto che fosse una visita di cortesia prima di ripartire «col treno delle 16,50 diretti a Firenze». È proprio sul motivo di quest’arrivo a Livorno che la “Gazzetta” ha preso un granchio: anche perché, siccome viaggiano insieme, dà per scontato che quella tipa sia la moglie. E qui casca l’asino: è davvero la moglie?
A distanza di un mesetto, il cronista riprende il taccuino per raccontare cos’è accaduto davvero quel 10 ottobre 1902. Lasciamo perdere che il Granduca Paolo diventa, sbagliando, il Granduca Pietro e che il civico del domicilio dell’archimandrita (nel frattempo passato da Kierofilis a Kairophilos, nome Spiridione) si è ridotto dal 15 al 13. Lui mette le mani avanti: lo sapeva che il granduca era rimasto vedovo, confessa di aver parlato di “moglie” perché siamo uomini di mondo: «La presenza della dama russa ci fede nascere il dubbio che si trattasse di una qualche scappatella amorosa, cui anche i personaggi illustri spesso sottostanno alla pari dei miseri mortali». Certo, ci vuole una bella ghigna per portare dal “vescovo” la propria ganza ma vabbè.
Il collega mena un po’ il can per l’aia e non ci ha ancora detto la cosa più importante: il motivo della visita. A maggior ragione se, come ricorda lui stesso, «non tralasciammo di notare il mistero col quale si circondarono in quelle poche ore di permanenza fra noi i due personaggi e neppure ci sfuggi una gita in carrozza fatta fino alla chiesa greco-ortodossa in via del Giardino e la loro stranissima uscita dalla porta posteriore della stessa chiesa in via della Rosa Bianca».
Lei è «la signora Olga Valeriowna, figlia del ciambellano di Corte e consigliere di Stato Walerien Gavrilowitch Karnovitch, sposa divorziata del colonnello Erik Pistohikors». Il granduca – spiega il reporter – era un ragazzo ammodino e voleva fare le cose giuste per «legittimare la sia unione colla signora suddetta”. Solo che la cosa andava parecchio di traverso allo zar: il povero Pavel non trova manco un prete nel clero russo disposto a celebrare ‘sto benedetto matrimonio. Diceva il cronista che “in Russia non esiste il matrimonio civile ma esclusivamente quello religioso” e deve essere “approvato dal Santo Sinodo” e lì lo zar mette bocca e può porre il suo diktat negativo. Il granduca bussa alle porte in Austria, finché capì l’antifona e venne in Italia: un matrimonio “fatto con gli stessi riti ortodossi è riconosciuto come valido in Russia”, dunque ecco che comincia il tour dei preti ortodossi in Italia finché trova quello livornese disposto a portarli all’altare.
La chiesa greco-ortodossa livornese non c’è più: era intitolata alla Santissima Trinità e bisogna immaginarsela fra via della Rosa Bianca e via del Giardino, entrambe sparite dalla toponomastica. La prima le cronache di Piombanti la definiscono «non pulita», l’altra era l’attuale via Fiume: qui c’era pure la casa editrice di Marco Coltellini che stamperà l’”Encyclopedie”, qui c’era un farmacista da leggenda come il prof. Zanobi Lottini che quando poteva passava gratis qualche medicamento ai poveracci.
È una zona della città completamente inghiottita dal piccone demolitore: la guerra c’entra fino a un certo punto, perché in realtà è stata cancellata come un po’ tutta la zona fra il Comune e la Fortezza Vecchia dove è nato il quadrilatero del Palazzo del Governo che ospita questura e prefettura insieme a una “piazza a mare” che presto si è trasformata in un buco dove piazzare il monumento equestre al re e la piazza non c’è proprio perché lo spazio se l’è mangiato un’asfaltata con aiuoline misere che trasformano Livorno in Bucarest ma con una fisiognomica più brezneviana.
Era la zona del Bagno dei forzati, mica c’era il centre Pompidou. Ma quella chiesa era il simbolo di quell’identikit multietnico che è stato il cuore della nostra storia. Anche a fatica, se è vero che i greco-cattolici avevano la loro chiesa e i greco-ortodossi no, anzi questi ultimi avevano tentato un blitz per portare via ai loro “fratelli” il luogo di culto. Com’è e come non è, fatto sta che la “chiesa della Rosa Bianca” era diventata la prima chiesa non-cattolica esistente in tutto il Granducato. Figuriamoci, c’è chi, credo esagerando, la spara più grossa e dice che un tale esempio di rottura del monopolio cattolico non aveva uguali nel mondo conosciuto. Comunque, sia chiaro, niente segni esterni che potessero far capire che lì c’era qualcosa al di fuori dall’autorità del vescovo e del papa. Non ci metterei la mano sul fuoco, anche perché il “dizionario” di Giovanni Wiquel – che li chiama “greco-scismatici” – ci ricorda che lì accanto al civico 32 sull’ingresso «si leggeva “Chiesa greca orientale 1760”». Noto soltanto che i livornesi la chiamavano non con l’intestazione ufficiale alla Trinità bensì con il nome dell’osteria lì vicino, che dava il nome pure alla via.
Non ho conferma del fatto che gli arredi sacri siano finiti nella chiesa della Dormizione che troviamo nel cimitero di via Mastacchi e/o nel museo della Città (Bottini dell’Olio) che, prima della decisione di un riallestimento, mostrava una iconostasi che mi si dice provenisse da tale edificio sacro. Fatto sta che non doveva essere proprio una chiesina, visto che, a parte il pulpito di marmo con san Giovanni Crisostomo predicante (bassorilievo), contava sulle donazioni degli zar russi, a partire da Caterina II, come ricorda il blog di “Livorno delle Nazioni”. Il solito Wiquel segnala poi che i preziosi messali regalati dallo zar Nicola I ora sono negli scrigni della Biblioteca Labronica.
Vale però la pena rimettere sotto i riflettori il granduca e il suo clan. A cominciare dalla tragica fine della prima moglie, Aleksandra Georgievna, figlia del re di Grecia, che a 21 anni durante una gita cade da una barca e, incinta, muore partorendo il figlio Dmitrij. Teniamo a mente il dettaglio che il nostro Pavel si paralizza per lo choc e, inventandosi una sorta di “incubatrice” di ovatta calda il bebè lo salva il fratello del granduca. Difficile dire quanto Pavel resti attaccato ai figli: fatto sta che quando capisce che per lo zar il suo (secondo) matrimonio non s’ha da fare, se ne va all’estero e quando, a nozze fatte, lo zar gli vieta di tornare in Russia, se ne fa una ragione e lascia i figli al fratello, governatore di Mosca (poi ammazzato dagli anarchici).
Non andrà meglio a lui, Pavel: i bolscevichi ci metteranno un po’ per toglierlo di mezzo ma alla fin fine nel 1919 vedranno in lui l’ennesimo Romanov da fucilare (e lo scaraventeranno nella fossa comune). Idem anche per il figlio che il granduca ebbe dalla sua nuova “fiamma”: Vladimir Pavlovič Palej. E già il nome è un guazzabuglio, per via dello “scandalo” nella corte zarista alle prese con un figlio nato fuori dal matrimonio e con una esponente proveniente dalla piccola borghesia (no, il babbo di Olga non era ciambellano di corte ma a malapena un impiegatuccio). Inizialmente lo registrano con il cognome di “von Pistohlkors” riprendendo quello del primo marito dalla quale Olga aveva divorziato, poi gli appiccicano quel “Palej” che fa sempre riferimento alla madre che nel frattempo era diventata “principessa di Paley” grazie a una cortesia del reggente di Baviera che le dà il titolo di “contessa von Hohenfelsen”. Il giovane Palej, che pare avesse un bel talento per la poesia, verrà ammazzato a bastonate in un bosco sei mesi prima del padre.
La telenovela potrebbe continuare: ovviamente, essendoci di mezzo lo zar e la sua corte, la rivoluzione sovietica e la riscrittura della storia a più riprese dopo Kruscev, ecco che si potrebbe proseguire a lungo in un ginepraio di parentele e teste coronate. Il gossip cittadino riferisce che lei era «bellissima, alta, slanciata, con occhi splendidi», vestiva un «abito di panno scuro, cappello bianco di feltro a tese larghe con grande ciuffo di mammole». Total black per lui, «alto, magro, distintissimo». Celebrante, come detto, l’archimandrita assistito da due greci: Ottone Karistinos (cantore) e Luca Bastas. Testimoni, «i due ufficiali russi, aiutanti di campo del granduca». Presente anche «il cav. avv. Ugo Capuis» nelle vesti di notaio per tutte le beghe familiari. È proprio in casa del notaio, al civico 125 di corso Amedeo, che i due si fermano per un «dejeuner» e «brindisi secondo l’uso russo». Quindi passeggiata «fino a San Jacopo», infine alla stazione per prendere il treno. Sembra poco azzeccata la segnalazione del “Corriere” che dice siano stati visti a Montenero, addirittura sparando a vanvera che l’avevano «scambiato per l’imperatore Guglielmo»…
Il cronista si sbilancia e prevede che la coppia si stabilirà a Firenze, dopo che lo zar se l’è presa di brutto con Pavel e lo ha «destituito dall’alto grado di comandante in capo del corpo delle guardie». Non andrà così: so fermeranno a Parigi.
Questa storia sembra fuori sagoma rispetto a quelle che ho raccontato in questo blog. In realtà, lo è solo fino a un certo punto. Per dirne una: l’ala sud dei Casini di Ardenza è stata il “regno” per oltre trent’anni agli inizi del Novecento del barone Herbert von Beckendorff und von Hindenburg, il cui cugino Paul è quell’Hindenburg che è stato una figura-chiave in Germania fra la Grande Guerra e l’avvento di Hitler, un po’ sperando di arginarlo e un po’ illudendosi di indirizzarlo. Proprio nei giorni in cui sono a Livorno i due sposini russi, la baronessa tedesco-ardenzina, «figlia del principe di Munster, ex ambasciatore a Parigi», ospita una superstar dell’arte europea come lo scultore Auguste Rodin. Per dirne un’altra: la buona borghesia fiorentina, come dimostrano gli amarcord di Aldo Palazzeschi (scrittore) e di Primo Conti (pittore), guardava al mare di Livorno come poi quella milanese avrebbe guardato a Forte dei Marmi o a Portofino (e nel ’13 in vacanza con Palazzeschi c’è anche Filippo Tommaso Marinetti, che aveva da poco lanciato il futurismo).
Vade retro l’idea di invidiare la cosiddetta “eleganza” di locali che lascio volentieri a Briatore e Santanché: basta leggersi quel cripto-anarchico di Fabrizio Roncone che parla del Twiga sul Corriere, foglio quant’altri mai deutero-stalinista. Ma ripescare dal “com’eravamo” l’idea di una città accogliente – finalmente accogliente – forse servirebbe a creare valore, suddividere ricchezza e distribuire redditi. A meno che non pensiate che la Darsena Europa, ammesso tutto l’ammissibile (e incrociando, moltissimissimo, le dita), possa garantire migliaia di posti di lavoro anziché il consolidamento di quelli che ci sono già; a meno che non pensiate che là fuori ci siano folle di investitori che scalpitano per metter qui ciascuno di loro una bella industriona.
No, il “divertimentificio” non è la soluzione di tutti i guai: però intanto aiuta. A patto che chiami gente da fuori, anche solo per la girata domenicale (altrimenti è solo bisboccia per i nostri ragazzi). Provate a guardare le saracinesche dei negozi che chiudono per sempre, provate a considerare quanto ancora potrà durare l’ammortizzatore sociale della pensione di nonna. Già ora viviamo un lento declino mogio, occhio che non diventi meno lento e più mogio.
Tifo per Olga, peccato per lei che la bella storia non sia una bella favola. Sicuramente bella, la sposa, sicuramente sfortunata nella fortuna. Una bella città a contorno di un bellissimo amore, presumo, sangue blu come il mare. Il tutto, raccontato bene, alla livornese. Grazie.
Grazie per la sua attenzione. Il pretesto (gossip) era un gioco anche se la storia è tragica, dietro ho provato a mettere come quinta di scena qualcosa di noi, qui e ora. Chissà