Some of the stories that I'd like to print (cit. Ochs feat. Zuc)
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La giovane livornese che scappò di casa per rinchiudersi in un convento di clausura in nome della libertà
Erano gli anni delle primissime lotte per l’emancipazione femminile, e questa è una storia che fa saltare in aria gli schemini facili: una ragazza vuol decidere della propria vita e sparisce di casa, la famiglia la porta in tribunale, la via crucis continua in clinica psichiatrica, fugge di nuovo, poi ce la fa. A far cosa? Diventare monaca, al di là di una grata. E alla fine…

di Mauro Zucchelli

La Grande Guerra era finita appena da qualche settimana: un “virus” avrebbe contagiato il mondo ben più di quanto stava facendo la terribile epidemia di “spagnola”. Avrebbe cambiato per sempre la storia: era il “virus” (positivo) della voglia di partecipazione politica, il “virus” del voto. Chiedeva un allargamento del suffragio che avrebbe chiamato in campo anche le classi popolari: gli operai, i facchini, i braccianti, i fabbri, i manovali, i tessitori, i ciabattini, i fornai, i camerieri. Ma l’avete notato che sono tutti nomi comuni maschili? Restava fuori l’altra metà del cielo: le donne.

Ecco che la scena della politica e dei movimenti si popola di storie personali straordinarie: in Inghilterra dove le “suffragiste” fanno decollare la lotta, ma anche qui da noi.

Confesso, l’ho presa larghissima. Ma per dire qual è il contesto in cui si muove la nostra piccola grande storia di casa nostra: riguarda una giovane donna di trent’anni, livornese, buonissima famiglia borghese. Si chiama Evelina Piccioli, classe 1888, compleanno il 18 agosto: lo stesso di Elsa Morante. È nata nello stesso periodo di una leader socialista come Argentina Bonetti Altobelli, sindacalista emiliana che guida i contadini, e vent’anni più tardi di Anna Franchi, scrittrice e giornalista livornese protagonista di battaglie per i diritti delle donne, appartenente anch’essa a quell’ambiente dell’élite labronica mazziniana che pare simile a quello della famiglia di Evelina.

Nessuna né delle “suffragiste” né delle emancipate dirigenti progressiste però compirà un gesto tanto radicale quanto quello di Evelina: scappare di casa pur di affermare il diritto a scegliere il proprio futuro. Ma con una scelta che spiazza non solo i genitori di lei più di un secolo fa ma anche noi qui oggi: scappa di casa per farsi suora di clausura. Non è tutto: benché tanto la famiglia che lei non manchino di rivolgersi parole di grande affetto, lo scontro diventerà un duello in tribunale e perfino un internamento psichiatrico.

Mutando gli addendi, potremmo vederlo come qualcosa di simile al processo al prof. Aldo Braibanti, accusato di plagio, all’inizio degli anni ’60, in una vicenda che lo vede un suo giovane discepolo contrapposto alla sua famiglia d’origine che, su posizioni ultraconservatrici e cattolico-tradizionaliste, non ne accettava la scelta di essere omosessuale e di vivere da artista. Anche in quel caso la cosa finì con l’internamento in manicomio (e il carcere per il prof).

In realtà, questa religiosa così fuori dal comune credo di averla conosciuta: lei era ormai molto anziana e io ero bambino, non so come mia madre ne aveva incrociato la strada. Non so come, già: è difficile capire da dove passino i sentieri di chi vive in clausura e come si faccia a attraversarli. Ma ricordo ancora una figura nella penombra al di là di una doppia grata e una manina piccina picciò, mi sembrava perfino più piccola di quella mia di bambino. Del resto, lei stessa si descrive come persona di gracilissima salute fin dalla nascita. Ad esempio: «La morte voleva farmi sua preda appena schiusi gli occhi alla luce». Quindi: «Il fiorellino rinvigorì per poi tornare ben presto a impallidirsi e a reclinare la sua piccola corolla». Come dire: infanzia e adolescenza sono «un succedersi di malattie». Curate spedendola in campagna: dove Evelina scopre «le bellezze della natura» ma anche le vite dei santi e dei martiri che la contadina le dà da leggere. La salute si aggrava attorno ai dieci anni per via di una fortissima anemia.

Tutte cose che suor Celina Maria del Cuor di Gesù, questo il nome nel passaggio alla congregazione delle carmelitane scalze, indica una per una raccontando la sua vita in una sorta di memoriale che ho trovato: risale alla fine degli anni ’70. Pubblicato, credo dal vescovo Alberto Ablondi, tre anni dopo la morte di Evelina-Celina ormai ottantaseienne (e a sessant’anni da quel gesto di ribellione forte in una ragazzina umile dalla salute malferma ma dalle idee ben chiare): proprio mentre là fuori si sentivano tuoni e lampi della tempesta sociale contrassegnata da uno scontro stavolta non più fra eserciti ma fra gruppi, classi, ceti, generazioni.

Il racconto della vocazione risente del linguaggio – un po’ mistico, un po’ aulico – con cui una ragazza rivendica a sé la scelta di cosa fare della propria vita: anzi, l’adesione a una chiamata che viene dall’Alto. C’è la refrattarietà dell’ambiente familiare: «circondata com’ero da persone profondamente dotte ma senza religione». C’è l’adorazione e, dopo il rifiuto, gli sberleffi d’un giovanissimo parente che la voleva come fidanzata: vede in Gesù Cristo un pericoloso “rivale” nell’accaparrarsi il cuore della sua amata e dunque accentua gli sfottò più ruvidamente antireligiosi.

Tutto ruota attorno a una regola-chiave: occorre il consenso della famiglia per poter entrare in monastero, e il sì non c’è. Anzi, Evelina – che non si lascia mai andare ad accenti sprezzanti nei riguardi dei suoi – prova prima a fare la brava figliola di casa, smussa gli angoli e raddoppia le preghiere ma quando sta per conto suo. Per il resto, abbozza. Si illude di strappare il via libera. Non sarà così: al contrario, le dicono che farà morire di crepacuore il babbo.

Dal “diario” emerge un fortissimo legame con il padre visto con gli occhi della figlia. Ma lui le sbarra la strada in modo sempre più definitivo: in convento no. La famiglia è convinta che lei si sia fatta abbindolare da quel gesuita che è diventato suo consigliere spirituale; Evelina è sicura che dietro l’irrigidimento dei genitori c’è la malevolenza di alcuni conoscenti interessati. Fatto sta che in effetti la date si incrociano: nel giugno 1925, dopo oltre sei anni da postulante, la giovane donna ormai trentasettenne indossa la veste da carmelitana scalza prendo il nome che richiama la sorella di Teresa di Lisieux, mistica francese di fine Ottocento (è un percorso che completerà fra il giugno ’26 e il dicembre dell’anno successivo). Nel frattempo, nel dicembre ‘25 si spegne il padre. Il giorno in cui era fuggita da casa la lettera di commiato l’aveva indirizzata a lui: «Tu volevi la tua Evelina felice, ora lo è e lo sarà per sempre. Questo pensiero ti dia la forza di sopportare questo colpo che riconosco grave». Balza agli occhi una cosa che ci siamo dimenticati: anche in famiglia in quegli anni lontani i figli davano solitamente del “voi” al padre. Qui no, è il segno di una confidenza fuori dal comune.

Ma prima di arrivare a quel punto c’è una giovane donna che sparisce dalla sua casa facendo finta di andare a una funzione religiosa: se ne va alla stazione, prende un treno in cui passa la notte a Pistoia per lasciar transitare i convogli militari, alle 8 del mattino seguente arriva a Modena. Lì c’è un convento che la accoglie. Solo per una serie di combinazioni: Evelina racconta che per farla distrarre dalla sua idea la spediscono in montagna (Badia Prataglia) per accompagnare una parente. Durante quel periodo le si avvicina «una ricca signora spagnola» che ha conoscenze altolocate nella congregazione carmelitana: sembra un pretesto bislacco come la seduta spiritica del caso Moro, giusto per coprire qualcuno, fatto sta che la misteriosa donna le fa avere il sì di un superiore, con questo si presenterà al convento e la accoglieranno. Chissà se sapeva che lei era scappata di casa: lei non l’ha precisato, la donna spagnola non l’ha aggiunto, il superiore non l’ha domandato…

Non è mica finita. Nel bel mezzo c’è la (doppia) battaglia campale in tribunale. Lei ha una spiritualità che riprende proprio da Teresa di Lisieux quell’accento sulla propria piccolezza come il “luogo” in cui, proprio in ragione dei propri limiti, si manifesta la grandezza dell’agire di Dio. Si definisce “vaso di coccio”, cioè fragile e di minimo pregio, in mezzo al mondo. Dunque, è difficile che, a lato delle sue riflessioni religiose, lei abbia una qualche consapevolezza politica: lo dimostra il fatto che i suoi familiari schierano come avvocato un campione dei diritti civili come Giuseppe Mené Modigliani, fratello di Modì, ma anche fra i più importanti parlamentari socialisti dell’epoca, al pari di Filippo Turati o quasi. Tra parentesi: curiosamente, nel memoriale della religiosa, finisce citato erroneamente come «Vitt. Emanuele Modigliani» e si limita a dire che è «uomo molto conosciuto nel campo politico». Come se volesse evitare di colorire di politica qualcosa che lei considera solo dal punto di vista religioso. Al tempo stesso, la sua causa civile in Emilia viene affidata a Luigi Lusignani, ex sindaco liberale di Parma che poi si avvicinerà ai fascisti (ma tendenza Farinacci, dunque venendo espulso due volte dal Patito fascista perché estremista).

Ma la “politicizzazione” è una lente che funziona poco o punto: alla fine vince lo schieramento destro-cattolico contro i “rossi” e gli anticlericali: eppure o io sono completamente rimbambito o “Il Telegrafo” della famiglia Ciano non dedica neanche un rigo nell’estate ’38 alla creazione del nuovo monastero di madre Celina, che pure nello schemino precostituito sembrerebbe una vittoriona. Cosa c’è di tanto importante in quelle pagine? In cronache da Minculpop che neanche ci immaginiamo, non mancano pezzi sul “concorso di prestanza fisica infantile” o gli appuntamenti sportivi allo “Sferisterio G. Marradi”; la «mostra canina organizzata dall’Estate Livornese» ovviamente in «una splendida cornice», magari «La vita al Campo mobile degli avanguardisti livornesi» così come la «fervida preparazione della festa della Cacciuccata» (che terrà banco per settimane). Mai più senza: il “lancio di fagiani in riserva” o anche, senz’altro in apertura di cronaca, «Un primato della nostra Provincia nella difesa della stirpe» mentre la seconda notizia del giorno è «L’uva come alimento e come medicina»…

Dunque, forse lo schemino semplicistico sta in piedi fino a un certo punto. Così come le idee preconfezionate un tot al chilo. Ad esempio, un inatteso sostegno al voto femminile arriva da papa Benedetto XV nel 1919 (quello della Grande Guerra come «inutile strage» e «suicidio dell’Europa»), dopo che a dire il vero il suo predecessore era stato contrario e mentre pure i socialisti temevano che l’elettorato femminile avrebbe dato man forte ai conservatori. In effetti, anche fra le “suffragiste” non mancavano i casi di femministe di destra.

Questo filo rischia di portarci fuori strada: l’excursus può essere servito a capire che le catalogazioni facili non servono. Ripartirei invece dal fatto che Evelina-Celina mette l’accento su un atteggiamento provvidenzialistico: avverte l’intervento di Dio nella sua storia personale. Come quando nella causa civile cambia il procuratore del re e il subentrante, religiosissimo, chiude in quattro e quattr’otto ogni azione della famiglia contro di lei. Come quando lascia la clinica psichiatrica ligure dove deve fare gli accertamenti per decisione del tribunale di Livorno: scappa di nuovo, finisce alla stazione, prende un treno e, grazie prima a un capostazione e poi all’ultimo vetturino rimasto, riesce a far ritorno al monastero (salvo scoprire in seguito che, dirà lei, il treno utilizzato non risulta nell’orario ferroviario ufficiale…).

L’altra metà della battaglia legale della famiglia per riprendersela passava da farla certificare come povera pazza, per gli altri qualcosa di simile alla circonvenzione di incapace. Per l’accusa era «coartata la mia volontà» e lei veniva fatta «passare per una incosciente, una idiota suggestionata, bisognosa quindi di venire interdetta»: tutto questo per iniziativa della famiglia, ma al tempo stesso continuando a manifestare amore ma richiedendo che venisse rispettata la sua libertà. Insomma, una bella babele di sentimenti: a maggior ragione se pensiamo che siamo agli inizi del secolo scorso.

Non siamo ancora ai titoli di coda: da Modena la spediscono in un convento carmelitano a Roma (Santo Stefano Rotondo sul Celio). È qui che nel ’36, «nell’anniversario della mia partenza da casa», riceve la visita della sorella Bianca: niente recriminazioni sul passato, – racconta lei nel memoriale – è la ripresa dei contatti con la famiglia. Ma in modo del tutto particolare: i superiori stanno cercando un luogo dove fondare una nuova casa religiosa, una amica le suggerisce di indicare Livorno e lei lo vede di nuovo come un segno provvidenziale. Sì, sarà Livorno: anche perché l’allora vescovo Giovanni Piccioni caldeggia il progetto. Ma dove? Suor Celina torna nella sua Livorno, stavolta da suora carmelitana: la ospitano le suore di via Baciocchi (zona via Marradi), dove lei era andata a scuola. È lì che, quasi vent’anni dopo la fuga da casa, incontra sua madre: la famiglia sembra aver accettato la scelta di Evelina, che ora va per i cinquant’anni.

Riecco di nuovo la visione provvidenzialistica: l’istruttoria sembra girare a vuoto, i fondi sono pochi e bisogna farseli bastare. Lei non sa proprio cosa scegliere. La racconta così: si affida all’Altissimo e gli chiede un segno, una rosa. La trovano in un campo fra Ardenza e Antignano, lì dove c’è il monastero delle carmelitane anche adesso. Il “debutto” della nuova clausura è nell’autunno ’38, mentre il Duce e il re con la firma delle infami leggi razziali si accodavano a Hitler e incamminavano il nostro Paese sul piano inclinato che avrebbe portato alla guerra. Nel d-day del nuovo monastero c’è mamma Piccioli, le sorelle di Evelina. Lei sale il colle di Montenero per andare al camposanto a rendere omaggio alla tomba del padre.

La guerra si è fatta sentire anche dentro la clausura: prima i bombardamenti alleati, poi l’occupazione nazista dal 13 settembre ’43, quindi l’arrivo dei soldati inglesi: le suore vengono fatte sfollare nella certosa di Calci. Torneranno nell’autunno ’45 dopo che è stato riparato quanto restava del convento. Di quella comunità suor Celina è priora nell’immediato dopoguerra e per buona parte degli anni ’50: a dire il vero, però, resta come riferimento anche in tutti gli anni a venire fino alla morte nel ’74.

Anche in seguito il Carmelo continua nel suo ruolo di punto di ascolto dei mille problemi della città. Lo sa chi conosce il carisma dei religiosi che vivono in clausura: la separazione fisica dal mondo non significa infischiarsene, al contrario è proprio da quest’altra prospettiva che forse si riesce, come nelle cuffie migliori, a compiere la cancellazione del rumore di fondo, il frastuono delle mille cose che attraversano più o meno utilmente le nostre vite. L’hanno sperimentato i tanti livornesi che, indipendentemente dal fatto di essere credenti o no, hanno trovato una disponibilità all’ascolto che è merce rara.

Sbaglierebbe di grosso chi si affidasse ai luoghi comuni per descrivere sia l’esperienza umana di queste suore sia la dimensione spirituale. Non è cero per strizzare l’occhio alla moda che hanno lasciato la clausura ma hanno aperto la chiesetta alla messa-web per mettersi in contatto via social con tutta una platea di fedeli. L’hanno chiamato il “monastero invisibile” e vive sul profilo Facebook della “parrocchia virtuale” che la diocesi di Livorno ha intitolato a un santo-ragazzino, Carlo Acutis, morto quindicenne smanettone nel 2006.

Qui da noi il Carmelo è stato punto di riferimento anche fuori dal recinto cattolico. Ricordo di esser stato qui al funerale di un ex dirigente comunista di primo piano come Massimo Guantini, morto nel 2012 a 63 anni dopo esser stato segretario cittadino, capogruppo consiliare e più volte assessore. Per lui le monache hanno fatto uno strappo alla regola per cui non si celebrano nella loro chiesetta funerali di “esterni”: era «uno di casa e lo accogliamo volentieri». Toglietevi dalla testa l’idea di una location inconsueta e stop, come fosse il matrimonio di una influencer. L’allora sindaco Cosimi l’aveva ricordato citando Agostino: «Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto».

La predica quel giorno ha avuto la voce di monsignor Paolo Razzauti – che al Carmelo è un punto di riferimento da anni – ma in realtà l’ha fatta l’ex dirigente comunista: erano brani delle meditazioni del “Professore”, così lo chiamavano le monache – nella sua “traversata del deserto” della malattia, dopo le lezioni alla Gaia Scienza sui grandi testi classici e sui vangeli, compresi quelli apocrifi. «Sono legato alla vita come un corallo al fondo del mare, per consuetudine e pigrizia. Vorrei l’incoscienza, una forte fede, un sonno appagante. Sono un tonno che si dibatte nella rete. Vivo la condizione di tanta povera umanità. Forse non sono mai stato uomo come in questo momento».

Basti ricordare figure come quella di Edith Stein, una suora carmelitana arrivata alla scelta della clausura dopo una traiettoria esistenziale alquanto complicata ma nel segno dell’empatia: la sua scelta di opposizione radicale al nazismo le costò l’internamento a Auschwitz (e la morte nel campo di sterminio). Rinchiuse al di là di una grata, ma capaci di scelte di libertà: tempo fa è stata proprio una lettera dalle clausure di sessanta monasteri ad alzare la voce nella “piazza” collettiva per chiedere politiche meno infami nei riguardi dei migranti.

Nelle foto, dall’alto: suore al di là della grata del parlatorio di un monastero di clausura; il campanile del monastero delle carmelitane fra Antignano e Ardenza; Evelina Piccioli suora con il nome di Celina Maria del Cuor di Gesù; una panoramica dell’accesso al monastero livornese (le immagini sono state scattate personalmente o rintracciate in rete, in caso di problemi relativi ai diritti segnalatelo nei commenti e provvederemo a rimuoverle immediatamente)

3 Comments

  1. Gio ha detto:

    Bravo cognato racconta sempre cosi ,e’ bello leggere queste storie.

    1. Mauro Zucchelli ha detto:

      Grazie, sono contento che ti sia piaciuta

  2. Salvatore Giosuè Luigi ha detto:

    Grazie. Questa narrazione mi ha evocato esperienze personali di incontro con persone carismatiche. Suggestive al primo ed unico contatto. Ho avuto da bambino, oltre la grata, l’esperienza di visitare l’interno di un monastero di clausura in costruzione. Mi accompagnò una suora di clausura che mi diede modo di percepire, per la prima volta, il senso di carisma da lei. Tutto avvenuto nel silenzio del luogo, oscurità tra i muri del cantiere ed il contrasto della luce del campo di lavoro. Poche parole ma eccezionali per me bambino. Grazie ancora.

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