Attentato in zona Uffizi, l’enigma dell’esplosivo e quelle “strane” tracce chimiche nelle perizie (contestate) sul Moby Prince

Le sostanze esplosive usate nel ‘93 nella strage dei Georgofili le troviamo anche nella prima super-perizia su cosa c’era nelle stive del traghetto inghiottito a Livorno dal rogo dopo la collisione con la petroliera. Ma è accaduto due anni prima e quegli accertamenti sono contestati dagli altri esperti

di Mauro Zucchelli

«Tritolo, T4, pentrite, nitroglicerina, nitroglicole, dinitrotoluene». Paolo Borrometi, condirettore dell’agenzia Agi e giornalista-simbolo nella lotta anti-mafia, li indica come gli elementi che gli esperti hanno individuato sulla scena dell’attentato della strage dei Georgofili, il “messaggio” che nel maggio ’93 la mafia di Totò Riina manda allo Stato. La mafia? Ho raccontato nel precedente post che il “pentito” Gaspare Spatuzza ha detto: «Quei morti non ci appartengono». Ho raccontato che Spatuzza, uno del commando mafioso, ha detto che loro avevano messo “solo” tritolo. E il resto? Esplosivo militare. Ce l’ha messo qualcun altro. Ma soprattutto, tritolo, T4, pentrite, nitroglicerina, nitroglicole, dinitrotoluene, dov’è che li avevo sentiti?

Li avevo trovati nell’inchiesta che avevo realizzato in occasione del 30° anniversario della strage del Moby Prince, il traghetto a bordo del quale a poche centinaia di metri dalla costa di Antignano, appena dopo esser partito dal porto di Livorno, un gigantesco rogo aveva inghiottito le esistenze di 140 marittimi e passeggeri dopo la collisione con una petroliera della flotta Agip nella primavera ‘91. Trinitrotoluene (tritolo), etilenglicoledinitrato (nitroglicole), dinitrotoluene, pentrite e T4, oltre a nitrato d’ammonio: ecco quel che il superchimico-007 Alessandro Massari, un perito che ha alle spalle la “scuola” dell’Fbi americana (e che è presente in molte delle inchieste sulle stragi), ritiene di aver trovato all’interno di un locale del Moby Prince: tracce infinitesimali ok, ma tracce. Con un ventaglio di elementi pressoché identici all’esplosivo dei Georgofili.

Guai a farsi prendere la mano: ci sono in mezzo due anni di tempo e dunque a bordo del Moby non poteva esserci l’esplosivo dei Georgofili, è accertato che ha viaggiato fino al porto di Livorno a bordo di un altro traghetto, ma dentro un camion spedito via mare. Il punto è un altro: c’era qualcuno che trasportava esplosivi tramite traghetti in quegli anni? È stato il sospetto anche del capo della polizia Vincenzo Parisi, ex numero uno dell’ “intelligence” (Sisde), in una segnalazione riservata al ministro poco tempo dopo la strage del Moby.

Ma è una ipotesi estremamente controversa: sembra che inizialmente abbia visto la conferma della presenza di esplosivo militare semtex da parte dei laboratori scientifici Enea (ma non ne è stata trovata poi traccia in atti ufficiali).E tuttavia è stata poi contestatissima da una sfilza di super-consulenti: da ultimo anche quelli della commissione parlamentare d’inchiesta della Camera guidata dal deputato livornese Andrea Romano, della quale hanno fatto parte fra gli altri anche il leghista Manfredi Potenti come vicepresidente e il pentastellato Francesco Berti come consigliere, ambedue labronici.

È accertato che nel locale delle eliche di manovra c’è effettivamente stata una esplosione: un camion collocato al piano al di sopra di esso è stato scaraventato verso l’alto, contro il soffitto. Ma gli effetti della deformazione sono tali da esser riconducibili a una esplosione di una miscela gassosa anziché all’onda d’urto che si genera per lo scoppio di un ordigno. Lo dicono in coro, nel corso degli anni, una serie di esperti in campo esplosivistico, soprattutto della Marina militare (mentre Massari è un chimico che si occupa di rilevare, con strumentazioni d’avanguardia, la presenza di elementi chimici in un determinato luogo).

La commissione di Montecitorio riferisce che le perizie sulla presenza di sostanze chimiche esplosive ha bisogno di essere effettuata il più presto possibile mentre gli accertamenti di Massari – ovviamente non per “colpa” sua ma perché era stato inviato sulla scena con molto ritardo – sono avvenuti a distanza di molti mesi, in un ambiente come quello marino che è assai aggressivo dal punto di vista chimico. A ciò si aggiunga che, a maggior ragione, non si hanno garanzie sul fatto che la scena non sia stata “contaminata”: anzi, questa viene indicata come la più probabile dai periti contrari alla tesi di Massari.

Ok, ma se ho voluto ugualmente richiamare questa vicenda è per segnalare il contesto, riprendendo il romanzo di Leonardo Sciascia: nato come parodia e, forse suo malgrado, diventato denuncia e scandalo, non tanto perché rivela una qualche trama specifica nella “notte della Repubblica” ma perché descrive un ambiente meglio di un reportage giornalistico o dell’ordinanza di un magistrato inquirente. Un contesto, appunto. In questo caso, il contesto – accreditato anche nei report top secret del capo della polizia (nella realtà del Moby, Prince, non nella finzione di Sciascia – ci racconta molto di cos’è stato il nostro Paese agli inizi degli anni ’90, nell’apocalisse della Prima Repubblica che stava liquefacendosi.

Ecco cosa scrivevo sul “Tirreno” nella primavera di due anni fa nelle prime due puntate di questa lunga inchiesta sulla strage del Moby Prince. L’ho lasciato così com’è, senza ritoccarlo ex post, errori compresi. Sarà un po’ lunghina, abbiate pazienza: parecchia pazienza. Let’s roll!

L’ESPLOSIVO DELLE STRAGI (dal Tirreno 1 aprile 2021)

Sette tracce proprio piccine picciò. Ma i sette nani di questa brutta storia non si chiamano Mammolo o Brontolo bensì: 1) Nitrato di ammonio; 2) Etilenglicoledinitrato; 3) Dinitrotoluene; 4) Trinitrotoluene; 5) Pentrite; 6) T4, che è il soprannome di “1,3,5, trimetilene 2,4,6 esaciclotrinitrammina”. Forse conoscete solo il settimo: Nitroglicerina. E se questo vi sa di bombe e dinamite, avete ragione. Di queste tracce parla Alessandro Massari, uno 007 che non ha mai fatto il James Bond ma in camice bianco ha dovuto cavarsela contro nemici ben più terribili: magari usando, anziché la Smith & Wesson, il gascromatografo o lo spettrometro di massa di cui probabilmente finora avevate letto solo nelle pagine di Lyncoln Rhyme e Amelia Sachs.

Quelle sette tracce piccine picciò le ha trovate nel relitto del Moby Prince, in un locale delle eliche di prua poco accessibile. I virgolettati arrivano pari pari dal dossier tecnico di questo superpoliziotto che nello stato maggiore della Direzione centrale è stato il responsabile nazionale della sezione chimica della polizia scientifica.

CACCIA ALLE SETTE TRACCE.Di quelle sette sostanze esplosive troviamo tracce anche altrove. Nei faldoni degli atti processuali della lunga serie di stragi che hanno accompagnato la storia della nostra Repubblica. Ad esempio, nell’autobomba saltata per aria a Roma in via Fauro il 14 aprile ’93 (per intimidire Maurizio Costanzo) le indagini individuano «nitroglicerina, etilenglicoledinitrato, isomeri del dinitrotoluene, trinitrotoluene, nitrato di ammonio, T4 e pentrite». Una dozzina di giorni più tardi, a Firenze sul retro degli Uffizi esplode un furgoncino Fiat imbottito di esplosivo per fare un botto enorme: in quei 277 chili c’erano «pentrite, trinitrotoluene, T4, nitroglicerina, Nitroglicol e dinitrotoluene».

Passano due mesi e a Milano al Padiglione d’Arte Contemporanea ancora una esplosione omicida: vale la pena di ricordare che fra i componenti dell’ordigno risulta vi sono «nitroglicerina, etilenglicoledinitrato, dinitrotoluene, trinitrotoluene, pentrite, T4 e nitrato d’ammonio». Nella stessa notte – non c’è bisogno di aspettare due ore – salta per aria la chiesa del Velabro a Roma: rieccoci alle prese, a giudicare dagli atti processuali, con «etilenglicoledinitrato, nitroglicerina e dinitrotoluene». L’ipotesi non è spuntata fuori soltanto adesso dal moulinex delle supposizioni: la perizia è un documento ufficiale e porta la data di un mercoledì di fine febbraio ’92, neanche undici mesi dopo l’apocalisse del traghetto Livorno-Olbia. Ma era già da un mese che maturava qualcosa nei campionamenti: Massari è al lavoro da metà novembre, chissà se come si sussurra è davvero un tecnico della polizia scientifica della questura livornese ad avere l’intuizione. Fatto sta che il 22 gennaio ’92 è Il Tirreno, con una anticipazione della cronista Elisabetta Arrighi, a rivelare che si sta lavorando attorno all’ipotesi della presenza di una boma a bordo.

I POLIZIOTTI AL “TIRRENO”. Quel giorno stesso la polizia piomba nella redazione di viale Alfieri per sequestrare una foto: lo ricorderà Arrighi nel suo “Moby, novemila giorni senza verità” (Ets). Intanto il capo della polizia Vincenzo Parisi firma un appunto in pari data per evitare che alle orecchie del ministro Vincenzo Scotti la cosa arrivi tramite la stampa o dai tg serali anziché per i canali di polizia. Diamo un’occhiata a quell’appunto: Parisi si limita a accennare al fatto che le «prime complesse analisi chimico-fisiche» sulla carcassa del Moby evidenziano «tracce di tritolo e di nitrato d’ammonio su materiali prelevati nel locale del Moby Prince destinato all’alloggiamento del motore elettrico e delle eliche di manovra di prua».

Il ministro dev’essersi infuriato: alla guida del Viminale c’è il solito democristiano smussa-spigoli, ma è un “coniglio mannaro” come di Forlani avrebbe detto Pansa. Non c’erano né il web né i social però quelle poche righe del suo braccio destro al vertice della struttura investigativa avrebbe potuto leggerle di primo mattino sul Tirreno. Passano sei giorni e Parisi insiste sull’esplosivo ma segnala che le indagini «al momento escludono la pista terroristica».

E allora cosa ci combinano quelle “impronte” di esplosivo? Prima ipotesi: un’«azione intimidatoria di natura estorsiva, ai danni della società armatrice». Oppure: «il casuale scoppio di materiali esplodenti abusivamente trasportati a bordo». È quest’ultima una sottolineatura che si perderà per strada, e tuttavia potrebbe essere un filo rosso per farci capir qualcosa: Massari spiega che non sa se l’esplosione è avvenuta prima, durante o dopo la collisione. Come dire: non so se c’entri qualcosa. Magari nel Moby andato a sbattere c’erano queste sette sostanze esplosive nascoste, forse nemmeno sono esplose ma bruciate. Forse non spiegano l’apocalisse del traghetto eppure ci raccontano moltissimo di quel che era il nostro Paese all’inizio degli anni ’90. Appena prima che saltassero per aria i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Un filo rosso nel segno dell’esplosivo: lo ritroviamo nella proposta di legge depositata a febbraio dal parlamentare M5s Francesco Berti per chiedere che, dopo l’imponente lavoro dei senatori sulla sciagura, anche i deputati creino una commissione d’inchiesta. Era quel che avevano chiesto anche Manfredi Potenti (Lega) e, fin da prima di Natale, Andrea Romano, deputato dem.

L’AUTOGOL DELLO 007. Ma Massari compie anche un errore clamoroso. Parte da quelle tracce accertate con le migliori tecniche scientifiche disponibili – contestate solo dal colonnello Schiavi – e per evitare che restino lì con un effetto “bomba” che non lascia in piedi nulla, prova a “vestirle” con un teorema che dia indicazioni sul copione del film di quella notte: cosa è accaduto. Lui è il più brillante esplosivista che ha a disposizione la Criminalpol, ma non è un capitano di lungo corso in plancia di comando né un ingegnere navale. Lo fanno a pezzi quando si avventura a costruire lo scenario da Matrix con il traghetto che colpisce la petroliera mentre sta tornando nel porto di Livorno perché danneggiato dall’esplosione.

Basta mettere insieme velocità del Moby, tempi e traiettoria di una possibile inversione della rotta, modalità d’impatto ed ecco che il castello delle ipotesi salta. Il dossier consegnato ai giudici da Mariperman, l’istituto della Marina militare che da più di cent’anni si occupa di armi (e in particolare degli effetti di esplosivi sulle navi), è una cannonata contro l’ipotesi che nel locale delle eliche di prua sia esplosa una bomba ad alto potenziale. Per riassumerla (a rischio di semplificare assai): l’onda di deformazione generata dall’esplosione di una bomba ha un punto di origine e, diciamo così, una direzione, è contraddistinto da una altissima forza d’impatto e strappa i materiali che incontra. Quella prodotta da un gas che abbia saturato l’ambiente, invece, no: lascia una deformazione grossomodo sferica, meno forte è l’urto che si propaga tutt’attorno.

Massari e Mariperman parlano due lingue differenti e anche le immagini delle deformazioni vengono lette in modi contrapposti: fatto sta che i periti in campo fanno fronte comune con Mariperman e l’esperto esplosivista viene svillaneggiato come un tipo in cerca di notorietà che si era fatti suggestionare dalla “voglia di scoop”. Risultato: affondato lo scenario proposto dall’esplosivista della Criminalpol con quel Moby che torna indietro; ko anche l’ipotesi che una esplosione avvenuta prima dell’incidente possa aver causato la collisione contro la petroliera (se l’esplosione è da gas per via del petrolio che si travasa sul traghetto dalla petroliera, è indubbio che sia capitata dopo lo scontro).

LE COSE CHE NON QUADRANO. E poi c’è il mozzo Alessio Bertrand, l’unico sopravvissuto, che giura: nessuna esplosione. Magari era sotto stress o, come dice l’ex pm Luigi De Franco che ha seguito le indagini prima di passare ad altro ufficio, forse la sua ricostruzione ha qualche ombra. In effetti, c’è stata, eccome: è impossibile il contrario visto che, gas o tritolo che fosse, un terribile botto ha scaraventato verso l’alto il camion parcheggiato sul ponte sopra le eliche di prua schiacchiandolo contro il soffitto. E questa è solo una delle cose che non quadrano. Qualcun’altra? Ad esempio, il fatto che i “fari” (“cappelloni”) con cui la ricostruzione ufficiale dice che il comando del Moby si è auto-accecato puntandoli come “abbaglianti” contro la nebbia in realtà servivano per illuminare la prua, come riferirà il nostromo del Moby Ciro Di Lauro, miracolosamente scampato perché in extremis non si imbarcò. Motivo plausibile: e se fosse accaduto lì qualcosa di inatteso come un’esplosione?

C’è anche qualcos’altro. Se l’esplosione è stata causata dai gas aspirati dal sistema di aerazione, come mai le tracce di esplosivo Massari le ha trovate solo in quella zona, e non in tutte le altre dove quei vapori di petrolio venivano “soffiati” dentro dagli aeratori? E se il traghetto era devastato da un enorme rogo con temperature più tremende dell’inferno dantesco, come faceva a funzionare il sistema di aerazione? La cosa ne porta con sé mille altre: le vedremo. Mettetela come volete, resta un dato inoppugnabile: quelle sette tracce di esplosivo c’erano. Eppure sparite per sempre: cancellate proprio quando le “cattura” una soluzione di acetone: un “luminol” delle molecole di esplosivo. Inghiottite dalle perizie: eppure perfino chi contesta l’esplosione di una bomba si limita a snobbare l’ipotesi che a bordo fosse trasportato o nascosto un ordigno. Inghiottite anche dal destino del Moby: il relitto è sparito anche quello.

Le indagini affidate alle Fiamme Gialle (Scico), nel rapporto firmato dal colonnello Alessandro Cavalli segnalano che già otto mesi dopo la collisione il relitto non apparteneva più alla Navarma: l’ha acquistato «una società sconosciuta alla banca dati Lloyd’s che ne ha detenuto la proprietà fino al 31 maggio ’98» (tre giorni prima affonda nelle acque del porto di Livorno). La riporteranno a galla giusto per avviarlo «alla demolizione in Turchia», dicono i finanzieri. Ma in una storia così italiana di misteri e depistaggi, di stragi senza colpevoli e di vittime senza giustizia non manca l’ultimo giallo inquietante: lo scrittore anti-camorra Roberto Saviano racconta che pezzi del relitto sono stati smaltiti in modo illegale dai clan nella zona di Caserta.

I CENTO DUBBI DEL SUPER-PERITO DI CASA ALL’ FBI (dal Tirreno 1 aprile 2021)

Alessandro Massari, il superesperto a servizio della Criminalpol, non è esattamente l’ultimo apprendista stregone che gioca al “piccolo chimico”. Gli vengono affidate le perizie sulle grandi stragi che contrassegnano la lunga “notte” della Repubblica. Di più: ha confidenza con l’elaborazione tecnico-scientifica e già nel decennio precedente è di casa a Quantico, quartier generale dell’Academy dell’Fbi. Ancora: più che un semplice poliziotto prestato alla scienza, è accreditato nella comunità scientifica del settore se è vero che insieme ad accademici titolati firma dotti contributi specifici su “Journal of the American Society for Mass Spectometry”.

Eccolo alle prese con mille interrogativi, e non lo nasconde: è lui stesso a mettere nero su bianco che avevano dato esito negativo le «reazioni colorimetriche del tipo qualitativo», idem in modo appena meno perentorio tanto nell’analisi con la cromatografia su strato sottile (non si evidenzia «la presenza certa di tracce») quanto nella «microscopia elettronica a scansione automatica abbinata a micro sonda a dispersione di energia» (non si nota «la presenza di elementi significativi»); anche nella «gascromatografia/spettrometria di massa mediante analisi con acquisizione globale e mirata» saltano fuori solo Tnt, Dnt e nitroglicerina. Indica che cinque di essi sono «tipici di composizioni esplosive ad uso “civile”», gli altri due no: si trovano «soprattutto in esplosivi militari e in plastici da demolizione (Semtex H)». Però aggiungendo: «non è la sola possibile anche se certamente la più probabile».

GUERRA FRA PERIZIE. Gli altri periti si limitano ad accreditare l’esplosione da gas anziché da bomba. Quanto alle tracce di esplosivo, le snobbano: se è il gas a esser esploso perde interesse anche solo confutare la presenza delle sette tracce di esplosivo. È il colonnello Romano Schiavi forse l’unico in rotta di collisione con Massari. Come dice la sentenza di primo grado, Schiavi imputa a Massari di non aver fissato i “bianchi di riferimento”: di non aver preso campioni nel resto della nave per fissare il riferimento della dispersione di tali tracce nell’ambiente, anche perché è «basilare questa in una nave che può avere trasportato di tutto». Pure qui proprio da parte di chi la nega fa capolino la nostra ipotesi, aggiungendo: «anche esplosivi clandestini».

SULLE TRACCE DELL’ESPLOSIVO (da Il Tirreno 2 aprile 2021)

Non c’è niente di meglio della nebbia per far sparire dalla scena tutto quel che d’inconfessabile c’è nell’apocalisse del Moby Prince: 140 marittimi e passeggeri morti senza ricevere soccorsi a un tiro di sasso dal porto di Livorno. «Livorno ci vede con gli occhi», dice quella notte il comandante Renato Superina dalla petroliera in fiamme. Poco importa che una sfilza di testimonianze neghi la presenza anche solo di foschia. Roberto Saviano e Legambiente denunciano che è stata la camorra a smaltire la carcassa arrugginita del Moby Prince, in questa storia così italiana di misteri e coperture, immaginatevi se poteva mancare qualche altro mammasantissima.

È il superpentito di ’ndrangheta Filippo Barreca a raccontare una strana storia sugli esplosivi che la notte di quel mercoledì d’aprile andavano e venivano nelle acque del porto. Un romanzo anche questo? L’ennesimo pentito che cerca di cavarsela raccontando quel che i giudici vogliono sentirsi dire? A portare in Parlamento le dichiarazioni del pentito Barreca sul Moby è stata a novembre la deputata ex M5s Gloria Vizzini, ora fra gli europeisti filo-Conte raggruppati attorno a Bruno Tabacci, eletta nel proporzionale in Toscana.

L’EX CAPO ’NDRANGHETA. Occhi puntati su questo ex capo ’ndranghetista che inizia a collaborare nel ’92, diventa pilastro del lavoro degli inquirenti, ottiene (tanti) soldi protezione e nuove generalità, salvo poi vedersi mandare in rovina col trasferimento della fedina penale alla nuova identità così da far saltare crediti e affari. Lo toglieranno dal programma di protezione quando comincia a estendere le sue dichiarazioni al caso Moro (un autista dello statista fu “consigliato” di marcare visita la mattina del rapimento) e al disastro del Moby.

Cosa racconta il pentito calabrese? Che la rada di Livorno era un mercato in cui si trafficavano armi, lo riferisce sul “Fatto Quotidiano” il giornalista Francesco Sanna che al caso Moby ha dedicato un’appassionata attenzione culminata in due libri d’inchiesta. Lo rimarca mettendo l’accento su un poker di elementi. Il primo: le cosche che quella notte tengono d’occhio «un “mercato a mare notturno” di prodotti illegali». Il secondo: un appunto dei nostri servizi segreti militari che nel 2003 fa riferimento all’inserimento del caso Moby dentro un contesto fatto di traffico di materiale bellico recuperato, di scorie nucleari e di armi. Il terzo: la presenza di una folta schiera di navi militari o militarizzate Usa presenti in rada. Il quarto: un video che riprende la scena della notte della tragedia da lunghissima distanza e rimasto per una infinità di anni negli archivi di Granducato tv (Sanna spiega che non si sa perché è stato girato ma ricostruisce che è stato fatto con ottiche telescopiche molto potenti, forse militari, probabilmente dai boschi del Limoncino).

UNA STRAGE SUL LAVORO. L’hanno definita la più grande sciagura della marineria italiana nel dopoguerra, potremmo aggiungere che almeno dal punto di vista degli oltre sessanta membri dell’equipaggio morti è stata la peggior strage sul lavoro mai accaduta nel nostro Paese. Abbiamo già messo l’accento sul fatto che le tracce dell’esplosivo scovate da Alessandro Massari, responsabile del laboratorio chimico della Direzione della polizia: gli stessi elementi li abbiamo ritrovati quasi in fotocopia nelle stagione degli attentati di mafia a cavallo fra il ’92 e il ’93.

Dal punto di vista esplosivistico ma anche politico, non è più la “strategia della tensione”: quella stagione da fine anni ’60 a tutto il decennio successivo in cui un vecchio motto dei marines (qualsiasi problema può esser risolto con un’adeguata dose di esplosivo) era stato declinato, di fronte all’ondata di proteste studentesche e operaie, utilizzando lo stragismo per indurre nella “maggioranza silenziosa” una richiesta di ordine a qualunque prezzo. No, stavolta era Cosa Nostra: le bombe del ’93 arrivano dopo che lo Stato reagisce al duplice assassinio dei giudici-eroi antimafia (Giovanni Falcone a Capaci nel maggio ’92 e Paolo Borsellino in via D’Amelio meno di due mesi più tardi): c’è l’arresto di Totò Riina e soprattutto il durissimo giro di vite sui boss in carcere.

Sono gli attentati per “favorire” la trattativa Stato-mafia: agli inizi, sulla base dell’intuizione di un trafficone in combutta con Antonino Gioè, la mafia aveva capito che la minaccia ai grandi beni culturali poteva esser un ricatto simbolico fortissimo. Ve lo ricordate che all’improvviso blindarono la Torre di Pisa? Guai ad avvicinarsi soprattutto di notte: ecco, un motivo c’era e si chiamava Gioè.

STRAGISMO IN GESTAZIONE. Ma la storia del Moby è di quasi due anni prima, cosa c’entra? Restano le coincidenze sugli esplosivi, ma occorre che bisogna tornare appena un po’ indietro nel tempo per capire cosa sta accadendo nello scontro fra Stato e Cosa nostra: il grande maxi-processo alla nomenklatura della mafia inizia nel febbraio ’86 e in primo grado termina poco prima del Natale dell’anno successivo con una sfilza di condanne. Occhio al susseguirsi delle date. Il match di ritorno è in appello e, per far capire bene che aria tira, Cosa Nostra ammazza il giudice Antonino Saetta, papabile presidente del collegio giudicante. In secondo grado i verdetti nel dicembre ’90 sono più soft ma pur sempre con 12 ergastoli. Resta la Cassazione: e anche qui la mafia va in pressing con l’omicidio eccellente (agosto ’91) del giudice Antonino Scopelliti che avrebbe rappresentato la pubblica accusa di fronte alla Suprema Corte.

Come illustra il giudice Sergio Lari, procuratore a Caltanissetta, in audizione all’Antimafia, è in «una riunione del settembre-ottobre ’91» della commissione regionale dei superboss – la “Cupola”, insomma – che viene presa la «deliberazione di questa strategia di morte». Occorre arrivare al 2012 per vedere che la Direzione distrettuale antimafia fiorentina mette le mani sul canale per trovare l’esplosivo degli attentati mafiosi di quella stagione a cavallo fra ’92 e ’93: si pensa che il fornitore sia un 57enne che lo recuperava da una infinità di ordigni inesplosi della seconda guerra mondiale. Ma è una risposta a metà se è vero che nello stragismo mafioso il quantitativo di esplosivo usato «risulta determinabile in 1.280-1.340 chili» mentre il “pescatore” palermitano ne avrebbe rintracciato non più di nove quintali: ne mancano altri quattro.

Sia chiaro, in quegli anni i motivi per affidarsi all’esplosivo non si limitavano davvero a Cosa nostra. Non sono passati 40 giorni dall’apocalisse del Moby che a Carrara salta in aria nella sua auto l’ingegner Alberto Dazzi, uomo d’affari. L’omicidio resta un mistero ma, dopo aver sospettato, manco a dirlo, gli anarchici (sfrattati da Dazzi dalla sede storica), l’attenzione si sposta sulla criminalità organizzata. Del resto, sul finire degli anni ’80 si susseguono gli avvertimenti in dolce stil racket a suon di esplosioni lungo la costa fra l’ultimo pezzo di Toscana e il primo spicchio di Liguria che è Sarzana.

TANTO ESPLOSIVO. Basta guardarsi intorno, però, ed ecco che le cronache raccontano l’utilizzo di esplosivo per regolare gli scontri fra gang o per far sentire bene il pressing criminale senza arrivare all’omicidio.

Difficile, per dimostrarlo, scovare qualcosa di più cartesiano del dossier curato dalla sociologa Antonietta Mazzette per Università di Sassari e Fondazione Banco di Sardegna: niente mafia sarda, semmai la trasformazione delle modalità classiche di regolare i conti con una bella schioppettata. Ci vuole il botto. È la certificazione che si assiste a un boom dell’utilizzo dell’esplosivo proprio nel ’91. Con 385 attentati dinamitardi in Sardegna (rispetto a uno standard di 70-80 all’anno fino a poco tempo prima).

Il sogno di Giangiacomo Feltrinelli di fare della Sardegna la Cuba del Mediterraneo è tramontato da un pezzo ma in un ventennio a partire dal 1983 è proprio il ’91 a rappresentare il picco nell’utilizzo criminale dell’esplosivo anche su scala nazionale (2.600 rispetto a una media che è di poco superiore alla metà). La data simbolo c’è ma se la ricordano solo gli adepti del codice barbaricino: nel novembre ’91 il pentitismo fa breccia anche nell’Anonima sequestri e Alberto Balia è il primo ex criminale sardo a saltare per aria anziché esser fatto fuori a pallettoni.

SULLA ROTTA PER OLBIA. Il riferimento territoriale non è una curiosità inutile: il Moby Prince stava andando a Olbia ed era impiegato nell’andirivieni Livorno-Sardegna su quella rotta. C’era molto esplosivo che girava in attesa di esser piazzato da qualche parte ma c’era anche molto esplosivo pronto a saltar fuori un po’ ovunque. Soprattutto guardando a quattro tasselli d’un mosaico. Due hanno a che fare con quel che accade in Europa: la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il progressivo capitombolare dell’ex Jugoslavia nello sbriciolamento culminato nella guerra balcanica mette in circuito enormi quantitativi di armi e esplosivi. Figuriamoci con il terzo spicchio, che ha a che vedere con quel che avviene un po’ più in là: nel Golfo Persico si è appena conclusa la guerra di Bush padre contro Saddam Hussein. Mica tanto un po’ più in là: nella notte della sciagura del Moby nella rada del porto di Livorno è presente una folla di navi militari o militarizzate statunitensi di ritorno al Golfo per far rientrare i mezzi a Camp Darby, base strategica fondamentale nella geografia militare Usa.

L’ultima carta del poker la cerchiamo invece all’interno dei confini nazionali: nell’autunno ’90 viene alla luce e liquidata l’organizzazione Gladio, un network di forze clandestine filo-atlantiche e anticomuniste che poteva contare su una rete di “Nasco”. Sparisce l’organizzazione, spariscono i nascondigli: armi e esplosivi non spariscono, semmai finiscono in altre mani. Chissà tramite quali giri.

Nelle foto, dall’alto: il relitto del traghetto Moby Prince dopo la collisione; i corpi delle vittime in attesa del riconoscimento; i vigili del fuoco recuperano uno dei corpi senza vita; una manifestazione per chiedere verità sulla sciagura; un particolare del ponte del Moby Prince dopo il rogo; la lapide in memoria delle vittime; Loris Rispoli, anima della lotta per la verità in tutti questi anni; il relitto del traghetto poche ore dopo la tragedia (le immagini sono state scattate personalmente o rintracciate in rete, in caso di problemi relativi ai diritti segnalatelo nei commenti e provvederemo a rimuoverle immediatamente)

Lascia un commento