Il grande scrittore sudamericano, autore di bestseller come “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”, compirebbe oggi 74 anni: è scomparso nel 2020 dopo aver contratto il Covid. Ecco l’incredibile “romanzo” dei suoi progenitori (e quella ragazzina in un paese di migranti in cerca di fortuna)
di Mauro Zucchelli
Non sapremo mai cosa quel capo indio mapuche abbia pensato di fronte a quei gringos arrivati da lontano: forse credeva che si immaginassero di compiere una invasione, forse si chiedeva se intendessero puntare direttamente alla sostituzione etnica. Certo, con quei loro musi bianchi e slavati (talvolta anche scavati, ma dalla miseria). Fatto sta che da quella ragazza dal piglio ribelle era rimasto folgorato: così differente da lui, così uguale. Straordinario lui, fuori dal comune lei: e così straordinario e così fuori dal comune il loro nipote, quel Luis Sepulveda che oggi avrebbe spento 74 candeline sulla torta di compleanno se il Covid non l’avesse portato via a tutti noi a pandemia appena iniziata, nella primavera 2020.

Lui, lo scrittore cileno che: 1) «dava voce alle creature che non avevano voce»; 2) il «coraggioso giornalista che svergognava i colpevoli sui giornali»; 3) l’«intrepido marinaio che a bordo di minuscoli gommoni arcobaleno [quando era al timone della flotta ecologista di Greenpeace] bloccava le petroliere che tentavano di sversare la peste nera in mare» (cit. Ilide Carmignani). Lui, la penna che aveva firmato la parabola della gabbianella ma anche il romanzo del “vecchio che leggeva i romanzi d’amore”. Il giovane militante al fianco di Salvador Allende nel Cile devastato dal golpe fascista su incarico della Casa Bianca.
Ecco, non ci fossero stati il capo indio e la ragazza venuta da lontano non avremmo avuto personaggi (di carta) come l’ex guerrigliero dal nome di torero che deve recuperare il tesoro della Mezzaluna Errante, il killer che perde l’aplomb di sicario quando scova con la sua ex il criminale che deve far fuori, la pasionaria della rivoluzione che ritrova il suo lui a distanza di quindici anni, lo 007 ambientalista sulle tracce dei trafficanti di animali rari…
Venuta da lontano per chi sta in fondo al mondo sull’altro lato dell’Oceano: in realtà, viveva nelle nostre strade – forse sul Pontino, forse nel cuore di Ovosodo o magari di Ardenza – ed è la prima avventura che contrassegna Sepulveda mezzo secolo prima di nascere. Lei si chiamava Angela: classe 1886, anche se non è certo al 100 per cento (non è escluso che fosse nata qualche anno prima). Il cognome? Manzoni, si sente ripetere da quanti si sono messi sulle tracce di questa storia, compresa Maria Paola Porcelli su “Giannella Channel” o le note ufficiali dei municipi di Livorno e di Pistoia. Eppure non va sottovalutato il fatto che il libro dedicato da Ilide Carmignani, grande traduttrice e per una vita amica di Sepulveda, segnala che il cognome della nonna livornese è Masetti. Difficile trovarne traccia oggi: sull’elenco del telefono di Livorno non figura né una famiglia Manzoni né una famiglia Masetti, e negli open-data del municipio labronico non esiste né Manzoni né Masetti fra i cognomi presenti a Livorno (con almeno dieci residenti).

A cavallo fra fine Ottocento e inizio Novecento Livorno vive una stagione con il cuore nel futuro: l’ “officina” dell’elettricità, il nuovo acquedotto, la tramvia, la funicolare. Ma anche il colera, anche la miseria dell’assalto ai forni da parte delle popolane che ho raccontato qui (https://wp.me/pekT6o-8T). Angela era l’altra metà di Livorno, quella che faceva fatica. Anche in una città con un piede nell’avanguardia, ecco che c’è chi sente la necessità di andarsi a conquistare il futuro altrove. Al di là dell’Atlantico: altro che gli 89mila migranti arrivati dal Nordafrica negli ultimi sette mesi, peraltro raddoppiando gli standard del passato quando c’erano i governi “lassisti”. Altro che il milione di migranti giunti via Mediterraneo negli ultimi dieci anni, 26mila dei quali morti. Una “guerra”: con il doppio dei morti della guerra nel Kosovo. Ma per avere un’idea: nei primi 15 anni del Novecento secondo i dati Istat rielaborati da Gianfausto Rosoli e citati da Porcelli, sono stati 8 milioni 769mila gli italiani emigrati nel mondo, a fine Ottocento era costituito da donne il 29% dell’immigrazione italiana in Argentina.
Insieme a Angela, qualunque cognome avesse, si erano imbarcati anche i due fratelli. Sepulveda, nel libro di Carmignani, la descrive come «una ragazzetta magra» che morirà giovanissima «lasciando mia madre Irma piccolina». Voleva semplicemente andare dall’altra parte del mondo, l’America. «Non conosceva minimamente la geografia – dice Sepulveda nel citato libro di Ilide Carmignani – di una parola [America] che per lei voleva dire solo un tetto sulla testa e qualcosa da mangiare, la speranza di una vita migliore». Immaginatevi che soltanto pochi giorni prima di arrivare sulle coste americane il capitano della nave spiegò a quei tre ragazzi che «il bastimento non andava in “America” ma in Argentina, e loro non poterono che chinare il capo».
È il periodo in cui in Argentina il Departamento General de Inmigración “fotografa” l’arrivo di 70-80mila migranti ogni anno, più della metà di loro proviene dall’Italia. Ovviamente in nave, gli aerei appartengono al futuribile. La partenza è dai grandi porti italiani, a cominciare da Livorno: ce lo racconta un magnifico dipinto che potete trovare nel museo livornese Fattori a villa Mimbelli, si intitola “Emigranti italiani al porto in attesa della partenza” e lo dobbiamo al genio di Eugenio Gambogi.

Ai tre livornesi finiti nei primissimi anni del Novecento a Buenos Aires – probabilmente Porto Maduro (ma certezza non c’è) – arriva un “consiglio” abbastanza brusco: andarsene nella Pampa, ma subito o anche più presto. Sparire in quel nuovo Far West, stavolta nella metà sud del Nuovo Continente: quel nulla geografico di qualche decina di milioni di ettari e qualche miliardo di bovini più un pugno di disperati. Hanno combinato qualcosa da farsi perdonare, c’è qualcuno che li cerca per fargliela pagare per qualcosa?
Angela se n’è andata da Livorno e doveva essere una tipina parecchio indipendente. Non era la sola, fra le ragazze livornesi di quegli anni c’erano figure che hanno saputo farsi largo in un mondo tutto al maschile: si pensi a Anna Franchi, traduttrice, giornalista e scrittrice (suo il bestseller per l’infanzia “Diario di un soldatino di piombo”), che dal patatrac del suo matrimonio scopre le battaglie per l’emancipazione e i diritti delle donne; si pensi a Gemma Farruggia, drammaturga di nobili ascendenze siciliane, femminista “controcorrente” nell’ambito degli stessi movimenti delle donne, forse anche perché aveva scelto di stare a destra; si pensi al talento di mezzosoprano di Eugenia Lopez Nunes, la cui promettente ascesa nel mondo della lirica si ferma a metà per il diktat del marito, un industriale tedesco; si pensi ad un’altra Nunes, anch’essa di radice ebraica, di nome faceva Carolina ed era il punto di riferimento dell’istruzione italiana in Nordafrica; si pensi a Albertina Palau, che per Salani ha scritto libri a misura di ragazzi e, con le sue traduzioni, ha fatto conoscere grandi autori francesi…
A ovest, ma così tanto a ovest da finire ai piedi delle Ande e quasi ai confini con il Cile, a un niente da Santiago: Mendoza, insomma. Abbastanza alla fine del mondo? Per lei no: mentre i fratelli aprono un panificio, Angela decide che non è tempo di fermarsi. Anche se è solo una ragazza, in una terra che non conosce e dove si parla una lingua che (quasi) non conosce. A migliaia di chilometri di distanza dalla sua Livorno, ecco che fa rotta verso sud in sella a un cavallo. Direzione Patagonia: facile a dirsi, lei non sa manco cosa sia. Ma, dopo aver incontrato il leader indio, diventerà casa sua.
Sepulveda la racconta in modo leggermente differente. Dice che alle orecchie dei tre livornesi arriva la notizia che in Cile stanno distribuendo terre ai coloni e provano ancora a mettersi in gioco per il futuro. Sarebbero, cioè, loro a spedire «in avanscoperta» la sorella Angela che, «dopo un viaggio infinito attraverso la Cordigliera delle Ande, arrivò stremata in Araucania, a Carahue, quattro case di egno fra i boschi dove il fiume Damas si getta nell’impetuoso Cautin. Là, alla fine del mondo, incontrò un gigante mapuche, Francisco, il suo futuro marito. Da quell’incontro discendo io».
«Sono qui perché in una parte misteriosa del mio corpo abita l’anima, lo spirito di una dolcissima e poverissima ragazza toscana che lasciò con i suoi fratelli la sua terra e s’imbarcò per l’America Latina, per una nuova possibilità di vita. Questa ragazza, mia nonna, arrivò in Cile in cerca di speranze». Così disse Sepulveda a Maria Paola Porcelli che gli chiedeva lui, così refrattario ai premi letterari, era arrivato in Italia a riceverne uno. Era un omaggio anche all’Italia: come lo era il fatto che i suoi libri uscissero prima in italiano e poi nella sua lingua madre.
Ce ne sarebbe di che farne un romanzo. E in effetti, Luis Sepulveda l’aveva annunciato ai suoi lettori italiani: anzi, in un incontro letterario a Pistoia nel 2005 aveva detto di aver già iniziato a «scrivere di queste mie radici italiane». Di quell’amore della nonna ha parlato con due colleghe che conosco. L’una è Lara Loreti: «È stato un amore molto forte, li ha accompagnati per tutta la vita: si sono sposati e hanno avuto tre figli, tra cui mia madre. Mi sarebbe piaciuto conoscere mia nonna ma è morta prima che io nascessi». L’altra è Ilaria Bonuccelli: «Di questa mia nonna materna non ho un ricordo diretto, ma un ricordo poetico che mi è arrivato attraverso il racconto suggestivo delle mie zie, le sorelle di mia madre, e delle foto che sono un patrimonio di famiglia. Ma è evidente che la mia nonna era una donna bellissima con capelli tendenti al biondo che catturò, forse per questo suo aspetto fragile, mio nonno, un indio della Patagonia, un uomo bruno come me ed alto un metro e novanta».
D’altronde, già presentando il suo libro “Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà” aveva riconosciuto il debito che lui, romanziere, aveva con il mondo dei nonni: ne descriveva «il ruolo fondamentale, e non soltanto affettivo: sono un giacimento di storie». Ascoltiamo Sepulveda: «Ho sempre sostenuto che gran parte della mia vocazione di scrittore nasce dal fatto di aver avuto nonni che raccontavano storie, e nel lontano Sud del Cile, in una regione chiamata Araucanía».

Un debito di cui è rimasta traccia indelebile non solo nella memoria ma perfino nel secondo cognome che Sepulveda portava: Calfucura, quello della madre. Del prozio Ignacio Kallfukurá (altra grafia del nome del casato) dice che «al tramonto raccontava ai bambini mapuche storie nella sua lingua, il mapudungun». Della madre Irma, infermiera, racconta che lei lo ha avuto quando era ancora minorenne: una ragazza “travolta” dall’esistenza in una fuga d’amore mentre con il suo lui erano inseguiti dai poliziotti, visto che il padre ha denunciato che l’hanno rapita.
Invece, riguardo all’ala paterna dei nonni, bisogna ricordare la figura di Gerardo Sepulveda Tapia («ma tutti lo conoscevano con il nome di battaglia: il compagno Ricardo Blanco»). «Era un anarchico andaluso – ha raccontato Sepulveda a Brunio Arpaia – ed era stato condannato a morte in Spagna. Nei primi anni del secolo era evaso dal cercare di Almeria e aveva raggiunto le Filippine, di lì era passato in Ecuador e aveva ricominciato daccapo». Nuova brigata anarchica, nuova condanna, nuova evasione: poi il Cile. «A Valparaiso conobbe nonna Susana: colta, borghese, molto cattolica. Credo che nonno Gerardo le abbia perdonato quei “difetti” perché era bellissima e parlava cinque lingue. Io sono praticamente cresciuto con loro e con zio Pepe, il fratello maggiore di mio padre».

Il padre aveva «un ristorante nel centro di Santiago: si chiamava “Don Lucho”». Ora ce ne sono un paio con quel nome, un altro fa riferimento a uno “tio”. Chissà. «L’aveva ereditato da mio nonno, era abbastanza grande, quaranta tavoli da quattro». I genitori si aspettavano che Luis avrebbe portato avanti la tradizione di famiglia: aveva 16 anni quando gli dissero che era l’ora di mettersi a studiare da chef. Lui rispose che voleva fare il poeta. «Al ristorante ne ho di conti in rosso: sono di poeti». «Allora farò il romanziere», la risposta di Luis. È un botta e risposta riportato nel libro di Ilide Carmignani, in cui si ricorda che Sepulveda andava davanti a casa del poeta Pablo Neruda («lo veneravo») per sedersi su una panchina e «comporre versi nell’ora più romantica, il tramonto, che da lassù in collina era bellissimo, non a caso il quartiere si chiama Bellavista».
Nelle foto, dall’alto: Luis Sepulveda in primo piano (così come nell’ultima, in coda); una inquadratura del film di animazione della “Gabbianella”; Sepulveda con la traduttrice e amica Ilide Carmignani; il dipinto di Eugenio Gambogi sugli emigranti italiani in attesa in porto (custodito al museo Fattori di Livorno); la copertina del libro di Ilide Carmignani dedicato a Sepulveda (le immagini sono state scattate personalmente o rintracciate in rete, in caso di problemi relativi ai diritti segnalatelo nei commenti e provvederemo a rimuoverle immediatamente)
DALL’ARCHIVIO: UN’ALTRA STORIA ALLA “FINE DEL MONDO”
Un marinaio livornese che si fa pirata e in mezzo all’Atlantico conquista l’isola più sperduta che esista
Un breve racconto molto suggestivo, se è vero. Se non è vero, è bello lo stesso. Marco Bertini
Un breve racconto molto suggestivo, se è vero. Se non è vero, è bello lo stesso. Marco Bertini
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Che bella storia! Commovente per la semplicità degli accadimenti e degli intrecci che ne derivano.
Grazie. Ogni tanto si sbatte il naso in grandi personaggi che hanno alle spalle figure di livornesi, soprattutto donne e in genere sconosciute
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