L’ex livornese salvata in extremis dalla sedia elettrica: una “lei” che per una vita si spaccia per un “lui” e (forse) ammazza la moglie che non si accorge di nulla

Eugenia è dell’Ardenza, emigra in Australia: forse diventa mamma perché stuprata e si fa passare per babbo, poi vive fuggendo da una falsa identità all’altra. Lascia dietro di sé un cadavere carbonizzato e la seconda moglie si rifiuta di credere che sia un maschio

di Mauro Zucchelli

Ho visto forse lui che (non) bacia lei ma magari non è lui e di sicuro non è lei. Il tormentone di Annalisa è nel segno della “sessualizzazione” di una cantautrice ex alternativa (un po’). Invece, in questa nostra vicenda che ci porta indietro di un secolo tondo tondo, la sessualità non è né verve pop né svago dance e neppure qualcosa di rivendicato: semmai un bisogno represso e negato che genera un oceano di sofferenza. È la storia di una donna che quel corpo femminile proprio non se lo sentiva suo: forse perché pensava che fosse stata maschio le avrebbero voluto finalmente un po’ bene in quella casa, forse perché era lei che avrebbe voluto essere uomo, di sicuro non lo sappiamo noi e probabilmente nemmeno lei. Potrebbe essere una storiaccia di cronaca nera, di quelle che all’insegna del vecchio comandamento di “sesso sangue soldi” si credeva potessero galvanizzare l’audience del popolino (cit. Alex Springer, super-editore tedesco).

A dirla tutta, di soldi ce ne sono pochi o punti: di sangue però sì, e parecchio. Quanto al sesso, è talmente centrale da essere nascosto, rimosso, rovesciato. È la storia di Eugenia che non è (quasi) mai stata donna. La racconto iniziando com’è cominciata la voglia di raccontarla: insomma, partendo da lontanuccio…

«Certi amori non finiscono / fanno dei giri immensi / e poi ritornano». Ancora una canzone, e nemmeno delle più belle di Antonello Venditti. Magari avrei potuto trovare una citazione un po’ meno sciapita per dire come questa storia si è materializzata sotto i miei occhi. Semplicemente: cercando negli scaffali della magnifica biblioteca livornese dei Bottini dell’Olio un libro. Ma quello che volevo era, inutile dirlo, qualcos’altro: un lavoro di Michela Turno intitolato “Il malo esempio”, 250 pagine e spiccioli di storia sociale di “donne scostumate” nella Toscana ottocentesca. Niente di pruriginoso ma una brava studiosa che spiega come dietro la solita etichetta del «mestiere più antico del mondo» ci siano storie e, se vogliamo, la storia. Del resto, non erano mancati strambi pateracchi quando il paternalismo dell’era granducale si era mescolato al rigido regolamento sabaudo di Cavour: chissà cos’era accaduto a Bocca di Rosa.

Non è finita: siccome i giri sono proprio immensi, ecco che ficcando il naso lo sbatto contro un libro che sulla costola mostra il titolo “Eugenia storia di un uomo”. In un qualche angolino del cervello si è piantato il nome di Suzanne Falkiner. Motivo? Boh. Il corto circuito è il fatto che, lo ricordavo bene, era proprio suo il libro dedicato all’assassinio di un campione di cricket. Ci avevo inciampato in non so quale libreria di chissà mai dove e mi era stato spiegato che nel cricket, sport del quale ignoro ogni cosa, «c’è una lunghissima tradizione di atleti ammazzati». Quindici negli ultimi trent’anni. Ma per risalire a Claude Tozer bisogna arrivare un po’ più indietro, al 1921: a Capodanno si sarebbe disputato un match importante, lui però non lo giocherà mai perché, indossando il camice da medico, è stato ucciso da una paziente depressa che si era innamorata di lui.

Consigli per gli acquisti: il libro di Suzanne Falkiner (Il Canneto editore) è un bel viaggio dentro questa storia. Lo potete ordinare in libreria e online oppure prendere in prestito alla Biblioteca Labronica dei Bottini dell’Olio a Livorno (break mio: ringrazio il personale per il prezioso aiuto).

L’ho tirata in lungo anche troppo. Me lo diceva il mio direttore Omar Monestier: dammi retta, comincia dal terzo capoverso e butta il resto. Fatto sta che il libro di Suzanne dedicato a Eugenia me lo ritroverò qualche settimana più tardi sulla scrivania. Appena sfoglio le prime pagine, questa storia australiana mi precipita sui piedi. Eugenia è nata a Livorno, punto e stop. Anzi, no: si comincia.

Se questa strabenedetta storia torna sull’uscio di casa nostra è per almeno due motivi. A cominciare dal fatto che «Eugenia “Nina” Falleni nacque a Livorno, precisamente in via dell’Ardenza, il 25 settembre 1875» (sulla data in verità se ne dicono di tutti i colori, il mese rimbalza su tutto il calendario). Il babbo si chiama Luigi e la mamma Isola Gini: Eugenia è la primogenita di una tribù di figlioli talmente numerosa da poterci fare due squadre di calcio: alla fine si contano 22 marmocchi, «dei quali diciassette (dieci maschi e sette femmine) arrivati all’età adulta».

E l’altra ragione? È il fatto che a richiamare, con Bruno Damari, l’attenzione su questo caso è una pubblicazione labronica (“Livorno non stop”).

Per essere precisi, le cose cominciano fin dall’inizio a risultare un po’ più ingarbugliate di così: l’ “Australian Dictionary of Biography” dice che è nata a Firenze, ma ammette anche che potrebbe trattarsi di una ragazza livornese di nome Lena. Nelle cronache datate 1920 di “The Manaro Mercury”, un giornale locale di laggiù, segnala che aveva sposato (a Livorno?) tal Martello Falleni, forse Marcello in realtà, altre fonti lo dipingono come un cugino. Ma, secondo il “The Sydney Morning Herald”, Martello invece è il cognome del marito di Eugenia ancora solo donna e avverte che gliel’ha detto la polizia. Insomma, un guazzabuglio: e non sarà l’ultimo. Quel che fa Cassazione, diciamo così, è l’incontro di Falkiner con una bisnipote di Eugenia/Eugene che descrive la famiglia ardenzina e segnala che c’era un flusso non trascurabile di livornesi che emigravano verso l’Australia e soprattutto la Nuova Zelanda.

La sua potrebbe essere una storia di ordinaria emigrazione: non abbiamo detto che la nonna di Sepulveda era una ragazza livornese scappata verso le Americhe per cercare di fuggire dalla miseria? Qualcosa del genere vale anche per Eugenia: è ancora una bambina o comunque una ragazzina quando la sua famiglia prende armi e bagagli e pensa che un nuovo inizio possa essere il più lontano possibile da Livorno. Dove? Più in là delle Americhe: agli antipodi, fra Nuova Zelanda e Australia. Solo che tanto “ordinaria” non è: sempre più spesso Eugenia va in giro vestendosi da maschio e facendosi chiamare “Eugene”. Sta proprio qui il vantaggio di aver tagliato le radici ed esser finito dall’altro capo del mondo: sei uno sconosciuto. E hai capito che le donne non avranno tanti spazi di libertà, meglio farsi maschio e andarsene nelle bettole in cerca di lavori anche pesanti, tanto lo sai già che nessuno ti regalerà un bel lavoro facile e strapagato.

Il babbo – talvolta carrettiere, talvolta pescatore – era un tipo piuttosto quadrato, lo descrivono poco incline ad accettare le fantasie della figlia che un secolo dopo avremmo definito transgender. Difficile dire se Eugenia/Eugene volesse semplicemente scappare dalla gabbia che la vita le aveva cucito addosso, fatto sta che trova lavoro a bordo di un peschereccio. Fa il mozzo: le cronache spiegano che le cose prendono una brutta piega quando, una sera in cui era ubriaca persa, le scappa che la nonna la chiamava “piccolina”. Al femminile. La ciurma vuol vederci chiaro e ne accertano il sesso come potete immaginarvi. La scena successiva è quella di uno stupro guidato dal capitano, prima di sbarcarla a pedate  perché pare che una donna a bordo equivalga a una calamita di jella, secondo le sane superstizioni marinaresche doc. Manco a farlo apposta, siccome quando la vita vuol essere matrigna lo fa davvero, Eugenia/Eugene resta ovviamente incinta.

Nasce Josephine Crawford Falleni, a Sydney Eugenia/Eugene consegna la bimba a una donna italiana perché ne abbia cura. È un caso unico di figlia che dà il cognome alla mamma che vuol essere un babbo: Eugenia/Eugene prende a usare Crawford come cognome e Harry Leo come nome. La balia si fa chiamare «nonna» e le dice che il babbo è un ufficiale di Marina, per questo non lo vede mai. Mai proprio mai, no: ogni tanto quell’uomo dal piglio severo fa visita alla figlia.

Per evitare guai non si possono mettere radici, dunque Eugenia/Eugene è una trottola di mestieri e situazioni: sempre in abiti maschili, diventa addetto al mattatoio, operaio in fabbrica e banconista di bar. Il giorno in cui arriva Wahroonga, però, gli scatta qualcosa dentro: Sydney è a meno di un’ora di treno, è un paese che ora conta 17mila anime ed è “assediato” da parchi e giardini. Viene voglia di chiamarlo “casa mia”: e in effetti in lingua aborigena il nome del borgo vuol dire esattamente questo.

Eugenia/Eugene pensa di aver avuto la sua botta di fortuna, la prima nella vita: merito di un altro campione di cricket, anch’esso medico. Si chiama Gother Robert Carlisle Clarke, e sparirà presto dalla nostra storia: è ufficiale medico dell’esercito australiano scaraventato in Europa durante la Grande Guerra e muore sul fronte belga mentre soccorre un soldato ferito. Prima però bisogna dire che dal dottore la nostra lei/lui ex livornese ha trovato sia una busta paga che l’amore: Annie Birkett ha un figlio adolescente da crescere e il marito è morto da anni, e quel bel giovane…

Meglio però fare di nuovo la valigia, stavolta con Annie e il bimbo: a Balmain, sempre nella zona di Sydney ma una cinquantina di miglia più giù. Nuova vita, no? Perfino le nozze nella chiesa metodista, un negozietto insieme, poi l’ennesimo spostamento. Dall’altra parte dell’arzigogolata baia della metropoli dell’Opera House, con lei/lui che gira di impiego in impiego.

Smettiamola con i sorrisetti, comunque pare assodato che la moglie abbia scoperto solo poco prima di morire che il marito era una “marita”. Colpa della solita pillaccherona di paese: «dà buoni consigli / se non può più dare cattivo esempio» (terza canzone, cit. De André). Non è chiaro come spieghi alla povera Annie che ha sposato una persona nata col corpo di donna. Prima litigata in casa, poi un chiarificatore pic-nic sul fiume Lane Cove. Francamente lo sceneggiatore non dev’essere granché: il copione che emergerà poi in un’aula di giustizia prevede che Annie dica che lo lascerà perché non ci sta a essersi sposata con un “lui” che gli altri chiacchierano essere una “lei”. Eugenia/Eugene la raffigurano come uno/una che forse vorrebbe scappare per la centesima volta, invece a questo punto si  ricostruisce che è Annie a fuggirsene via ed ecco che “l’uomo-donna” – così lo chiamano i giornali australiani – la rincorre, acchiappa il primo pietrone e le fracassa la testa. Le motivazioni della sentenza di primo grado insisteranno sul fatto che lei/lui teme che salti fuori il segreto che ha custodito per quasi quarant’anni, dunque si affida al fuoco perché cancelli tutto, purifichi tutto, faccia sparire quel guaio che è diventata la sua esistenza. Così resterà scritto per il tribunale.

Ma torniamo indietro: alla realtà invece che alle ricostruzioni che ne farà la giustizia. Il cadavere lo trovano a Chatswood, in Mowbray Road: ci scommetterei che il punto giusto è una zona ora riservata ai kayak. Il corpo è carbonizzatissimo, e i testimoni ripetono che quella tipa l’avevano vista comportarsi «in modo strano»: una bella dichiarazione di suicidio toglierebbe tutti dai guai, non c’è un assassino da cercare e tutti felici come prima. Ma il coroner dev’essere uno pignolo e lascia il fascicolo aperto, anche se intanto la fa seppellire come cadavere sconosciuto nel cimitero di Rookwood. Tenetelo presente questo cimitero: strano, perché è lontanuccio e bisogna fare quasi mezz’ora di auto per arrivarci; strano, perché è accanto a un gigantesco campo di golf; strano, perché ora è un camposanto con tanto di blog e origini vintage (uno dei più vecchi di tutta l’Oceania).

Nessuno che si chieda dov’è finita Annie? Il figlio lo fa ma quello che considera il patrigno fa la commedia: è scappata con un altro uomo. E non sporge denuncia. Ma al ragazzo quel patrigno non sa bene il motivo ma non è mai andato giù: a maggior ragione dopo che lo porta a fare un giro nel luogo che a Sydney tutti conoscevano per via dei numerosi suicidi e, tempo dopo, durante una escursione nel bosco gli chiede di mettersi a scavare una buca.

Non succede nulla né nell’uno né nell’altro caso, però al ragazzo qualche dubbio in più su quello svalvolato di patrigno salta in testa. Lo ricorda il libro edito in Italia da Il Canneto: anche Henrietta Schlieblich, afittacamere tedesca che incrocia il destino dell’ “uomo-donna”, testimonierà al processo di aver sentito dire a Eugenia/Eugene che voleva «sbarazzarsi» di quel buono a nulla del suo figliastro. Anche la (vera) figlia partorita dal corpo biologicamente femminile di Eugenia. Josephine, rintracciata dalla polizia, dice che la madre le aveva confidato di vivere con Annie che la credeva un uomo. E se ti scoprono? «Piuttosto mi ammazzo», era stata la risposta di Eugenia/Eugene secondo quanto riportato da Josephine (e pubblicato da Falkiner).

Non ho capito bene se a rialzare il coperchio su quel cadavere bruciato vivo (così dice il medico legale) sia la polizia o la figlia affidata alla “nonna” che non era una nonna. L’una: riesuma il cadavere e alla fine fra denti finti e un anello riesce a dare il nome di Annie Birkitt a quei poveri resti. L’altra: da chi l’ha cresciuta si sente dire che quell’uomo che credeva essere il babbo è semmai la sua mamma. A questo punto, eccezion fatta per l’ondata di serie tv da tecno-indagini, una vecchia regola dei poliziotti è: comincia a cercare la moglie o il marito. Immaginatevi qui che il marito in verità è una “lei”. Oltretutto, nel frattempo si era risposato: con Lizzie King Allison, cinquantenne che si trova sulla strada questo quarantaquattrenne che si spaccia per meccanico figlio di commerciante, dicono i verbali del processo (altre fonti la sparano grossa e lo immaginano ingegnere figlio di armatore).

Eugenia/Eugene aveva giurato a sé stesso che non si sarebbe più innamorato perché aveva capito che i legami minacciano il tuo segretissimo. Per capirci: quando la polizia lo arresta, invece di difendersi chiede solo che non dicano a Lizzie che è una donna, chiede solo che le nascondano quel che troveranno in un certo baule (un fallo di legno rivestito di cuoio). La nuova moglie alza un muro di fronte a quel che le dirà la polizia: il suo ingegnere è un marito perfetto, la vita di coppia è eccezionale, è una famiglia da Mulino Bianco…

Bisognerebbe avventurarsi nelle cronache dei quotidiani australiani di quel tempo e il citato “dizionario” offre una serie di link utili. Avrebbe mai potuto farcela un “uomo-donna” a evitare di diventare il colpevole perfetto? L’indagine della scrittrice australiana  alza il velo sul fatto che in quegli anni un quarto dei primogeniti fosse illegittimo e che la morte di 15mila neonati in un anno era stata attribuita a eccesso di sedativi (davvero sempre involontario o era un metodo folle di eliminazione delle gravidanze indesiderate?).

Eugenia/Eugene continua a sentirsi uomo in un corpo biologicamente di donna, ripete mille e mille volte di essere innocente. La difesa non è granché, praticamente si limita a dire che l’ “uomo-donna” è un «invertito congenito». Lo condannano a morte, poi in appello la pena viene trasformata in ergastolo. Del resto, il processo è tutto indiziario e si basa sul fatto che “lui” è una “lei” e dunque di bugia in bugia chissà mai cosa ha combinato. La stampa popolare australiana “crocifiggono” il “mostro pervertito” della donna che per una vita si era fatta passare per uomo. Ma devono essersi accorti di aver preso un granchio: dopo una decina d’anni, sulla base di alcuni articoli del “Sunday News” e dell’ “Evening News”, emerge che il riconoscimento del cadavere di Annie Birkett non è poi così sicuro e anche la ferita al cranio potrebbe esser stata causata dagli effetti del rogo, anzi saltano fuori tracce di veleno. Torna l’ipotesi suicidio?

Il “mostro”, ex condannato a morte e poi ergastolano, dopo dieci anni e qualcosa viene liberato personalmente dal ministro della giustizia: dopo un’ora di colloquio faccia a faccia, nel ’31 la caricano su un’auto ministeriale e la portano «verso destinazione sconosciuta», spiega il “Sydney Morning Herald” di venerdì 20 febbraio, anno Domini 1931. Pare con l’impegno sulla parola a non mettersi più abiti maschili, il ministro lo giustifica con il fatto che il detenuto è anziano e malridotto di salute. Macché anziana, aveva 55 anni e tanto cagionevole di salute non doveva essere se la morte non arriva per malattia bensì in un incidente stradale, e a distanza di oltre sette anni dal rilascio. Il motocarro – guidato da William Lamb, carpentiere di Bexley – la travolge mentre cammina in Oxford Street, nel sobborgo di Paddington, a due passi dal municipio: siamo a otto minuti di auto dal centro di Sydney, dunque anche la destinazione sconosciuta non era dall’altro capo del nulla negli enormi spazi dell’Australia. E se fosse un modo per chiudere un pasticcio giudiziario senza dar troppo nell’occhio?

Un certo qual travestimento di identità c’è comunque anche stavolta: Eugenia Falleni diventa la signora Jean Ford. Lo dice “The Examiner” nell’edizione del 13 giugno ’38, ma in questa girandola di identità modificate, ecco che il giornale parla di Eugenia Valleni, cambiando l’iniziale del cognome. Dopo aver nascosto la propria reale identità per una esistenza intera, anche in punto di morte la riconoscono solo dopo che un poliziotto ritrova le sue impronte digitali perché sul caso dell’ “uomo-donna” anche lui aveva indagato: mica potevano infilarle nell’Afis, il sistema computerizzato di riconoscimento. Morte accidentale, e finalmente “the end”. Dov’è che finirà da morta? Dissolvenza e titoli di coda ovviamente al cimitero di Rookwood. Con una sottolineatura extra che arriva da Falkiner: Falleni era di sicuro italiana e forse cattolica, la seppelliscono nell’ala anglicana del cimitero. Una ragione c’è: paga lo Stato e quelle tombe costano meno. Ancora una volta, uno schiaffo che le arriva dalla vita. Anche dopo la morte.

Giriamo alla larga dalla morale della favola. Almeno per come è stato possibile ricostruirla da fuori – a distanza di un secolo, mezzo mappamondo e 20 ore di volo – la storia sta tutta qui: l’ “uomo-donna” aveva tentato di vivere una vita “normale” invece che finire fra quei fenomeni incredibili da piccolo circo che gira i paesini. Ce l’ha fatta a metà: rincorsa dai fantasmi dell’anagrafe e della polizia per tutti i 63 anni della propria vita. Ma in certo qual modo sì: nella cultura di massa australiana ha lasciato una traccia tutt’altro che trascurabile, se è vero che negli anni ’90 è ripartita una nuova ondata, stavolta meno pruriginosa. Musical, film, serie tv, libri.

Avevo raccontato parecchi mesi fa la storia di Ermanno Lavorini, ragazzino di Viareggio che nel ’69 è stato sequestrato e ammazzato. Anche in quel caso, i riflettori non l’avevano puntato tanto sulle indagini quanto sui segreti sessuali di una città di provincia. Un playboy dalla vita dorata si uccide perché viene a galla che in realtà è gay. Dietro i “ragazzi di pineta” si intravedono i contorni di una prostituzione adolescenziale relativamente diffusa che cela personaggi e segreti. Una quasi-celebrity è costretta a mettere in piazza le proprie disfunzioni fisiologiche sessuali per scagionarsi dall’accusa di aver qualcosa a che fare con i violentatori di ragazzini. Come spiegavo in quel post, a me interessano fino a un certo punto i «segreti più segreti» dei «vizietti inconfessabili» della gente-bene di Viareggio (i virgolettati saltano fuori da rispettabili giornaloni borghesi). Me ne sono occupato perché hanno fatto da scudo a una rimozione collettiva gigantesca: provate a chiedere chi ha ammazzato Ermanno Lavorini e poco più di mezzo secolo vi diranno quasi sempre che era roba da “ragazzi di vita”.

«Balletti verdi», li chiamavano allora. Ma le cronache di quel ’69 indicano quella galassia omosessuale anche come «i capovolti»: da un punto di vista terminologico, qualcosa di ancor più pesante che «invertiti». A qualcuno è sembrato una sorta di invenzione “letteraria”: «i capovolti». Era nel “questurinese” ma anche nelle righe di giornale di qualche cronista di allora, e nemmeno degli ultimi della fila. Del resto, erano gli anni della nostra infanzia, almeno per noi nati nella coda del boom: all’oratorio nei giochi di figurine Panini – fra “taccopassalvolo”, “cincirimpolla” e “buzzone con l’arreggino” – quando qualcuno imbrogliava, cosa c’era di più sanguinoso che dargli dell’ “invertito”? Forse alludere alla scanzonata moralità della mamma, ma era un duello con sprint finale.

Ci si sorprende a notare che l’omofobia continua a infilarsi nelle pieghe della società: verissimo, e ogni tanto ne abbiamo la riprova. Se però ci guardiamo indietro, vediamo che un pezzo di strada l’abbiamo fatto dagli anni di Eugenia/Eugene e dagli anni dei «capovolti». Solo un pezzo, ma quando alziamo lo sguardo sul centesimo femminicidio – gli ex mariti-compagni-fidanzati malati di brama di possesso ammazzano più della mafia – càpita che venga il dubbio che magari non abbiamo fatto nemmeno quello.

DALL’ARCHIVIO:

LA MORTE DI ERMANNO LAVORINI NON E’ UN CASO DI SESSO DI PROVINCIA, E’ L’ “INFANZIA” DELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE

Nelle immagini: le foto segnaletiche di Eugenia/Eugene Falleni (New South Wales. Dept. of Prisons); le pagine di alcuni giornali australiani dell’epoca che raccontano la storia dell’ “uomo-donna”; il cimitero di Rookwood com’è adesso (le immagini sono state scattate personalmente o rintracciate in rete, in caso di problemi relativi ai diritti segnalatelo nei commenti e provvederemo a rimuoverle immediatamente)

2 risposte a “L’ex livornese salvata in extremis dalla sedia elettrica: una “lei” che per una vita si spaccia per un “lui” e (forse) ammazza la moglie che non si accorge di nulla”

  1. Avatar Massimo Bianchi
    Massimo Bianchi

    Sei un ricercatore di storie interessanti che suscitano interesse perché le leggi alla attualità.Veramente bravo

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    1. Grazie. Quel che mi intetessa è recuperare una idea di mestiere che non sia fare semplicemente il tifo per l’Ucraina o per Putin, contro la gente d Israele o contro i civili di Gaza. Invece colleghi molto più bravi di me si arruolano

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