Il mio addio a Gigi Vanni, operaio del Cantiere e dirigente comunista

L’ultimo abbraccio da una confederazione di anime della sinistra fra “Bella Ciao” e la canzone di Pietro Gori. Quella volta che rispose al quasi-re Juan Carlos che stava cercando segretamente il leader comunista spagnolo per consutarlo (invece che farlo arrestare dagli 007 franchisti)

di Mauro Zucchelli

Di sicuro c’è solo che, avesse sentito che mettevo l’accento sugli individui come singoli, mi avrebbe infilzato senza né bì né bà. Mi pare di ascoltarlo: il mondo si cambia se si declina con il “noi”, tutta questa prosopopea dell’ “io” guarda dove ci ha portato. Mettiti nel capo che collettivi sono i movimenti che modificano le rotte della storia. Era disposto a transare solo su un fatto: individuale è la responsabilità. A un certo punto, sei tu che dici quale lato della barricata scegli. «Stai dalla parte di chi ruba nei supermercati? O di chi li ha costruiti? Rubando?» (cit. Francesco De Gregori).

Faceva Luigi di nome e Vanni di cognome, e a Livorno lo conoscevano tutti: come comunista e come operaio del Cantiere. Leader operaio, e anche in questo caso mi avrebbe dato una testata: “punto di riferimento”, forse è meglio, no? Se n’è andato a distanza di pochi giorni da Giovanni Cadoni al quale ho dedicato la pagina precedente. L’ha fatto poco dopo avermi mandato a chiamare tramite i suoi figli: come per dirsi addio. Arrendersi mai, ma Gigi sapeva che non siamo immortali: e già aveva dovuto vedersela con i problemi che gli avevano reso così difficoltosa la vista, con malattie complicatissime come la Pxe o la Sla e con qualcos’altro ancora. Se i familiari me lo ricordano non è per fare l’elenco degli acciacchi ma per segnalare che Gigi ha sempre avuto un piglio combattente. Anche dentro di sé: nelle molecole, nelle cellule epiteliali, negli enzimi.  

Aveva 75 anni e già nella data di nascita (17 gennaio 1948) c’era un bel po’ di quel che sarebbe stato. Destino? Fate voi, fatto sta che era nato quattro giorni prima dell’anniversario della nascita del Partito comunista e nel bel mezzo della campagna elettorale più dura della nostra storia. Con i comitati civici di Gedda che, pur di scongiurare il consenso al Fronte Popolare delle sinistre con il faccione di Garibaldi, ti rincorrevano per dirti che «nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no». Alla faccia delle curiose recenti riscritture della storia per cui comunque l’Italia è sempre stata nelle mani dei “rossi”, Gigi l’aveva saputo fin da ragazzino che sulle manifestazioni di operai e contadini c’era il caso che la polizia sparasse: a Reggio Emilia o nelle campagne del Sud.

A dargli l’ultimo abbraccio, nella sala del commiato della Svs davanti all’ingresso del cimitero livornese dei Lupi, una folla che sembra una confederazione smarrita di “anime salve” (cit. Fabrizio De André: Mi sono guardato piangere in uno specchio di neve / Mi sono visto che ridevo / Mi sono visto di spalle che partivo / Ti saluto dai paesi di domani»): lo salutano con il pugno chiuso, vedo facce dei Garibaldi d’Assalto (e non solo loro) intonare “Bella Ciao” e la “Canzone del primo maggio” di Pietro Gori, vedo parecchio rosso ma anche il drappo degli anarchici. Luigi non era stato solo uno dei protagonisti della battaglia in difesa del Cantiere (a quel tempo da ultimo in forma di coop), era stato consigliere comunale di Rifondazione comunista: adesso però davanti al cimitero non ci sono solo operai e si vedono tanti pezzi d’una storia che forse doveva finire ma di certo non doveva finire così. È come se il puzzle un po’ si ricomponesse: quelli che sono rimasti a custodire la falce e martello, quelli traghettati nel Pd, quelli che si sono rinserrati nella Cgil perché comunque il sindacato un ruolo ce l’ha e quelli che sono spariti da tutto perché «l’avevo capito subito che dopo Berlinguer non c’era più niente». Mi dice uno di loro: «Forse siamo qui sì per accompagnare Gigi ma soprattutto per confortare noi fra questi vecchi volti amici di un tempo».

Salta fuori anche un ritratto di Luigi Vanni che forse non tanti conoscono. Di quando era ancora un ragazzo dai piedi buoni e dal cervello sveglio: un baby-talento del pallone, non fosse che la sorte gli gioca il tiro mancino di rinchiuderlo in ospedale per una epatite proprio nei giorni in cui avrebbe dovuto fare il provino per andare a giocare nel vivaio di una squadra di serie A. Di quel periodo giovanile da calciatore non è rimasta più nemmeno una foto. La passione per lo sport sì: per i colori amaranto sul fronte del calcio, per la Libertas parlando di basket (proprio non gli andava giù che la definissero la “squadra dei preti”). Senza contare l’impegno nel campo delle tradizioni del remo, a cominciare da quello nella cantina del rione Fabbricotti.

Guai però ad avventurarsi nel giochino retorico del ribaltamento: vi aspettavate che vi raccontassi il militante comunista ed eccovi serviti invece il giovane golden boy del pallone. Non è così, e ad accreditare di quale livello di figura stiamo parlando basterebbe l’episodio raccontato nel libro di Mauro Nocchi e Maurizio Mini (“La parola a Enrico”). Sul “Tirreno”, nell’articolo in morte di Luigi, l’hanno ripreso così: «Al telefono c’è Juan Carlos in persona, il re di Spagna che deve vedersela con la lunghissima fase terminale del dittatore Francisco Franco dopo un regime durato oltre un terzo di secolo: deve parlare urgentemente con Santiago Carrillo, leader comunista in clandestinità e fuorilegge ma pur sempre riferimento per milioni di persone in una Spagna che minaccia di esplodere. L’altro capo del filo è in una villetta top secret di Tirrenia che la federazione livornese del Pci ha trovato, grazie a un imprenditore ex partigiano: Carrillo è nascosto per incontrarsi con Enrico Berlinguer, numero uno del più grande Partito comunista di tutto l’Occidente. Ma Carrillo non può rispondere al telefono perché non c’è: c’è Luigi Vanni, tuta blu comunista del Cantiere, già allora simbolo delle lotte operaie. È lui che insieme alla moglie e a Franco Fraddanni deve  proteggere ad ogni costo il dirigente iberico».

Per capirci di cosa davvero stiamo parlando: Carrillo è il leader comunista di un partito fuorilegge nella Spagna ancora franchista e ora sta in una località segreta in Italia (fra qualche giorno lancerà da Livorno l’eurocomunismo); Juan Carlos è stato designato come futuro re ma il dittatore fascista Francisco Franco, seppur al lumicino, non vuol mollare la presa e lascia il quasi-re a bagnomaria; nel frattempo l’Eta ha fatto saltare in aria con un attentato di gigantesca portata Carrero Blanco sul quale Franco aveva puntato per tenere a galla il regime dopo la sua morte. Quel giorno nella villetta top-secret di Tirrenia il quasi-re vorrebbe parlare con un nemico che, in teoria, dovrebbe far fucilare.

Al funerale mi viene riferito pure quel che si erano detti Vanni e il quasi-re spagnolo: Juan Carlos parla solo spagnolo e ovviamente non vuole avere fra i piedi un interprete che potrebbe fare la spia; Vanni si arrangia ma lo spagnolo non lo capisce granché e quando la conversazione s’arrampica su qualcosa di complicato, gli viene in mente che “domani” si dice «mañana». Come dire: caro quasi-re, richiama domani e ce lo trovi.

A parte la sottolineatura della singolare coincidenza per cui era nato «lo stesso giorno del compleanno di un combattente come Muhammad Alì, che è stato campione sul ring ma anche nella difesa dei diritti e di un mondo meno ingiusto», riprendo anche un altro passaggio del pezzo dei miei colleghi del “Tirreno”: «Chinar giù la testa e dire signorsì gli faceva proprio male: come quella volta che, raccontano i suoi familiari, aveva visto un’auto dei vigili urbani compiere una manovra azzardata e quasi travolgere il figlio fuori dal palasport: era andato a cantargliene quattro, poi era intervenuta la celere e gliene avevano date tante. Un po’ come Enrico Bartelloni nella difesa di Livorno a Porta San Marco contro gli austriaci: loro erano l’esercito più potente del mondo di allora ma tu sentivi di fare la cosa giusta perché era in gioco la libertà».Aggiungendo poi: «Qualcosa del genere doveva avere in testa – sono ancora parole dei parenti a ricostruire le storie – quando insieme a un gruppo di altri militanti “rossi” era andato all’assalto di una nave americana ferma nella rada del porto di Livorno. Erano gli anni del Vietnam, e quel “commando” di livornesi, senza armi ma con tanto fegato, andò a beffare gli yankee togliendo la bandiera a stelle e strisce per sostituirla con quella dei vietcong».

Di recente, si era ritrovato in ospedale nel letto accanto a quello di don Paolo Razzauti: l’uno prete e l’altro proprio no. Eppure fra i due così diversi c’era stima e rispetto.

Me lo ricordo il funerale di Edda Fagni, senatrice di Rifondazione comunista: il suo amico vescovo, Alberto Ablondi, al quale aveva regalato la croce pettorale, era arrivato alle sue esequie, non s’era mai visto un vescovo a dare l’ultimo abbraccio a un alto dirigente comunista. L’aveva fatto anche col segno di croce, e non perché volesse profanare la laicità dell’ultimo abbraccio o per un tono da “reconquista cristianizzatrice”: voleva solo regalare all’amica quel che di più prezioso aveva. L’ho fatto anch’io, che non valgo un dito di Ablondi: quando ormai eravamo lontani da tutti con Gigi e quel gesto non sarebbe suonato come una invasione di campo ma come un gesto d’affetto. Caro Gigi, lo sapevi come sono, no? D’altronde, anche tu – no, qui ci vuole la grammatica livornese sennò suona male: anche te – eri andato a fare volontariato, cioè a condividere un pezzo di disagio e di dolore nella trincea di don Mauro Del Nevo, il prete disobbediente che si occupava di persone che fanno fatica.

Lui non voleva cambiare in extremis le carte con cui aveva giocato la propria vita e se n’è andato dall’altra parte del fiume con un funerale laico. Anzi, comunista. E così pieno di quel rispetto reciproco fra i molti, di quell’essere plurale che oggi ci manca.

3 risposte a “Il mio addio a Gigi Vanni, operaio del Cantiere e dirigente comunista”

  1. Avatar Massimo Bianchi
    Massimo Bianchi

    Una persona speciale e coerente,con cui tante volte abbiamo discusso da amici e da compagni,entrambi tra gli ultimi moicani ,lui comunista ed io socialista ,legati da scelte di vita differenti,ma da una coerenza a prova di bomba.L’altro giorno visitando la nuova porta a mare mi sono tornate in mente le tante battaglie per assicurare al Cantiere il carico di lavoro.Lo scalo Morosini un totem difeso sempre,lo scalo Umbria di cui oggi rimane una traccia , le assemblee all’Arena Astra.La mia generazione si è formata in quelle riunioni,dove Mario Paci stimato e benvoluto da tutti ,consentiva a tutti di intervenire in un ambiente non proprio tollerante.In Consiglio Comunale era solito intervenire nelle tante occasioni che le difficoltà delle nostre industrie richiedevano per un conforto delle forze politiche.Ero fuori di Livorno quando è scomparso ed ho il rammarico di non averlo salutato in mezzo alla sua gente che ha rappresentato con grande dignità.Come tutti quelli che intravedono avvicinarsi il tramonto sono portato a ripercorrere le occasioni di incontro con persone che è stato importante conoscere. Gigi è stato una di queste.Confidiamo che se un giorno dovessimo essere giudicati,contino le buone azioni e quanto fatto in aiuto ad un mondo dolente.Riposa in pace.

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  2. Avatar Giacomo Luppichini
    Giacomo Luppichini

    Con grande dolore apprendo della morte di Gigi .L’ho conosciuto e apprezzato nel PCI e sopratutto neii quattro anni in cui ho ricoperto l’incarico di Segretario provinciale di Rufondazione Comunista. Un vero quadro operaio e un militante di grande spessore cui dico addio con grande rammarico. Ciao Gigi vai in pace con la tranquilla coscienza del dovere compiuto nell’immane compito, per dirla con Rodari,di insegnare agli schiavi che si credono liberi ad essere liberi.
    Giacomo Luppichini

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  3. Mi piace che ci sia qualcuno che raccoglie memorie per chi resta tracciando il profilo che rende l’uomo a tutto tondo. Marco

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