Addio a Giorgio Allori, 102 anni, l’ultimo degli “internati militari”: in lager per il no a Hitler, è la Resistenza “dimenticata”

Ci ha lasciato l’anti-eroe mite, forse l’ultimo di quell’esercito di soldati che ebbero il coraggio di rifiutarsi di aderire a Salò: la pagarono con la prigionia in Germania. E nel dopoguerra “sparirono” dalla narrazione della Resistenza

di Mauro Zucchelli

Ho conosciuto Primo Levi con i miei occhi di lettore piantati nelle righe di “Se questo è un uomo”: grida senza alzare mai la voce – anzi, forse una volta sì: nell’anatema che dà il nome al volume – perché quel che urge è raccontare ciò che era stato, e quel che spaventa è l’incubo di non sentirsi creduti, compresi, accettati. Ho conosciuto Isacco Bayona, ex pugile livornese, la sera che venne a raccontarmi le angherie patite in lager: lui, ebreo, era costretto dai nazisti non solo a sottostare a ogni privazione ma anche a battersi, immaginatevi quanto alla pari, con chi voleva divertirsi sconfiggendolo sul ring e al tempo stesso aveva su di lui potere di vita o di morte magari per sbaglio, per noia, per gioco, per uffa. Ho conosciuto Mario Canessa, poliziotto-partigiano anti-eroe, bussando all’uscio di casa sua per farmi raccontare il suo segreto: per una vita aveva nascosto anche alla moglie il fatto di aver messo a rischio la vita per salvare una sfilza di ebrei, di perseguitati, di prigionieri di guerra.

Ho conosciuto Giuseppe Fusario, sarto e combattente: prese il fucile per liberare casa sua a Livorno ma rifiutò poi di fermarsi perché «ora c’era da liberare anche i nostri fratelli del Nord». Ho conosciuto Giuliano Caponi, tramite i videodocumentari dei ragazzi del Centro Politico 1921: ogni anno riscoprono i “sentieri dei banditi” ripercorrendo il 25 aprile i passaggi nella “macchia” fino alle grotta in cui si nascondevano al Castellaccio. Ho conosciuto il tenente Labate e i suoi uomini in una lapide a Nugola: avrebbero potuto girarsi dall’altra parte e tenere famiglia. Ho conosciuto i fratelli Mammarella e il loro amico Lorenzo, senza averli mai visti neanche in foto, poco più di vent’anni tutti e tre, forse nemmeno volevano combattere contro qualcuno, magari semplicemente non volevano andare a sparare contro chissàchi (e uno di loro era perfino malato): i nazisti li beccano accanto al paese di mio padre, Siberia come quell’altra, li fucilano e li lasciano a grondare morte e minaccia giù dagli alberi ed è così che li scopre la mamma andata dalle autorità a chiederne notizie. Ho conosciuto Osmana e Garibaldo Benifei: ogni volta che volava una mosca o una qualche autorità veniva a Livorno, il maresciallo andava a prenderlo in bici e gli diceva che era l’ora di farsi un giretto in galera, tanto perché non si sa mai.

L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma forse più di tutti mi ha colpito un uomo di 101 anni dalla risata contagiosa: si chiama Giorgio Allori. Anzi, si chiamava: lui che era un generale e che s’era fatto la guerra e il lager, se n’è andato per sempre adesso che il fantasma di carriarmati, missili e bombardamenti torna a aleggiare sul nostro spicchio di mappamondo.

Era livornese, la sua storia l’ha raccontata Marco Damilano su “L’Espresso” (e le sue mani grinzose che stringono un quadernetto, foto della nipote Laura Lezza, sono diventate la copertina dell’anno a furor di lettori) e l’ho raccontata io sul “Tirreno”: al mio giornale era legato non solo in quanto quotidiano della sua città ma perché, grazie allo zio giornalista, da bambino andava nella stanza del direttore a sfogliare la “Treccani” (che è ancora lì). Al mio giornale era legato e poco più di un anno fa, in una delle ultime cose che ho fatto da cronista, l’avevo accompagnato a fare il “direttore per un’ora”: l’aveva invitato il direttore Luciano Tancredi e quel ragazzo ultracentenario aveva fulminato i colleghi per l’ironia tagliente. La stessa che ha mostrato in un breve video mandato in onda su RaiTre, a “Il cavallo e la torre”, nel giorno della sua scomparsa: il giornalista gli ricordava che, a dispetto dei formalismi militareschi, i ribelli partigiani lui Allori li chiamava “patrioti”, e allora dall’altra parte chi c’era e cosa sono diventati adesso? «Onorevoli», la risposta di Allori.

Il primo approccio con Giorgio Allori –  classe ’22, imprigionato dai tedeschi all’indomani dell’armistizio quando era ancora allievo dell’accademia militare – è stato un quadernetto. Rimasto in un cassetto per tre quarti di secolo. Massime edificanti e aforismi da tramandare ai posteri? No, c’era l’arte di sopravvivere e il senso dell’ironia di un giovanissimo ufficiale sbattuto in prigionia dai nazisti, una peregrinazione di lager in lager. E lui? Mentre nella vita reale doveva cavarsela con qualche patata, annotava ricette di cucina e brani d’arte culinaria. Potete imprigionare le mie ossa e i miei muscoli, il cuore e il cervello no. Quest’irriducibilità l’ho ritrovata anche in analoghi disegni-vignette di un altro livornese, Luciano Castelli, poi preside “inventore” del liceo scientifico Cecioni (in questo blog ne ho parlato qui: https://wp.me/pekT6o-1K).

Non c’è solo questo: c’è anche l’idea della fedeltà al tricolore, la bandiera che in rappresentanza della patria diventa l’unico soggetto al quale tu militare devi obbedienza in mezzo a questo caos in cui il Paese è stato abbandonato. Dai repubblichini e, detto per inciso, caro Allori, anche dal re. È a questo punto che Allori racconterebbe di come lui e i suoi compagni di prigionia erano riusciti a recuperare un brandello di stoffa rosso, uno verde e uno bianco così da poterli rimettere insieme e compiere il rito del giuramento. Al lume di candela, dentro la baracca del campo di concentramento.

Vabbè, questa l’abbiamo capita. Ma non è finita il giorno che Giorgio Allori torna a casa. Era un fantasma nei lunghi mesi e mesi di lager: il Terzo Reich li definiva “internati militari italiani” (Imi) per dribblare quei minimi diritti da prigioniero di guerra. Ma un fantasma sarebbe stato anche in seguito: in nome della Realpolitik, delle contrapposizioni ideologiche e di non so cos’altro, sparisce dalla narrazione resistenziale per decenni. Con lui, fatto prigioniero appena più che ventenne, se ne va forse l’ultimo di questi prigionieri che ebbero il coraggio di fare la scelta più scomoda e opporsi al Duce e a Hitler che li volevano carne da cannone. “Internati militari” come il padre di Francesco Guccini (Ferruccio) e quello di Vasco Rossi (Carlino)

Passata l’euforia del ritorno alla democrazia, i big della scena si spartiscono i ruoli in commedia: il Pci, che effettivamente è stato protagonista numero uno della Resistenza combattuta con i fucili, ha l’usucapione dell’intera Resistenza (che resta solo quella fatta con il mitra); la Dc preferisce strizzare l’occhio ai cattolici bavaresi e ai nuovi legami con la Germania, dunque smorza la narrazione dell’impegno antifascista dei cattolici. Risultato: adesso, non solo la destra-destra è al governo ma il caro vecchio arco costituzionale e quel patto resistenziale non esiste più nemmeno per sbaglio nella geografia politica dei partiti. Mi domando: possibile che una lezione di antifascismo l’abbia dovuta sentire da un colonnello dei carabinieri? È accaduto anni fa al liceo classico: i 650mila militari italiani che hanno detto no alla repubblica di Salò e per questo si sono fatti la prigionia in Germania sono un numero enorme. Non esiste nessun altro raggruppamento che, dal punto di vista numerico, sia così significativo. «Ma dei nostri reparti militari che hanno imbracciato il mitra per cacciare i nazisti nessuno parla mai, sembra non siano mai esistiti», diceva Allori che abbiamo passato insieme in redazione («tanto di cappello ai combattenti partigiani, mi fa rabbia chi è stato al sole dei Pancaldi fino al penultimo giorno e poi si è inventato un pedigree resistenziale mai esistito»).

Gli “internati militari italiani” sono spariti dal “racconto” della Resistenza. La cui ricchezza è soprattutto uno: essere così plurale da pervadere la mentalità collettiva. “Plurale” non vuol dire solo pluralista negli orizzonti politici: “plurale” anche nell’atteggiamento, cioè nel ventaglio di tutti i coinvolgimenti possibili. Quanti ragazzi che si erano dati alla macchia per unirsi ai partigiani non avevano fatto una scelta politica ma avevano risposto al sussulto del cuore: ciascuno conosceva chi erano i repubblichini, e in genere non avevano fama di onestà, rigore morale e slancio solidaristico. Anzi, non di rado erano noti come arraffoni, manigoldi, sadici e prepotenti: chi sfoglia “Il Telegrafo” a ridosso della caduta del fascismo e dell’armistizio del settembre ’43 vede spuntare, nel giornale della famiglia Ciano, curiosi pezzi dedicati alla voracità dei gerarchi. Perfino le leggi razziali del ’38 trasformano la spoliazione dei beni degli ebrei in una abbuffata luculliana per gli amichetti del regime: comprese grandi società che, finite in mano a prestanome non ebrei, sono diventate patrimonio personale di chi si è (grandemente) arricchito sperando che gli ebrei sparissero una volta per sempre (aiutandone la sparizione?).  

Del resto, l’avevo visto passando ai raggi x l’identikit di ciascuno degli assassinati dai nazisti alle Fosse Ardeatine: ci sono anarchici e monarchici, ci sono ebrei, cattolici e atei, ci sono tantissimi comunisti del Pci ma anche “comunisti eretici” di Bandiera Rossa, ci sono socialisti e azionisti o liberali, ci sono parecchi militari ma anche avvocati e ciabattini, fornai e professori. Questa “pluralità” di coinvolgimento l’ha misurata la storica Chiara Fantozzi: c’erano gli ex renitenti alla leva che si erano politicizzati grazie alla rete di commissari politici del Pci, ma c’erano anche preti e suore di clausura che rimpiattavano decine di famiglie in convento, c’erano panettieri, contadini e macellai che passavano cibo ai partigiani, c’erano cittadini che facevano da sentinella o da rete d’appoggio, altri che stampavano volantini, c’erano borghesi che se la cavavano con il diritto o con la medicina e così davano una mano in questa o quell’occasione. No, non è la stessa cosa esser stati combattenti o, come Gino Bartali facendo finta di allenarsi, portare i documenti falsi ai perseguitati per farli scappare. Oppure ancora: segnalare ai partigiani quando accade qualcosa in una certa caserma o in un tal ufficio locale. Ma proprio questa disponibilità a mettersi in gioco contro il regime è quel che ci riporterà alla libertà: una galassia di comportamenti. I partigiani sapevano bene come poterli utilizzare, invece la narrazione degli storici solo da non molto tempo l’ha recuperata.

Ecco, da Allori così come dai tanti ex partigiani, combattenti e non, ho imparato l’importanza di saper essere “plurale”. Ce n’è bisogno anche oggi. E ce n’è bisogno con il sorriso prima che col mugugno: lo sapeva bene Giorgio. A 90 anni se ne andava ancora su per i sentieri di montagna fino a passo Giovo. Come un ex ragazzo del ’22: il 1922, sia chiaro.

DALL’ARCHIVIO:

Nelle foto: sotto il titolo un ritratto di Giorgio Allori con il suo quadernetto del lager rimasto segreto per quasi ottant’anni (foto Laura Lezza), la copertina dell’Espresso (anch’essa con foto di Laura Lezza), Allori alla riunione di redazione al Tirreno dove è stato “direttore per un’ora” (da iltirreno.it), a sinistra il direttore Luciano Tancredi e alla destra del generale la nipote Laura Lezza; ultima della serie, Allori nella stanza del direttore al Tirreno, qui studiava da bambino consultando la Treccani che è alle sue spalle

2 risposte a “Addio a Giorgio Allori, 102 anni, l’ultimo degli “internati militari”: in lager per il no a Hitler, è la Resistenza “dimenticata””

  1. Avatar Gianfranco Balestri
    Gianfranco Balestri

    Questo Zucchelli potrebbe scrivere un libro su tutte queste figure livornesi, legate a un periodo storico recente o più lontano, meritevole comunque di essere ricordato

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  2. Grande tema quello degli Internati Militari Italiani. Ritengo sia necessario aprire un percorso di memoria per ricordare i 650.000 che dissero no ai nazi-fascisti. Grazie per questo articolo.

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