Si è spento Otello Chelli: macché Urss, il paradiso per lui era la Tura nella “sua” Venezia

Addio al cuore rosso, anzi rossobianco, del cantore delle tradizioni del rione popolaresco nel cuore antico di Livorno. Chelli è scomparso a 90 anni: la memoria di una nuova fraternità nei rapporti fra le persone

di Mauro Zucchelli

La prima volta che Otello Chelli ha oltrepassato la linea d’ombra è stato da ragazzino: quando è tornato nel cuore della “sua” Venezia e ha visto che il “casamentone” – il grande palazzo di famiglie di popolo accanto alla chiesa di San Ferdinando Re – non c’era più. La seconda volta è quando ha maturato la consapevolezza che non solo quel palazzo, quel grumo di rapporti sociali e umani, non l’avrebbero più ricostruito e lì ci sarebbe stato solo un pratino: era la certificazione urbanistica che quel piccolo mondo antico non sarebbe più tornato.

Ecco, è stato come un chicchino di senape, talmente piccino picciò che nemmeno te ne accorgi: c’è da immaginarsi che sia nata lì la vocazione di Otello di diventarne qualcosa di più di un testimone: semmai un raccontatore di storie con tutto il carico epico che Otello metteva nella nostalgia. E non del mondo che fu bensì di quel mondo fatto da persone e soprattutto della fraternità che le legava, a maggior ragione pensando che era l’epopea della povera gente. Perché per Chelli era questo che contava, ed è quel che l’ha accompagnato nella sua parabola politica: la militanza comunista, lo strappo del “manifesto”, l’impegno sindacale, la presenza in consiglio comunale nei banchi di Rifondazione comunista.

La Tura, ma che vuol dire? A questo punto, Otello mi aveva preso sottobraccio e si era avventurato nell’idea che lì sull’angolo di scali delle Barchette e dintorni ci fosse un camposanto turco e quel toponimo avesse radici nella “sura”, la denominazione delle articolazioni del Corano. Del resto, non lo avevo mai visto tanto orgoglioso come quando mi aveva confidato di aver sangue in parte berbero: lo aveva scoperto quando si era fatto fare la mappa genetica per capire le proprie radici. Chissà se era stato proprio quello a fargli scrivere “La stirpe di Morgiano”. 

Ma non c’era solo quello: c’erano anche i racconti dedicati a quel microcosmo, la “sua” Venezia; c’era anche l’attenzione al mondo delle tradizioni del remo, ovviamente a partire dalla cantina rossobianca. Come quando, in occasione non so se d’una Coppa Barontini o di qualche altra disputa remiera, mandò al giornale una appassionata cronaca in cui di un certo qual equipaggio veneziano cantava le eroiche gesta sportive e umane, salvo poi chiudere il terzo o quarto capoverso precisando il dettaglio che la vittoria era andata a qualcun altro, forse il Borgo…

Non era un errore o un eccesso di tifoseria, aveva ragione che l’exploit tecnico era stato il grande progresso dei rossobianchi ma, detto per inciso, non era bastato per vincere.

Parlando del suo mondo fatto di facce conosciute una per una, aveva formulato il teorema dei ponti: in un quartiere fatto di acqua e di canali, i ponti servono come qualcosa che ti consente di arrivare sulla sponda di là. «Però, non te lo dimenticare: restano anche un confine: lo si può attraversare ma come si attraversa la dogana». L’aveva detto a un amico che lo riaccompagnava a casa dopo la presentazione di uno dei suoi libri che, di riffe o di raffe, ti facevano innamorare di quel mondo perduto. Figurarsi che aveva infilato anche me come personaggio in uno dei suoi libri.

Quest’epica popolaresca la trovavi talvolta sulla pagina scritta. Altre volte Otello la regalava alla sua cerchia social attraverso post che erano racconti: nel senso di una nuova dimensione dell’arte del raccontare ai tempi di Facebook.

Come per “lo cunto de li cunti”, come per la “chanson de geste”, come per i contastorie del teatro dei pupi o della tradizione dei maggianti, non saprai mai se l’Artemisia di cui parla è davvero sua madre e se quel tizio nato il 25 marzo ’33 è lui o uno nato nel suo stesso giorno.

Ma in questa capacità affabulatoria straordinaria che ti avrebbe inchiodato lì per ore c’è anche un miracolo: Otello ridà vita a un mondo grande quanto un fazzoletto, e quel fazzoletto è la Tura, cioè la Venezia in purezza. Grossomodo là dove è la cantina nautica. Il cuore del cuore del cuore. Bastava uscire di pochi passi ed era già un altrove. «Ma, capiscimi bene, quella era via degli Ammazzatoi: un altro mondo», mi disse quella volta e stava parlando di 300 metri più in là.

Ecco, in un mondo che fa dell’identità una barriera e uno strumento di esclusione, Chelli raccontava la Tura per farne un modello per il mondo, altro che l’Unione Sovietica. Tradotto: la mia patria è la mia gente, un popolo di povericristi, ma la porta è spalancata sul mondo. Lo diceva ricordandomi che con la moglie avevano preso l’abitudine di apparecchiare anche senza nessun preavviso per qualunque amico dei figli si fosse presentato all’uscio, da qualunque angolo del mappamondo provenisse.

Insomma, il legame ombelicale con la propria patria non era il motivo per tagliare fuori qualcun altro ma, al contrario, la ragione per invitarlo a vivere la fraternità insieme. Come? Magari con una tavolata per strada, come aveva raccontato che aveva fatto sua madre. Stufa delle angherie dei questurini fascisti (ogni due per tre se la prendevano con il marito e la loro famiglia antifascista), era andata a Roma a piazzarsi per protesta sotto il palazzo del Duce finché non venne ricevuta: le diedero un po’ di soldi. Cosa ne fece? Non ci pensò due volte e li usò per invitare a pranzo mezzo quartiere allestendo i tavoli in mezzo alla via.

Una replica a “Si è spento Otello Chelli: macché Urss, il paradiso per lui era la Tura nella “sua” Venezia”

  1. Avatar lucyluxλουτσια
    lucyluxλουτσια

    L’ho conosciuto durante scioperi e manifestazioni giovanili. Grazie per averne ricavato un realistico e fattivo ritratto.

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