Some of the stories that I'd like to print (cit. Ochs feat. Zuc)
Tempo per la lettura: 9 minuti
«Ufo e E.T. non immaginiamoceli come “visitors” o strani omini verdi ma semmai come micro-organismi tipo muffe o protozoi»

Il mio incontro con un astrobiologo della Nasa che si occupa di forme di vita-limite: vi racconto quel faccia a faccia di dodici anni fa nella sede della Kayser sulla provinciale per il Gabbro

di Mauro Zucchelli

Effettivamente si rischia di sbrindellare tutto quanto se la dissezione ti azzardi a farla con il machete. Ma questi tempi balordi sono quelli che sono, e va già di lusso se non adoperi la motosega come promette di fare quel tipastro che s’è fatto eleggere premier in Argentina. Questo vale a maggior ragione se l’esame riguarda concetti, idee, argomentazioni, romanzi.

Però, scontando magari un po’ di grossolanità, la fantascienza si presta proprio a essere scomposta in almeno tre grandi categorie.

La prima è l’Infanzia dell’Infatuazione che si ciba dell’ottimismo positivista di fine Ottocento. C’era una volta Jules Gabriel Verne, che a generazioni di ragazzi ha insegnato a guardare lontano contando su quel che offriva la scienza: una sorta di cannocchiale per fantasticare un futuro che sarebbe comunque arrivato. Poco importa che il Nostro abbia litigato tutta la vita con il padre-padrone magistrato, la sua radice alto-borghese gli dava la spinta per credere che le sue invenzioni immaginifiche si sarebbero trasformate in vero, fosse stato ventimila leghe sotto i mari o a zonzo per 80 giorni in pallone.

La seconda è la Scoperta del Nemico: cosa c’è di più americano d’uno stile di vita che si sente minacciato da qualche rozza forza primordiale com’era il comunismo: tutti noi terrestri siamo nella trincea occidentale, la minaccia non può che venire da qualcosa che sia un mondo altro o comunque un altro mondo.

La terza è l’Esplosione delle Promesse: nella fantascienza popolare entra lo stesso turbinio che ha sconquassato la figura nell’arte puntando prima sull’astrattismo, poi sulla rottura della cornica, quindi sulla trasformazione di qualsiasi oggetto in possibile opera d’arte, infine nella performance. Del resto, non sono forse Pessoa, Kafka e Joyce a portare in letteratura quel che ha fatto la psicanalisi rompendo l’involucro dell’unicità della persona? Ne saltano fuori distopie che rendono la tecnologia lo strumento del controllo e della schiavitù anziché opportunità di liberazione. Prima che Soshana Zuboff ne descrivesse l’identikit in “Il capitalismo della sorveglianza”, ci aveva pensato non l’ultimo pensatore anarchico bensì un film di Steven Spielberg con 100 milioni di dollari di budget (“Minority report”) che ha disseminato a livello di massa una delle tante intuizioni di Philip K. Dick a cavallo fra anni ’50 e anni ’80.

Proprio l’intenzione di evitare il rischio di restare intrappolati nelle pieghe d’un romanzo per omnia saecula saeculorum è quel che ha mosso la Nasa a fare agli inizi di autunno una ammissione che in passato sarebbe apparsa imbarazzante: accettare l’idea che là fuori, in mezzo alle galassie, vi sia una qualche forma di vita differente da quella umana presente oggi sul nostro pianeta. L’ha detto un tipo assai poco incline a spettacolarizzare la comunicazione come Bill Nelson, numero uno del colosso planetario statunitense sul fronte dell’esplorazione spaziale: «A chi mi dice se penso che ci sia vita nell’Universo, che è così vasto da rendermi arduo comprendere quanto sia grande, rispondo così: sì». L’ha chiesto agli scienziati che lavorano per la Nasa e anche loro hanno fatto riferimento all’enorme numero di possibili galassie: «Almeno mille miliardi».

Confesso di aver anch’io avuto molti dubbi: il pericolo di buttarsi in una baggianata, di farsi accomunare alla congrega di sciroccati cospirazionisti che prima ancora di essersi proclamata no-vax, no-euro, no-allunaggio e no-Twin Tower si era messa in testa che non là fuori ma qui dentro, cioè in qualche angolo della Terra, e segnatamente degli Usa, siano tenute prigioniere creature aliene. Insomma, la versione advanced di “E.T.”, guardacaso firmato dallo stesso Spielberg.

Credo però che, in mezzo al deserto che stiamo attraversando, non sia per me importante aggiungere la mia voce allo sgomento di chi vede il Paese in mano a personaggi imbarazzanti. Ma l’alternativa non si costruisce semplicemente affermando quanta virtù abiti la sinistra (e, detto per inciso, come facciano gli elettori ingrati a non accorgersene): eccolo qui, il miglior modo per lasciarli al potere. Come ha ben capito la destra prendendo la rincorsa da lontanissimo per sbriciolare l’egemonia culturale altrui, è sulla cultura che si (ri)costruisce tutto. D’altronde, l’avete visto poco sopra: parlando di fantascienza, non parlavamo di strani figuri ancor più diversi da noi di quanto percepiamo gli extracomunitari: macché extraterrestri (questa radice “extra”…), parlavamo di noi e dei nostri fantasmi. L’Altro da Sé (a parte il Totalmente Altro che nelle grandi fedi monoteiste chiama in campo la dimensione religiosa): non esiste nient’altro così altro come chi sta fuori dalla nostra atmosfera…

Mentre tutto questo mi si pigiava disordinatamente in testa, ha fatto capolino il ricordo di una delle interviste più curiose di quarantacinque anni di “Tirreno”: era il 2011, stavo dentro la sede dell’azienda aerospaziale Kayser e mi avevano appena presentato uno dei tanti scienziati che fanno tappa in questo “covo” di intelligenze labroniche.

Eccolo qui, non parla mezza parola d’italiano anche se italianissimo è il nome: Rocco Mancinelli. Mestiere: “astrobiologo”. Anche se dubito che se lo sia fatto scrivere sulla carta d’identità. Lo guardo un po’ di sguincio perché un po’ lui ha l’aria da funzionario del catasto e un po’ temo sia una sorta di Paolo Fox che campa guardando nella palla di vetro ma senza la simpatia strampalata che aveva il mago Anubi. Solo il fatto di essere alla Kayser della famiglia  dell’ingegner Valfredo Zolesi – in quei giorni sta festeggiando il primo quarto di secolo – fa credere che non sia lo zio di Otelma. Quel giorno di oltre dodici anni fa lo descrivevo così affidandosi alle colonne di carta e inchiostro del “Tirreno”.  

«I marziani, smettiamola di immaginarceli così: infidi quanto i “visitors” che mangiano i topini; buoni con gli occhioni come gli umanoidi “na’vi” del pianeta Pandora sul grande schermo di “Avatar”; teneroni dal cuore di panna che abbiamo visto nel film “E.T.” del mago Steven Spielberg. Piantiamola di disegnarli solo proiettando le ombre, i sogni, le paure di noi occidentali: fosse, negli anni del maccartismo, l’incubo del comunismo che si raffigura perfino nell’ “invasione degli ultracorpi” nel cuore dell’America; fosse, alla vigilia della stagione della controcultura hippy anni ’60, la dolce illusione di uno stato di natura che su Marte, a distanza dalla Terra, permette di vivere liberi dai conformismi di casa nostra.  Cancellate tutto questo ambaradan: se la vita extraterreste c’è, assomiglia semmai a un batterio o a un organismo monocellulare». Parole e musica di Rocco Mancinelli, antiche origini nei paraggi di Potenza: è un cervello che lavora all’Ames Center, quartier generale nella Silicon Valley californiana dalle parti di Mountain View. Stiamo parlando di una squadra che con il marchio della Nasa schiera più di duemila ricercatori con apparecchiature scientifico-tecnologiche che valgono tre miliardi di dollari di apparecchiature e contando su un budget di oltre mezzo miliardo all’anno.

Per prima cosa mi ricorda che la Terra e Marte hanno conosciuto (quasi) analoghe condizioni di bombardamento di meteoriti a asteroidi: milioni di anni fa, ma Mancinelli giura che è  scientificamente provato che sul nostro pianeta sono stati scaraventati “pezzi” di Marte e viceversa. Tradotto: è  possibile che ci sia stato scambio di materia quando già c’era vita sulla Terra.

Dunque, e qui si apre la seconda porta del ragionamento del mio astrobiologo preferito, occorre capire quali forme di vita possano «sopravvivere in particolarissime situazioni: altissima salinità, temperature polari, presenza di acqua vicinissima a zero». Li chiamano “estremofili” per indicare organismi viventi in grado di farcela a campare in «condizioni ambientali ritenute proibitive per la vita» riuscendo a mantenere il proprio metabolismo-limite: lo spiega la biofisica Federica Migliardo (università di Messina) distinguendoli dai “survivofili” perché questi ultimi sono capaci semmai di arrangiarsi a rimanere per un po’ «in uno stato inattivo, sospendendo le funzioni metaboliche quando le condizioni ambientali divengono difficili». Sempre tenendo presente una cosa: il metro di misura di queste difficoltà è l’essere umano, dunque un parametro relativo.

«Un piccolo numero di alghe e funghi prosperano in ambienti caldi, ma la grande maggioranza dei termofili sono batteri o microorgnismi ugualmente piccoli noti come “archea”. Questi organismi unicellulari erano un tempo classificati come batteri, perché erano privi di nucleo cellulare. Studi sul loro sorprendentemente complesso Dna, hanno rivelato che gli “archea” sono effettivamente imparentati più strettamente con gli organismi pluricellulari come gli esseri umani, piuttosto che con i batteri»: sono queste le parole con cui un prof islandese, Sean Michael Scully, prova a descrivere questo mondo che spesso sfugge alla comprensione di noi che non siamo addetti ai lavori: «Innumerevoli varietà di “archea” – è il filo rosso del suo argomentare – abitano le bollenti zuppe chimiche intorno alle bocche vulcaniche sui fondali marini. Alcuni scienziati ritengono che la vita sia iniziata in luoghi simili, il che suggerisce sche questi termofili abbiano origini estremamente antiche».

Lo studioso segnala che «a partire dal 1966, quando gli estremofili vennero scoperti per la prima volta nelle sorgenti vulcaniche calde di Yellowstone, ne sono stati scoperti in un gran numero di luoghi diversi, dalle profondità marine ai cumuli di compost, caldaie domestiche, e vasche di raffreddamento delle centrali nucleari, e perfino nel cibo in lattina».

Francamente me ne intendo di più di “attacco alla profondità” o di “pressing alto aggressivo” nel pallone (ed è tutto dire), ma mi affascina leggere su un blog di scienza che «i tardigradi, per esempio, phylum di invertebrati di dimensioni comprese fra 0,1 e 1,5 millimetri, possono sopportare temperature maggiori di 151°C o inferiori a meno 270°C, ed essere sottoposti – senza subire ripercussioni negative – a radiazioni mille volte superiori al limite animale; alcuni batteri, classificati con la sigla OU-20, e riconducibili al genere Gloeocapsa, hanno mostrato di poter sopravvivere per 553 giorni nello spazio, esposti all’esterno della Stazione Spaziale Internazionale».

L’attenzione a quel che c’è “al di là del limite” porta a fare dell’esplorazione del cosmo una sorta di Formula Uno: si sperimentano processi e prodotti che poi, dieci-quindici anni più tardi, magari finiranno nella cura delle patologie degenerative o nella fisica dei nuovi materiali. E’ un concetto che l’ingegner Zolesi mi ha ripetuto non so quante volte. Anche dalla Nasa arriva la segnalazione che proprio quanto rileviamo nel cosmo può essere utile a ripensare alcuni aspetti della biochimica per come la conosciamo adesso. Del resto, la tavola periodica degli elementi che indica i “mattoni” costitutivi della materia non è stata forse aggiornata tante volte rispetto a quando un secolo e mezzo fa l’ha messa a punto il prof. Mendeleev? Basti pensare che ancora alla metà del decennio scorso sono stati aggiunti altri quattro elementi…

Cambia anche la nostra rappresentazione di quel che la vita extraterrestre potrebbe essere: invece che omini verdi con strane zampe e gli occhi a peduncolo tipo lumaca eppure così simili all’identikit della figura umana, Mancinelli li immagina casomai come muffe o protozoi, microfunghi o parameci da cercare forse nel sottosuolo di Marte.  «Direi, soprattutto micro-organismi composti da una sola cellula. Anziché basarsi sulla fotosintesi che tutti conoscono ad esempio per i vegetali, potrebbe trattarsi di organismi “chemio-autotrofi”, cioè in grado di ricavare energia non dalla luce bensì da processi chimici. Oppure chemio-sintetici, la cui presenza dipende dal fatto che esistano altri compostorganici». Al centro dellattenzione – diceva lui in quell’intervista davanti al mio taccuino – le ricerche di David McKay del ’96 su meteoriti di origine marziana: «Sono state affossate sotto molti aspetti, ma resiste tuttora quanto ha detto in fatto di magnetosomi: sono stati rinvenuti su materiale proveniente sicuramente da Marte e sulla Terra sono stati trovati come prodotti di gruppi di batteri».

Con lo gnegne del ragazzino impertinente, gli chiedo se con la fame nel mondo e tutto il bla bla non sono quattrini proprio buttati via. Mi guarda come si guarderebbe il bambino screanzato che pianta la parolaccia-sberleffo nel mezzo della poesia di Natale e mi dà una lezione che è un tal manrovescio a due mani che neanche Jimmy Connors. Sì, qui siamo in una scienza che abita ai limiti del sogno, ammette lui ma solo per piazzare il colpo a sorpresa: conosce un prof  che studiava gli “estremofili” nel parco di Yellowstone, quello di Yoghi e Bubu: un suo allievo isola un ceppo di termofile acquatiche e ne ricava un enzima. Rincorrendo qualcosa di “inutile”, con la Dna polimerasi ha «cambiato la storia del nostro pianeta aprendo la porta agli studi della genomica». Marco Vukich, il biologo molecolare livornese che me l’ha presentato, ci mette il carico da undici: «Anche Cristoforo Colombo si era messo in testa di spendere tanti soldi per andare a caccia del nulla: alla fine non ha trovato le Indie che cercava, ma da allora in poi la storia non è stata più la stessa».

Post scriptum: questo post arriva in occasione del “compleanno” di questo blog. Un paramecio editoriale nel grande blob dei blog, produzione individuale di un singolo individuo che avrà alle spalle più di quarant’anni di cronaca ma che resta un sostanziale web-analfabeta. Vabbè, al tirar delle somme questi oltre 50 post sono stati letti poco meno di 14mila volte. Questi i post più letti:

Lasciando perdere la vanagloria personale, se ne ricava un’idea di fondo: aprire un blog come questo costa grossomodo 80 euro all’anno, potrebbe essere una strada da seguire anche per altri che magari hanno cose da raccontare (l’esperienza nello sport, in politicca, nella scuola, nel sindacato; la ricostruzione di Livorno; gli anni dell’autunno caldo o la lunga stagione post-Sessantotto; i cambiamenti del lavoro in porto…). “Che cento fiori fioriscano, che cento scuole di pensiero gareggino”: ho i miei dubbi che Mao Zedong potesse riferirsi ai blog in questo celebre motto di metà anni ’50, anzi temo che nel campo non si respirasse la libertà dei girasoli e dei colibrì. Ma perché non sognare che, invece di malsane incubatrici di influencer, non possano esserci tanti che colgono la palla al balzo per prendere la parola?

Nelle foto dall’alto: iconici modelli di alinei tipo X-Files; Rocco Mancinelli; microorganismi al microscopio; l’ingegner Valfredo Zolesi, fondatore di Kayser, recentemente scomparso e la presenza di astronauti Nasa nella sede di Kayser sulla provinciale per il Gabbro; E.T., l’immaginifica creatura extraterrestre del film di Spielberg (le immagini sono state scattate personalmente o rintracciate in rete, in caso di problemi relativi ai diritti segnalatelo nei commenti e provvederemo a rimuoverle immediatamente)

3 Comments

  1. Gabriella guidi ha detto:

    Bravo ! Nient’altro che bravo.

    1. Mauro Zucchelli ha detto:

      Qui l’attore dovrebbe fermarsi sulla scena e, non fosse acciaccato, inchinarsi al colto pubblico. Oltre agli extraterrestri, immaginatevi anche me come un atletico fuscello e vedetemi come se l’avessi fatto…

  2. Seriacopi Claudio Massimo ha detto:

    Grazie Mauro, i tuoi scritti ci fanno riflettere. Un abbraccio!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Potrebbe interessarti

In evidenza

Categorie