L’ “amichettismo” del Duce: il magna-magna dei gerarchi peggio perfino di Tangentopoli

L’idea di un fascismo onesto e integerrimo è una balla kolossal: e i beni depredati agli ebrei grazie alle leggi razziali sono stati solo raramente restituiti dopo la guerra. Gli improvvisi arricchimenti dei prestanome sperando che i deportati non tornassero dai lager

di Mauro Zucchelli

Guardare dritto in quell’abisso nero di dolore e odio, morte e sopraffazione che è l’Olocausto, ficcargli gli occhi dentro gli occhi insomma, ha un rischio: lasciarsene abbacinare, come se il Male Assoluto avesse una sua grandiosità. Come fosse Lucifero contro l’Altissimo, il Totalmente Altro o qualunque altro nome vogliate dare al Dio buono e misericordioso delle grandi religioni monoteiste. Bisogna smetterla: dietro l’eliminazione fisica degli ebrei dalla faccia del pianeta non c’è un progetto di una nuova antropologia, per quanto malvagia. Peggio ancora dietro l’idea del Duce (e del re Vittorio Emanuele) di assecondare Hitler non c’è un nuovo modello di umanità, per quanto atroce potesse essere il tentativo di “raddrizzare le gambe” a quest’umanità sghemba che siamo, sempre pronta a tirar fuori mezzucci, espedienti, farfanterie. C’è (anche) un arraffa-arraffa: la vecchia abbuffata di ladri e predoni che puntano a spogliarti di quel che hai, solo che stavolta inzuppano il biscotto in una panna montata di scemenze razziste.

Invasati? Qualcuno forse sì, probabilmente anche parecchi. Ma non pensavano affatto di combinare qualcosa di grandioso, anche solo dal loro punto di vista razzista e malvagio. Lo sapevano benissimo di commettere atrocità impossibili da perdonare: lo attesta il modo con cui lo stato maggiore nazista ha nascosto le tracce sia amministrative che operative dello sterminio fisico di milioni di persone (ebrei ma anche rom, omosessuali, oppositori…). La “marcia della morte”, con i deportati obbligati a percorrere centinaia di chilometri in condizioni infernali, non ha alcun senso neppure perverso se non quello di disseminare cadaveri. Il problema stava lì: come nascondere la produzione di migliaia di cadaveri al giorno. Anche i passaggi burocratici erano coperti non solo da segreto ma anche dall’uso di terminologie fuorvianti: in “Ausmerzen” di Marco Paolini emerge quanto da lontano arrivasse quest’intenzionalità. Infine, lo dice un testimone come Primo Levi: i nazisti sbeffeggiavano gli internati dei lager dicendo che non sarebbero mai stati creduti perché nessuno avrebbe potuto commettere qualcosa di così infame e disumano.

No, non erano in preda a un delirio collettivo, a una sbronza ideologica: erano consapevoli. Andatevi a leggere quel capolavoro che è “La banalità del male” firmato da Hannah Arendt nei panni di inviato speciale di “New Yorker”: Adolf Eichmann è sostanzialmente un tipo senz’arte né parte che trova nella repressione degli ebrei un modo per far carriera all’interno delle Ss, dopo essersi arruolato senza gran convinzione. La burocratizzazione delle mansioni in un cieco efficientismo e l’ingegnerizzazione della persecuzione lo proietta in orbita. Il sistema è semplice, lo spiega la testimonianza di un alto ufficiale nazista al processo di Norimberga: «Io dissi: questa è come un’industria automatizzata, diciamo come un molino legato a un panificio. Metti all’inizio del percorso un ebreo che ha ancora il capitale e ha, diciamo, un’industria, o un negozio o un conto in banca, e passando attraverso l’intero edificio, da ufficio ad ufficio, egli arriva alla fine, senza soldi, senza diritti, solo un passaporto con su scritto: devi lasciare questo paese in due settimane; se non ci riesci, sarai spedito in un campo di concentramento». Solo su Vienna, questa operazione riguarda 50mila persone: immaginate quanti soldi si possono spremere da 50mila persone, buona parte delle quali appartenenti alla borghesia commerciale o ai ceti delle professioni.

Come per la mafia secondo il giudice Falcone, follow the money: segui il flusso dei quattrini. Anzi, peggio della mafia: segui la spoliazione, il depredamento. Nei film sui lager ci si sofferma sulle montagnole di denti d’oro come emblema della spoliazione dei cadaveri. Ma quello è solo l’ultimo passo: in precedenza erano stati derubati di ogni avere. E spesso non si trattava di un molare rifatto bensì di industrie, catene di negozi, officine artigiane, blocchi di edifici.

Era stato Giampaolo Bitossi a mettermi la pulce nell’orecchio tanti anni fa. Con una argomentazione riassumibile così: tutti guardano i provvedimenti persecutori ideologici come l’espulsione dalle scuole o i licenziamenti dai posti di lavoro ed è giusto perché sono particolarmente odiosi, ma tu vatti a vedere nelle misure collaterali anche la spoliazione dei beni patrimoniali ti si aprirà un orizzonte.

Non c’è solo quello. C’è la creazione di un clima di minaccia incombente che dice: a Tizio e a Caio li abbiamo già depredati, a Sempronio la spoliazione toccherà prestissimo. Risultato: chiunque avesse  proprietà le svendeva o cercava un prestanome al quale intestare tutto per poi farselo restituire quando la bufera sarebbe passata.

In questa storia ci sono eroi e ci sono banditi. Sia chiaro, non sono mancati i casi di persone che, come rischiavano la pelle per mettere in salvo qualche perseguitato, si sono prestate al gioco e con eroismo morale hanno poi riconsegnato i patrimoni ai legittimi padroni ebrei dopo la guerra. Soprattutto bravi cristiani: e l’hanno fatto a dispetto della dottrina ufficiale che continuava a vedere negli ebrei i responsabili della morte di Gesù.

Ma c’è stato anche più di un  approfittatore: d’improvviso si sono ritrovati in mano grandi ricchezze – non loro, ok ma ufficialmente in mano loro – e chissà se davvero hanno fatto il tifo perché le famiglie ebraiche tornassero a casa a riprendersi tutto. Già ci ha pensato quella macchina di morte che è il lager a sterminarli mandandoli nelle camere a gas o facendoli crepare di stenti: vi meravigliereste se qualche italiano brava gente avesse deciso di aiutare la sorte evitando di farli ricomparire…

Del resto, quelle ricchezze non sono passate per il camino: al contrario, sono finite nelle mani di chi ha fatto di tutto per conservarsele fino a oggi, e magari ha posizioni di grande rilievo. Fortune costruite sulle camere a gas, e senza lasciare impronte digitali. Anche per chi miracolosamente sarà riuscito a scampare al sistema di annientamento pianificato nel lager non sarà semplice dimostrare in giudizio, a guerra finita e Auschwitz cancellata, che quella casa, quell’industria, quelle azioni o quella ditta passata di mano qualche anni prima era stata venduta solo fittiziamente e non in forza di una normale compravendita: questo non meraviglia, visto che la autorità dell’Italia democratica non cacceranno dai ranghi della “macchina” statale, in primis nella magistratura, i funzionari fascisti se non i più compromessi (si pensi finanche all’amnistia  firmata dal comunista Palmiro Togliatti anche per chiuderla con la “guerra civile”).

Non si creda dunque che a guerra finita questa marmaglia di usurpatori sia stata costretta a restituire il maltolto. Gli storici Paolo Giovannini e Marco Palla, in quel bel libro che è “Il fascismo dalle mani sporche”, non usano mezzi termini: «I beni razziati agli ebrei italiani del 1943-45 dalla Repubblica sociale, e anche quelli in vario modo ceduti da cittadini e famiglie ebraiche sotto la costrizione o il ricatto della congiuntura delle leggi antisemite del ’38, non furono restituiti che in minima parte».

Qui siamo sul piano inclinato che farà ruzzolare il nostro Paese dentro la guerra innescata da Hitler per andare alla conquista dell’Europa: ora la condanna delle leggi razziali serve alla destra-destra per coprirsi il fianco quando le viene chiesto di dirsi antifascista per rientrare nel patto dell’Italia nata dalla Costituzione. Lo fa con due obiettivi: 1) andare a caccia del voto ebraico o quantomeno di un elettorato di destra moderata conservatrice; 2) evitare di prendere le distanze dal fascismo del Duce in nome di un fasullo pragmatismo per cui Mussolini ha “fatto anche cose buone”, fingendo di dimenticare che fino al ’38 gli italiani erano comunque sotto il tallone di una dittatura che aveva fatto ampio ricorso all’eliminazione dell’opposizione sociale e politica a suon di omicidi, galera, spedizioni squadristiche e violenza diffusa.

Qui, insomma, siamo dopo le leggi razziste del ’38. Ma prima? Altro che “cose buone”: la “pacchia” era finita (forse) per i vecchi notabili ma era partita in grande stile per la nuova nomenklatura fascista. Che ci fosse del marcio il sospetto m’era venuto leggendo il “Telegrafo”, quotidiano di Livorno in mano alla famiglia Ciano (con padre e figlio non solo imparentati in linea direttissima con Mussolini, ma entrambi potentissimi ministri del regime). Mi riferisco a quella fase stranissima fra l’arresto di Mussolini dopo la notte del Gran Consiglio (25 luglio ’43) e l’armistizio di Badoglio u(l’8 settembre successivo) o ancora più in là (seguendo le sorti di Galeazzo che di lì a poche settimane sarà processato e fucilato).

Detto per inciso, io non ho adeguati strumenti storiografici per capirne tutti i risvolti ma è un periodo in cui il giornale, una sorta di “Gazzetta ufficiosa” di uno dei massimi esponenti del Ventennio fascista, è sbatacchiato: per le vicende ingarbugliate tanto del proprietario (Galeazzo entra nella “congiura” anti-Duce, sembra il numero uno del “fascismo senza Mussolini”, fugge dopo che i nazisti hanno deciso di puntare sulla restaurazione di Mussolini, si inventa una trattativa con i “diari”, eccetera) quanto del direttore (Giovanni Ansaldo, ex antifascista convertito dal Duce fino a esserne un riferimento, lascia il giornale dopo la caduta del fascismo, si arruola nell’esercito badogliano giusto in tempo per farsi un po’ di prigionia tedesca e rifarsi una verginità per il dopoguerra che lo vedrà di nuovo protagonista). Succede che in quell’estate-caos del ’43, se non ho visto male, il “Telegrafo” esce perfino senza firma, magari solo per sbadataggine. Finché non salta fuori Giovanni Engely a prenderne in mano la guida: anch’egli figura abbastanza fuori sagoma, dato che è fascista sì ma si è fatto pure un po’ di confino.

Al di là di questo, in quei giorni la prima pagina del giornale livornese è occupata ovviamente dalle notizie della guerra: il Duce è al rimorchio della “macchina” bellica di Hitler, lo si vede dal fatto che si decantano le vittorie delle truppe naziste nelle lande più sperdute (le forze armate italiane, del tutto impreparate come dicevano gli stessi generali, le hanno buscate pure nell’attacco alla Grecia alla quale dovevamo “spezzare levreni”…). Ma c’è posto quasi tutti i giorni anche per le notizie relative alla commissione nominata a tambur battente, dieci giorni dopo l’insediamento del governo Badoglio, per istituire «il processo alle ricchezze degli ex gerarchi del regime», come titola il “Telegrafo”. Lo si sbandiera come un provvedimento-chiave, uno di quelli che nella fuoriuscita dal regime mussoliniano «ha prontamente riscosso in tutta Italia i più favorevoli e unanimi consensi»: nel mirino gli arricchimenti illeciti fino a minacciarne la confisca.

È finita la pacchia, basta con l’ “amichettismo”: è un po’ quel che dice, sotto le bombe, il quotidiano sottolinea in una notizia datata “5 agosto notte” che «i casi di corruzione, i rapidi arricchimenti, i cumuli delle prebende aumentavano in maniera impressionante». Paradossale, poiché l’editore è proprio un altissimo dirigente fascista che sarà fra i più bersagliati da questo tipo di accuse. Ancor più paradossale – lo si legge in un paper del Politecnico delle Marche, facoltà di economia – che i regimi autoritari nascano con «il fermo proposito di eliminare la corruzione, promettendo la moralizzazione della vita pubblica attraverso l’eliminazione della vecchia classe politica» e invece proprio la mancanza di libertà e di controlli, cioè l’assenza di democrazia, siano il brodo di coltura che trasforma l’arraffa-arraffa in un sistema simil-Tangentopoli ma senza il pericolo di farsi beccare («il fascismo fu caratterizzato da un alto livello di corruzione, da un affarismo sfacciato e da un clientelismo senza precedenti»).

Di lì a una settimana arriva anche l’arresto del tipaccio che aveva assassinato il deputato socialista Giacomo Matteotti. A tal proposito vale la pena di segnalare che l’omicidio sarebbe stato commissionato dal Duce o dai suoi strettissimi collaboratori sì per il famoso discorso dei Matteotti in Parlamento ma anche perché i vertici fascisti temevano che il leader socialista avesse le prove del coinvolgimento di tutta una serie di figure di primo piano, a cominciare da familiari di Mussolini o addirittura di Mussolini stesso, nella “madre di tutte le tangenti” in una Mazzettopoli nera che avrebbe consegnato nelle mani di un colosso statunitense i diritti dell’estrazione del petrolio nelle più promettenti zone della penisola. Emerge in ricostruzioni giornalistiche come quella di Giuliano Capecelatro, ex inviato dell’ “Unità”, che pubblica “La banda del Viminale”. Qualcosa del genere vale anche per “Tangentopoli nera” firmato da Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella che sulla base dell’analisi di archivi britannici analizza «malaffare, corruzione e ricatti all’ombra del fascismo» per alzare il velo e raccontare «la verità sulla corruzione dei gerarchi, la faida interna al Partito fascista, le ruberie, i ricatti e gli scandali nell’Italia del Ventennio». L’editore calabrese Pellegrini ha dato alle stampe “I soldi dei vinti”, una inchiesta giornalistica con cui Mario Guarino punta il dito contro “la dolce vita della casta fascista” fra “corruzione, ruberie e omicidi” con “l’elenco dei profittatori di regime”.

Contando anche sui preziosi consigli di amici come Angelo Gaudio e Marco Di Giovanni, mi affido però soprattutto al rigore scientifico del lavoro di storici come Mauro Canali che insieme a Clemente Volpini dà alle stampe una ricerca dal titolo “Mussolini e i ladri di regime”, Mondadori editore. Tanto per dirne un paio, pure così diversi fra loro: riflettori puntati su Alessandro Pavolini, ministro del Minculpop, che sarà protagonista dell’ultimo tentativo di salvare Mussolini chiamando a raccolta in Valtellina i fedelissimi. Oppure: su Roberto Farinacci, «ex ferroviere diventato avvocato copiando la tesi di laurea», che è al tempo stesso «l’ideologo della purezza fascista» ma anche l’uomo che ha «accumulato un patrimonio di centinaia di milioni».

Canali e Volpini segnalano che l’inchiesta della commissione sugli arricchimenti illeciti dei gerarchi non avrà vita facile: il suo lavoro «durerà anni, accerterà profitti illeciti per 118 miliardi ma l’Erario riuscirà a recuperarne solo 19». Per farsi un’idea: attualizzata a oggi la maxi-tangente Enimont che è l’architrave di Mani Pulite negli anni ’90 equivarrebbe a quasi 175 milioni di euro, invece gli ingiusti arricchimenti della nomenklatura fascista accertati dalla commissione Casati sarebbero pari grossomodo a 129 miliardi di euro. I “ladri del Ventennio” hanno rubato quasi 738 volte di più della tangente-monstre che sembrava un record imbattibile del magna-magna dei partiti della Prima Repubblica. Come dire: il mangia-mangia della partitocrazia nei titoli di coda della Prima Repubblica sembra una corruzione da staterello sudamericano di bananas e invece era tutt’al più un antipastino della casa rispetto alle abbuffate trimalcionesche che si erano imbadite potenti, potentini e potentucci al tavolo del Duce nel Ventennio. Beninteso, chiunque abbia conosciuto la Prima Repubblica sa bene che è impossibile chiudere gli occhi davanti a tangenti, clientelismo e abusi. Talmente diffusi da diventare oggetto perfino della comicità nel varietà tv del sabato sera.

Si diceva allora: tutta quest’accozzaglia di gerarchi e podestà mangia a quattro palmenti ma se lo sapesse il Duce… In realtà era lui il capobanda: è Mussolini in persona a rivelare all’amante Claretta Petacci che sotto il tiro della commissione Casati c’è anche lui. Niente male per uno che si era fatto largo promettendo di portare alla sbarra i “pescicani” che si erano arricchiti con la guerra mentre i plebei morivano al fronte, talvolta fucilati dai loro stessi generali anziché dal nemico austriaco: una volta nella “stanza dei bottoni”, quella commissione d’inchiesta magicamente sarà inghiottita nel nulla perché a quel punto sono appunto i “pescicani” i suoi migliori amici.

Non è tutto. Giovannini e Palla citano lo scavo archivistico dello storico e politologo francese Musiedlak per ricordare che Mussolini riesce a farsi dare dal Senato enormi fondi personali fuori controllo: nell’agosto ’36 senza neanche indicare la cifra, nel giugno ’38 «con mandato esecutivo per un milione di lire senza indicazione di causale» e senza la minima pezza giustificativa.  Ben più dell’ammontare annuo di «tutte le indennità a tutti i senatori».

Nella citata indagine storica sul “fascismo dalle mani sporche” Giovannini e Palla indicano proprio questo non era un pugno di mele marce, era un intero sistema a essere bacato fin dall’ascesa dei nuovi potentati che dopo la marcia su Roma sostituiscono al notabilato tradizionale. Qualche esempio: 1) La «liquidazione del “populista” Padovani a Napoli»; 2) lo «scandalo soffocato sul nascere sulle trame affaristiche di Giampaoli a Milano»; 3) le «oscure vicende legate agli intrighi attorno al primo podestà di Milano (Belloni) in cui rischiò di essere invischiato il fratello di Mussolini, Arnaldo»; 4) la «rivincita degli ex liberali che a Firenze ripresero le redini del potere sul parvenu Tamburini, che aveva lucrato sul gioco d’azzardo e tenuto sotto controllo buona parte del racket della prostituzione e delle case di tolleranza». Più  avanti si aggiunge che: 5) Farinacci «comprò immobili e proprietà al ritmo di circa uno all’anno tra il 1936 e il 1941»; 6)  Pavolini acquistò «due fattorie in provincia di Firenze» per una cifra che attualizzata supera i 4 milioni di euro più una dimora a Roma «talmente sontuosa da avere una sala cinematografica inclusa»; 7) Giuseppe Bottai, il gerarca dell’intellettualità fascista, che spende una fortuna per il suo «villino di 42 stanze».

Benché si sia incardinato un potente apparato propagandistico che cerca di accreditare al fascismo un intento di moralizzazione della vita pubblica, ecco che l’analisi storica mette in luce «il regime fascista come un momento che fa compiere, per così dire, un salto di qualità e rilevanza al nesso politica-corruzione-affarismo». A cominciare da uno che rischiamo di ritrovarci fra i piedi (anche se la tendenza al rafforzamento del potere esecutivo viene da lontano e ha sedotto anche la sinistra): presentando il saggio di Paul Corner, i curatori di “Il fascismo dalle mani sporche” mettono l’accento sulla «soggezione degli altri poteri all’esecutivo». In particolare, l’attenzione riguarda «la subalternità della magistratura al governo e la vera e propria obliterazione del potere di contrappeso e di controllo parlamentare degli eventuali o reali abusi del potere ministeriale». L’una e l’altra procedettero «sempre in parallelo con la propaganda che occultava scandali o semplici infortuni di percorso, nella dilatazione di inediti livelli di centralizzazione politico-istituzionale e amministrativa che rispetto al fascismo facevano impallidire il trasformismo pur corrotto dell’Italietta liberale». Proprio «la dittatura e l’onnipresenza del partito unico del regime» gonfiavano le vele dei  «più audaci e spregiudicati gerarchi, che godevano quasi sempre di una sorta di impunità preventiva, e rappresentarono rispetto al personale politico prefascista, non raramente improvvisato e talora sprovveduto, una nuova inedita fase di professionalizzazione della politica».

DALL’ ARCHIVIO:

Nelle foto, dall’alto: una serie di ritratti di Benito Mussolini in primo piano (il terzo è in piedi in occasione di una iniziativa della “battaglia del grano”); in prima pagina sul Telegrafi nell’agosto ’43 un pezzo sugli arricchimenti illeciti dei gerarchi; in coda per acquistare il pane; copertina con una illustrazione dedicata all’ “oro alla patria” (le immagini sono state scattate personalmente o rintracciate in rete, in caso di problemi relativi ai diritti segnalatelo nei commenti e provvederemo a rimuoverle immediatamente)

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