Ho visto madre Teresa, ma di Livorno: “santa” degli indifesi

Non è la suorina di Calcutta: si chiamava Olimpia Sgherri, era una maestra e ha speso l’esistenza per aiutare i baraccati e gli emarginati. Fra pochi giorni saranno dieci anni che non è più in mezzo a noi

di Mauro Zucchelli

Ho conosciuto santa madre Teresa: no, non di Calcutta, semmai di Livorno. Non solo: invece che rimpiattare le rughe e la testa dentro il sari bianco e azzurro, andava a viso aperto controvento con la sua bici per arrivare ovunque ci fosse bisogno. E se la congregazione della suora indiano-macedone insiste a dire che quella tunica bicolore è «riconosciuta come simbolo di pace e carità in tutto il mondo», io rispondo che qui da noi a Livorno la bici di Olimpia la conoscevano tutti gli indifesi agli angoli di ogni cantonata. Non è un caso che si intitoli “La carità arriva in bicicletta” il volumetto di testimonianze a cura della sorella Maria Rosa e di Chiara Domenici, responsabile della comunicazione della diocesi di Livorno. «Di bici gliene hanno rubate addirittura 19», racconta la sorella. Poi aggiunge sorridendo: «Se le dicevo di denunciare il furto, si limitava a ribattere: “Se l’hanno presa vuol dire che ne avevano bisogno”».

Si chiamava Olimpia e di cognome faceva Sgherri. Speriamo che la “sua” Chiesa si rammenti che fra qualche giorno è il decimo anniversario dal giorno in cui è «tornata alla Casa del Padre», come si prova a dire fra credenti in momenti come quelli che schiantano il cuore perché chi amiamo se n’è andato a vivere sull’altra sponda di questo fiume che è l’esistenza. In effetti, finora la Chiesa livornese l’ha additata come esempio: l’archivio del giornale diocesano online le ha dedicato una dozzina di articoli, se n’è parlato anche alla trasmissione tv che la Chiesa livornese gestisce sull’emittente toscana Granducato tv.

Olimpia se n’è andata per sempre un martedì 11 febbraio di quasi luna piena. Nel giorno che agli occhi della Chiesa è un crocevia di simboli/anniversari: i patti lateranensi fra l’Italia del Ventennio e la Chiesa di Pio XI; le apparizioni della Madonna a Lourdes; le dimissioni di Benedetto XVI da papa. Ma la religiosità di Olimpia non stava nei Sacri Palazzi: semmai usava sandali e bici per andare a scovare la “sua” gente. Là dov’era e com’era, senza pretendere di “disinfettarla” ma riconoscendola già a immagine e somiglianza di quel Dio che le aveva preso il cuore. Come succede agli innamorati: sì, non riesco a trovare altra spiegazione.

Prendo in prestito le parole di don Gigi Zoppi, prete-coraggio che ha speso la vita sul fronte del disagio: «Olimpia non ha fatto miracoli, almeno che io sappia, ma ha fatto della sua vita un miracolo: chi l’ha vista operare ne è rimasto stupito, a volte sconcertato».

A differenza dei santi lontani nel tempo o, come la madre Teresa propriamente detta, distanti nella geografia, lei era qui fra noi: non l’avresti mai sentita ovviamente tirar moccoli in slang labronico come un portuale ma in quei gesti pieni di premura potevi rintracciarne l’orma della carne della nostra carne. Del resto, non si atteggiava a tirarsela neanche un po’ come capita a chi vuol fare il perfettino. Livornese, insomma.

Livorno la sua radice multietnica la rivendica perfino nel Pantheon dei suoi santi che stanno sugli altari della Chiesa cattolica. Figurarsi che: 1) è una ragazza nordafricana arrivata con i barconi la patrona santa Giulia; 2) viene dalla Danimarca Niels Stensen, poi italianizzato in Nicolò Stenone, straordinaria figura di scienziato un po’ naturalista un po’ geologo un po’ anatomista e chissà cos’altro, che da protestante si converte al cattolicesimo e diventa vescovo; 3) che Elizabeth Ann Bayley Seton era semplicemente una mamma americana con una tribù di figlioli da crescere, poi arriva a Livorno per l’import-export del marito, lui muore e lei, da episcopaliana che era, si converte al cattolicesimo, fonda una congregazione religiosa e vola in cima alla top ten della virtù di Oltreoceano risultando la prima santa statunitense.

Di (quasi) santi di casa nostra c’è Pio Alberto Del Corona, che però dovrà andare a fare il vescovo altrove, e c’è don Giovan Battista Quilici, prete-coraggio come don Luigi Ciotti. Ma siamo lontani anni luce: è l’Ottocento. Ecco, Olimpia no: fosse ancora viva non avrebbe nemmeno cent’anni, cioè potrebbe esser benissimo la nostra nonna o tutt’al più bisnonna.

Diffido sempre dell’etichetta che rende Tizio o Caio “uno di noi”: spesso la sento non tanto come sinonimo di grandezza nella capacità di fratellanza quanto semmai come un impiastrarci tutti in una melassa indistinta. Lo ripeto, Olimpia no: ci corrono più di trent’anni fra me e lei, sicché le mie strade in Caritas, con le suorine di Shangai, nelle parrocchie si sono incrociate con le sue. Già allora potevi intuire che c’era qualcosa di speciale in lei: ve ne accorgete se fate una capatina nella memoria web che l’accompagna o se sfogliate il dossier preparato dalla sorella Maria Rosa in tandem con Chiara Domenici. È la declinazione al femminile di qualcosa che perfino la teologia di papa Francesco non è riuscita a far uscire dal recinto del maschile: mi riferisco al pastore che sta in mezzo alle sue pecore, ne riconosce l’odore e, anzi, anche lui ne è impregnato.

Diffido ancora di più di questa frenesia postmoderna per cui c’è da bruciare le tappe di qualsiasi cosa: “santo subito”, come se il furor di popolo fosse garanzia d’esser voce di Dio. Però capisco che chiunque l’abbia conosciuta la descriva come la “madre Teresa di Livorno”: come la santa degli ultimi, dei più indifesi. Adesso anche via social è partita la ricerca di testimonianze da poter allegare all’iter per la causa di beatificazione. Resta il fatto che il web l’ascesa agli altari l’ha in certo qual senso decretata già: il principale sito internet della devozione religiosa a santi e beati ha inserito «Olimpia Sgherri, terziaria francescana» fra le “bio” mostrate ai fedeli.

«Nei tempi più difficili del disagio cittadino, – viene sottolineato – Olimpia era diventata quasi in permanenza abitante delle baracche della Fortezza Nuova e di Coteto, portandovi in aiuto dei più umili tanti giovani volontari, tra i quali Vincenzo Savio, diventato poi vescovo ma costantemente vicino a Olimpia che era stata la sua madrina al momento della scelta del sacerdozio». Aggiungendo poi: «Pur non essendo madre perché consacrata a Dio, faceva da madre a tanti, si occupò dei poveri, dei baraccati, dei moribondi, dei malati di Aids». Attenzione, però: la caratteristica da mettere in vetrina è il sorriso di Olimpia perché stava «dentro il cuore e la accompagnava sempre».

Alle spalle aveva una famiglia normale: funzionario del consorzio agrario il padre Grifeo, casalinga la mamma Corinna più un fratello (Domenico) e una sorella (Maria Rosa, ex dirigente di primo piano in canpo scolastico e esponente politica del centrodestra fino a esserne nel ’99 la candidata sindaca). Lei è maestra e al diploma magistrale ha aggiunto la specializzazione alla scuola ortofrenica che le ha spalancato la porta dell’attenzione ai disabili cognitivi. Ci sono ancora le scuole differenziali e le persone con disabilità sono tutt’al più chiamate “handicappati” e sono costrette a starsene rinchiuse in casa, ed ecco che a Castiglioncello parte il campeggio estivo dei ragazzi disabili, una esperienza incredibile anche per la sua carica profetica anticipatrice. A maggior ragione se si pensa che si è scelto di organizzarla negli stabilimenti balneari della gente-bene. Ebbene, lei c’era.

Non c’è solo questo, e ben lo racconta padre Gabriele Bezzi: «Dopo tante sollecitazioni, ottenne di poter permettere che un bambino, con grave handicap psico-motorio, potesse ricevere la prima Comunione come i suoi coetanei». Il religioso cita sul blog dedicato a Olimpia anche un altro «episodio da fioretti che ho vissuto insieme a lei»: c’era da trovare un tetto per una ragazza e loro due passano «tutta la notte bussando a tante porte che regolarmente non si aprivano». Chiunque si sarebbe scoraggiato, «ma non Olimpia».

Un altro pezzetto del puzzle lo affido a don Gigi Zoppi: «Il momento in cui arrivava il giorno in cui riscuoteva il suo stipendio mensile era “il tripudio per una infinità di persone che avevano già prenotato la propria parte per pagare i debiti accumulati: bollette, rimborsi, alimenti, vestiti. A lei rimanevano le briciole ma era davvero contenta della contentezza dei suoi amici: questi gesti le aprivano le porte per rappacificare le famiglie, difendere i più deboli, ottenere favori, lavoro, asilo assistenza quando finivano in carcere».

La comunità ecclesiale stava vivendo in quegli anni una grande trasformazione: grazie al fatto di aver avuto come apripista al timone della diocesi un padre conciliare del calibro di monsignor Emilio Guano e in seguito di aver avuto come vescovo un aperturista come monsignor Alberto Ablondi, Livorno vive una primavera del rinnovamento ecclesiale. Anche sul fronte della carità: la nascita della Caritas porta a mettere ko lo schema classico della beneficenza in dolce stil dama di carità che con le sue solide certezze borghesi dedica qualcosa ai più sfortunati.

Di quel rinnovamento sotto le insegne della Caritas, don Gino Franchi è stato forse il portacolori: dare una mano in modo che i povericristi si rialzassero dal loro stato di bisogno, anziché cronicizzarceli. Il fotogramma successivo è quello di Olimpia che coinvolge la cerchia degli amici e trova il modo di recuperare quel furgoncino Ape da donare a una coppia che riesce così a fare cartoni e guadagnarsi quel minimo tale da consentirle di cavarsela. Non saranno diventati nababbi con attico alle Maldive ma ce l’hanno fatta ad affrancarsi dall’obolo.

Per Olimpia Sgherri, comunque, le cose forse erano molto più naturali di così: si basavano su una straordinaria disponibilità umana (che partiva da una dimensione religiosa): a cominciare dall’aiuto ai baraccati. All’interno della Fortezza ma soprattutto fra Colline e Coteto il drammatico problema della casa in una città largamente distrutta dalla guerra aveva lasciato l’eredità di una numerosa popolazione di sfollati che si erano arrangiati a costruirsi una casetta con materiali di risulta, giusto per avere un tetto sulla testa. Una sorta di campo profughi auto-prodotto, una “favela” nel cuore di una città dell’Occidente opulento: finanche nel pieno del miracolo economico. Solo alla metà del decennio ’70 – ci vorranno, insomma, trent’anni dalla fine della seconda guerra mondiale – le baracche spariranno da via Torino.

Lei la “guerra” l’aveva dichiarata all’emarginazione e aveva scelto quella trincea: accanto aveva don Vincenzo Savio, seminarista salesiano che qualche anno più tardi sarebbe diventato una delle anime  del sinodo diocesano e nel maggio ’93 riavremo come vescovo ausiliare al fianco di Ablondi. C’è il suo zampino nell’ambulatorio creato in Corea da suor Paola Lubino con suor Beatrice Antonelli e suor Tarcisia Gallazzi: c’era riuscita contando sui medici del suo network di amici per dare cure specialistiche gratis a chi, non avendo soldi, avrebbe dovuto rinunciare a curarsi.

Nel libro su Olimpia don Piergiorgio Paolini ne racconta la dimensione “tormentata”: quel non riuscire a fare “abbastanza” di fronte ai millemila mali del mondo («e questo le generava un senso di incompiutezza e di colpa»). Il suo – rincara – era «un servizio che potrebbe esser definito “pazzo”, fuori di ogni regola, difficilmente inscrivibile in categorie istituzionali ma, forse proprio per questo, segno di quella libertà dello Spirito Santo che rifugge  da ogni costrizione». Poi: l’impegno per aiutare il decollo degli “Amici della Zizzi”, l’associazione che si occupa di bambini in difficoltà, e i consigli da guida spirituale ai giovani che volevano scegliere la via della consacrazione religiosa: come padre Lorenzo Cantù, missionario in Tanzania, o Laura Serboli, clarissa a Camerino, solo per dirne un paio.

«Qualcuno l’ha chiamata la “Madre Teresa di Livorno”, altri l’hanno paragonata ad un angelo, ma la personalità di questa piccola grande donna è qualcosa che difficilmente si può raccontare», dicono Maria Rosa e Chiara. C’è sempre il rischio di apparire agiografici, di metter lì una nota stonata: un “santino” pieno di belle parole edificanti ma che inevitabilmente suona un po’ fasullo a chi è stato ovviamente ammaccato dalle botte che la vita riserva. E la prima a riderci sarebbe stata lei, che non amava granché far finire sotto i riflettori la propria attività: se era capitato che qualche cronista arrivasse di fronte a lei con il taccuino, lei aveva gentilmente risposto di girare alla larga.

Lei non aveva girato affatto alla larga quando l’Aids aveva iniziato a colpire anche qui da noi, e a farlo con quell’idea che portava con sé l’etichetta del “te lo sei andato a cercare”, aveva fatto quel che aveva sempre fatto: mettersi dalla parte di chi faceva fatica a svoltare la giornata e infilarsi nel reparto di malattie infettive. «Con la scusa di portare i tortelli che aveva preparato lei, riusciva a far tornare per un attimo il sorriso sul volto di chi sentiva la vita sfuggirgli di mano», spiega chi la accompagnava.

DALL’ ARCHIVIO:

Nelle foto, dall’alto: Olimpia Sgherri in una serie di immagini tratte dal volumetto “La carità ariva in bicicletta” a cura di Maria Rosa Sgherri e Chiara Domenici, la prima è con i nipoti, poi con la sorella, quindi alla tomba di Lazzaro in Palestina, poi insieme a don Vincenzo Savio e a Giovanni Bosi; più in basso, una immagine delle “baracche”, infine un ritratto di Olimpia, giovane maestra nel dopoguerra

2 risposte a “Ho visto madre Teresa, ma di Livorno: “santa” degli indifesi”

  1. Avatar lucyluxλουτσια
    lucyluxλουτσια

    Una testimone non troppo isolata, ma sicuramente silenziosa, che ha inteso dedicare risorse materiali e spirituali a chi non poteva goderne. Complimenti a Mauro Zucchelli che porta alla luce storie, altrimenti ignorate dalla massa distratta e arida della nostra popolazione…

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    1. Avatar Marco Filippi
      Marco Filippi

      meraviglia Mauro!

      grazie ancora una volta per questo dono prezioso che è la memoria di un ricordo che consente a tutti (anche a chi estraneo al mondo della chiesa e della carità ufficiale come me) di percepire la distanza siderale di un mondo appena trascorso da quello attuale…

      edificare le anime e le coscienze di una comunità che si riconosce dovrebbe essere l’imperativo della gerarchia ecclesiastica non la posa di pietre ed architravi !

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