La “Madonna” derubata: a Montenero l’audace colpo dei soliti ignoti

Agosto 1971, gli strani retroscena di uno dei più incredibili blitz di ladri: lasciano lì un capolavoro del Trecento, fanno sparire i gioielli donati nel corso dei secoli. L’icona l’ho vista da vicinissimo nel 2006: i buchi dei chiodi come le “stimmate”

di Mauro Zucchelli

Questa storia bisogna cominciare a raccontarla dalla coda. Da quando tanti ma tanti anni fa – e comunque a tanti ma tanti anni di distanza dai fatti – piombò in redazione un tale. Nome e cognome da “mala” livornese doc, chiede di me e non so per quale motivo: quando glielo chiedo è come se fossi il maresciallo che invita all’ “infamata”, ben sapendo che i nomi non si fanno. Borbotta qualcosa lui e non capisco nulla io, pazienza. Meno confusa è la spiegazione del motivo che l’ha portato lì: una bega con il Comune per l’asilo del figlio, un po’ come se fosse il signor Rossi che, signora mia, si lamenta della mensa del bimbo o della multa per divieto di sosta.

Lui espone, argomenta, sbuffa. Poi: «Bello, ma l’hai capito chi sono?». Eccolo con il soprannome che tutti conoscono e che dovrebbe inquietarmi: con lui non si scherza, «scrivilo bello grosso». A quel tempo non ero proprio l’ultimo arrivato in redazione ma tutt’al più il penultimo, e neppure potevo giocare con il fatto di conoscere bene la cronaca nera. Ma lui è lì e io anche, c’è una cosa da chiedergli e devo farlo ora: «Sentimi un po’, ma sei stato te a portar via i gioielli della Madonna di Montenero?». Con tutta la solennità del caso, mi dice che: «Mai, figuriamoci: nemmeno per idea». Non so se sia stata opera sua o una coincidenza, fatto sta che giorni dopo qualcuno lascia un foglietto per me in portineria. Calligrafia un po’ così e grammatica idem, ma il messaggio è chiaro: nessuna prova ma, secondo “radio carcere”, girava voce che il colpo l’avesse fatto una banda di malviventi sardi.

Se n’è andato una dozzina di anni fa, nel mentre aveva fatto in tempo a inventarsi rocambolesche fughe dalla galera: ad esempio, una volta dai Domenicani poco più che trentenne e, nell’anno del terremoto, sparì dal penitenziario di Gorgona con una evasione da romanzo. Anzi, da atleta: effettivamente, con un buon palmares fra boxe, atletica, credo ciclismo e altro ancora.

Il più grande colpo di ladri degli ultimi sessant’anni a Livorno – esclusa dunque la sarabanda attorno ai depositi americani nella macchia di Tombolo nel dopoguerra – è stato senz’altro questo: il furto dei gioielli della Madonna di Montenero poco prima del ferragosto ’71.

Spariti un gran numero di preziosi che erano appuntati sulla tavola di legno dipinta da nel corso dei secoli erano stati donati all’icona sacra custodita dai monaci vallombrosani a Montenero che da quasi ottant’anni è considerata dalla Chiesa cattolica la patrona della Toscana: al santuario è arrivato in visita papa Wojtyla nel 1982 (ma anche il fondatore dell’Opus Dei, Josemaría Escrivá de Balaguer, nel 1955), ospita migliaia di ex voto dei fedeli e una galleria con gli stemmi di tutti i municipi toscani. Gianfranco Pierucci, giornalista del “Telegrafo”, parla di un valore «ingentissimo, nell’ordine di parecchie centinaia di milioni di lire». Come dire: 100-200mila euro, forse di più.

La prima domanda che salta fuori: ma come mai hanno rubato i gioielli e non anche la tavola trecentesca? Difficile da maneggiare, difficile da collocare: a meno di non conoscere  i giri dei collezionisti. E nin  avrebbero forse potuto tener in ostaggio il dipinto per farsi consegnare un riscatto?

Sta di fatto che sono spariti «una croce maltese tempestata di brillanti, una stella caudata anch’essa carica di brillanti; un anello a mariage composto da un rubino a forma di cuore e di un diamante circondato di rubini; un pendaglio di brillanti; una collana di 28 perle a filo portata al collo dalla Vergine; una collana di 17 perle portata al collo dal Bambin Gesù con croce fiamminga e un breloque con fiocco». Sono arrivati dalle teste coronate di mezza Europa: ad esempio, Maria Luisa d’Austria e Vittorio Emanuele I di Sardegna. Ma anche da nobili casati: come i de Larderel, il cui nome tutti conosciamo a causa della via del centro e del relativo palazzo, e come il cavaliere fiorentino Pandolfo Attavanti.

Ma come hanno fatto i ladri a sgraffignare questo tesoro? Già la dice lunga che si parli al plurale. Benché abbia provato a “indagare” sulle indagini, si capisce che negli investigatori si forma una convinzione: il colpo l’hanno fatto in due. Uno si è fatto rinchiudere dentro il santuario e si è nascosto in un piccolo spazio che in un angolo del santuario era stato creato alle spalle della parete posteriore di un confessionale. L’indizio: il frontone era danneggiato. Però è un teorema che regge per poco. Si passa all’ipotesi di un blitz quasi acrobatico dall’alto: all’esterno del santuario c’è una stradina dalla quale si arriva alla cupola. Obiettivo: forzando una inferriata, si accede a una finestra dalla quale ci si può calare sull’altar maggiore. Ma anche questa va a vuoto: non è così semplice riuscirci, e nemmeno agguantare il dipinto. Gli 007 però trovano un’altra finestrina, sempre all’esterno della cupola: ha il lucchetto spaccato e dà accesso all’ex alloggio del sacrestano, in quel momento è vuoto e dà accesso al ballatoio. Guardando le tracce di impronte di piedi, i rilievi della polizia scientifica fanno emergere l’ipotesi che dal ballatoio poi ci si sia calati sull’altar maggiore con una corda. I ladri vengono quasi sempre immaginati in due ma i sospetti si concentrano su un identikit: quello di un tipo «basso, tarchiato e con un grosso naso».

Devono essersene poi andati forzando il portone d’ingresso. L’incursione dei ladri è stata scoperta alle 6,15 quando fra’ Giovanni, addetto all’apertura del tempio, ha scoperto quel che era accaduto. Ecco che in breve è saltato fuori che verso l’una e mezzo un po’ di trambusto è stato udito da suor Eufrosina, la cui cameretta si affaccia sul grande piazzale: probabilmente ha sentito il paletto che veniva fatto strusciare sul pavimento di marmo. Poi sono passati o dall’arco che dà su via della Lecceta o dalla scalinata che porta alla piazzetta. Tanto per non complicare le cose, attorno alle 4,30 c’è chi ha notato alcuni tizi giunti a bordo di una auto sportiva avvicinarsi a un’altra vettura: si scoprirà che hanno rubato un transistor. Solo che i due episodi pare non siano collegati.

A dire il vero, qualche avvisaglia c’era stata, e i monaci stavano prendendo contromisure: era in programma di installare una sorta di saracinesca per proteggere il quadro ma i lavori sarebbero partiti di lì a pochi giorni. Quali avvisaglie? Due in giugno: il 3 nel cuore della notte una villeggiante in un albergo della piazza è stata svegliata nella notte dal bailamme che due tipi stavano combinando sul retro per santuario per riuscire a infilarvicisi; una settimana più tardi, sempre di giovedì, l’attacco era arrivato dall’accesso di via Byron svegliando i seminaristi che avevano dato l’allarme. Anche una suora ha raccontato al disegnatore di identikit quel tale che indicava a un amico qualcosa lassù sul campanile. Un turista? Può darsi, peccato che la scena risalisse alla notte del martedì prima del furto.

Il campanello d’allarme era suonato ancor più forte pochi giorni prima del furto: dall’abbazia vallombrosana che è casa-madre per i monaci di Montenero avevano preso il volo una grande croce seicentesca d’argento e antichissimi codici in cartapecora ultramillenari.   

Lasciamo perdere il fatto che l’icona clou della devozione popolare livornese sia opera di un artista pisano (Jacopo di Michele detto Il Gera): ne ritroviamo le tracce in mezza Toscana fra Pisa, Volterra e San Miniato. Ma anche a Palermo: con un’opera firmata «Jacopo Migele detto Gerardo da Pisa me pinse» (non è strano, visto che i setaioli pisani avevano una cappella nella città siciliana). Semmai è la riprova che Livorno e Pisa vivranno immancabilmente la rivalità municipalistica ma, fuor di sfottò, alleati in una sorta di tandem territoriale potrebbero, diciamo così, fare miracoli…

È curioso però che gli ultraottantenni la Madonna montenerese se la immaginino ancora oggi tutta coperta di preziosi (e non lo è più) mentre nell’immaginario collettivo più recente questa ridondanza di monili è sparita e chiunque pensa che l’icona sia sempre stata così, priva di ammennicoli, con la sua straordinaria bellezza artistica e basta.

In effetti, vista da vicino – anzi, da vicinissimo – l’immagine della Madonna trecentesca con il cardellino ha un fascino incredibile, quello dell’essenzialità. L’effetto choc di quel furto lo si vede nelle due copertine che la rivista del santuario mette in copertina a distanza di poche settimane: lo splendore magnificente dell’immagine carica di gioielli; il numero seguente ha un tono cupo, leggermente fuori fuoco. L’icona non sembra privata solo dei preziosi ma anche della sua dignità, del suo magnetismo.

Chissà quante volte l’ho vista ragazzino con i gioielli e chissà quante invece senza: assai di più, da montenerese che qui si è sposato, qui ha portato a battezzare i figli. Niente però eguaglia il faccia a faccia che ho avuto con il capolavoro trecentesco nel 2006 quando sono andato a intervistare un restauratore di grande talento come Fausto Giannitrapani, pisano pure lui come pisana è la Soprintendenza che ha la regia dei lavori.

La Madonna era lì in una austera stanza del monastero. Austera pure lei: erano stati sistemati gli squarci più gravi causati dai ladri che i gioielli li avevano evidentemente strappati senza tanti complimenti, ma restavano i buchi dei chiodi che per secoli avevano sostenuto preziosi anche pesantucci. Mi ricordo di aver pensato che i buchi dei chiodi li troviamo anche nelle mani e nei piedi del Cristo messo in croce sul Golgota: come se l’icona avesse le “stimmate”…

Il restauratore mi indica dove è stato cancellato il lavoro dei suoi colleghi che cent’anni prima avevano avuto la bella pensata di usare un po’ di bianco per rifare il contorno labbra alla Madonna (con il singolare effetto di renderle un po’ siliconate) e, già che c’eravamo, ravvivare pure la bocca con un tocco di rossetto. Più una “sciura” che una Madonna? Meno male che Giannitrapani ha provveduto a rimediare: anche togliendo quell’aggiunta di strane unghiette sul dorso delle dita del piccolo Gesù o eliminando i ritocchini che avevano dato al Bambinello una boccuccia a forma di cuore…  

Sicuramente è stato il “furto del secolo” a Livorno per valore economico della refurtiva, ma soprattutto mai niente di paragonabile come rilevanza. Eppure “Il Telegrafo”, dopo aver dedicato al furto sacrilego l’intera prima pagina di venerdì 6 agosto, limita l’attenzione ai primi due-tre giorni, poi tutt’al più la celebrazione riparatrice e un paio di pezzetti sulle indagini: da dire però che non potrebbe essere più affettuoso l’apprezzamento dei monaci vallombrosani per la linea del giornale e per l’editoriale del suo direttore Carlo Lulli, nero su bianco sull’ “Eco del santuario”. Altrove anche meno: sull’ “Unità” ho trovato metà di un pezzetto sui furti in chiese, su “Paese sera” mi pare nulla. Perfino l’ “Osservatore romano”, il giornale del papa, non mette nulla se non quasi una settimana dopo. Non so spiegarmelo se non con il fatto che le indagini «brancolassero nel buio», come suol dirsi quando proprio il commissario non sa che pesci prendere.

Anche “La nazione” spegne prestissimo i riflettori dell’attenzione. E questo è ancor più singolare: alla vigilia del furto di Montenero il quotidiano fiorentino dedica una inchiesta di grande impatto sui furti d’arte dal titolo “esportazione clandestina”. Addirittura indica uno per uno i dodici grossi colpi che i ladri hanno messo a segno in Toscana nei primi sette mesi di quell’anno: luogo, artista, quadro. Arriva come il cacio sui maccheroni il caso di Montenero e invece l’attenzione è al minimo sindacale. Salvo poi riprendersi, ma solo per parlare dei quattro dipinti recuperati a Montefollonico e della Madonna di scuola robbiana trafugata a Scansano.

Pochi giorni dopo il furto sacrilego, la città viene invitata a un pellegrinaggio “riparatore”. La cerimonia penitenziale non l’ha fatta il vescovo Ablondi, che dopo aver affiancato monsignor Guano malato era titolare della diocesi da appena dieci mesi: era costretto da impegni a rimanere fuori Livorno, il rito lo celebreranno altri prelati.

Monsignor Ablondi dirà anni più tardi di aver pensato di lanciare una raccolta per “ricomprare” i gioielli alla Madonna di Montenero ma, con una battuta che non era solo una battuta, disse che «se non voleva farseli rubare, una come lei avrebbe saputo come fare». Dunque, a pensarci bene, invece di spendere tutti quei soldi per rubini e perle, aveva pensato che i “gioielli” veri per la Madonna non potevano che essere opere di solidarietà in favore degli ultimi (non so se mi sbaglio ma credo fosse l’anno della raccolta straordinaria per la casa dei malati di Aids e per l’ospedale in Africa là dove volontari livornesi avevano da tempo creato legami).

Un furto incredibile in una notte bislacca: luna piena (e “rossa” per via di una eclissi lunare mai così forte). Luna piena proprio nei giorni in cui la luna era sotto gli occhi del mondo perché gli astronauti Usa l’hanno girata un po’ e hanno portato a casa un quintale di pietre lunari.

Non c’era solo quello: in quel ’71 la Svizzera si sveglia e riconosce il diritto di voto perfino alle donne, la squadra Usa di ping pong va a Pechino e sembra scongelarsi il mondo (che intanto deve vedersela con la guerra indipendentista del Bangladesh). Ma se vi metteste a sfogliare i giornali di quei giorni di inizio agosto trovereste soprattutto un’ariaccia da poliziottesco. Anche a Livorno: 1) a Castiglioncello la dimora signorile del conte Pontello è assaltata dai ladri che razziano quadri, quattrini e preziosi, ed è solo la più illustre di una sfilza di residenze estive visitate dai malviventi; 2) a Antignano un grosso furto nella villa di uno spedizioniere; 3) poco più tardi, stesso copione in una bella villa di Nugola; 4) impresa ladresca anche in un albergo livornese, con un bottino da quasi 150mila euro; 5) l’ultima vittima di questa serie di grossi colpi di mezz’estate è una galleria d’arte; 6) pizzicano un ladro e lui si fa largo con la sua pistola; 7) due giovani arrestati per uno scippo; 8) blitz antidroga a Tirrenia con cinque arresti. Guardando un po’ più in là, ecco che la lista si allunga a un parroco ammazzato con una fucilata al volto in un paesino lucchese; un ferroviere fatto fuori in un casello ferroviario a Milano; una strage sfiorata in una caserma dei carabinieri a Rimini con uno dei cento attentati finiti per esser coperti dalle ragnatele dell’oblìo. Senza dimenticare i morti di Augusta: incidente fra due petroliere in porto, livornese è una delle navi e livornese è uno dei morti. Basterebbe dare un’occhiata ai giornali locali del passato (o alle cifre Istat dei reati denunciati) per toccare con mano che è solo una panzana più o meno in malafede rievocare un fantomatico passato (inesistente) in cui dormivamo con la chiave nella porta.

DALL’ ARCHIVIO:

Nelle foto, dall’alto: le copertine dell’ “Eco del santuario di Montenero” nel ’71, prima e dopo il furto dei gioielli; la prima pagina del “Telegrafo” con la notizia del furto sacrilego; suor Eufrosina, testimone ascoltata dagli investigatori; una ragazzina bacia l’immagine sacra durante un rito; il vescovo Ablondi durante una visita alle grotte e sul sagrato del santuario (le immagini sono dell’ “Eco del santuario” e del “Telegrafo”)

2 risposte a “La “Madonna” derubata: a Montenero l’audace colpo dei soliti ignoti”

  1. sempre piacevole leggerti!

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  2. Bravo.Un ricordo che hai fatto bene a ricordare.La penso come Mons.Ablondi.La Madonna n

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