Genocidio/1. Ruanda 1994, i massacratori della porta accanto: come ti stermino l’etnia altrui e la faccio franca

Fra pochi giorni il 30° anniversario dei massacri di Kigali: a colpi di machete gli hutu fecero a pezzi gran parte dei tutsi, un abitante su sette. L’Europa soffiò sul fuoco in nome delle sfere d’influenza, poi il mondo si girò dall’altra parte e i “caschi blu” lasciarono campo libero ai boia. Come a Srebrenica: 10mila morti e una medaglia agli olandesi che li consegnarono agli aguzzini

di Mauro Zucchelli

Prima di tutto bisogna azzerarne i corpi: volti e spalle, braccia e gambe, tutto ridotto alla misura disumanizzata di un puntino da videogioco. Accadeva per i droni guidati da un sergente John McQualcosa dal Michigan per colpire un pucioso coso sospetto, forse iracheno o forse afghano. È accaduto con la “strage degli affamati” a Gaza: un formicaio di disperati lasciati crepare stringendo i cordoni degli aiuti dopo averli prima rinchiusi in una città-prigione, poi cacciati di casa, quindi costretti a auto-deportarsi, infine bombardati. Beninteso, non è che agli occhi dei miliziani di Hamas fosse molto differente quando hanno sterminato qualsiasi cosa respirasse nei kibbutz o al rave dei ragazzi israeliani: non erano più persone ma simboli. Disumanizzati pure loro.

Eppure abbiamo avuto bisogno che ce lo dicesse un rapper scanzonato (Ghali) dal palco del festival di Sanremo, oltretutto ascoltando il suggerimento dello strano Alieno. Nient’altro che: «Stop genocidio». L’hanno capito tutti a cosa si riferiva, e perciò è partito il tacabanda delle dichiarazioni: la protesta dei trattori era la benvenuta, l’invito a fermare la mattanza no. Anzi, ci si è avventurati a spaccare il capello in quattro per sapere cosa è genocidio, cosa invece eccidio o preferite strage? Magari sterminio o invece soltanto massacro…

Il cartello di Ghali l’hanno (giustamente) tutti messo in relazione a Gaza. Io invece vorrei pensare che, siccome non c’è nessuna indicazione, l’altolà valga per qualsiasi genocidio. Non è affatto un “di meno”, è l’idea che non esista una classifica per cui il mio genocidio è più inaccettabile del tuo. Mi spiego: quando cominciamo a fare l’indice di gradimento degli orrori, ecco penso che cominciamo a diventare complici di chi pensa che i miei bambini squartati siano più dolorosi dei tuoi bambini maciullati. Invece no: semmai, ho imparato che i genocidi si sono moltiplicati nel corso del Novecento (e in questo assaggio di nuovo millennio). In effetti, c’è chi non lo chiama il “secolo breve” bensì il “secolo dei genocidi” per via di quanti ce ne sono: con l’evoluzione del progresso tecno-scientifico militare che rende ben più letali qualsiasi tipo di arma, con la globalizzazione dello scacchiere geopolitico che non risparmia nessun angolo del mappamondo dagli ingranaggi dello sterminio di massa.

Tradotto: non sto diminuendo bensì raddoppiando la “matematica dell’orrore” se, oltre all’Olocausto del popolo ebraico da parte dei nazisti tedeschi (che sterminarono anche gay, sinti e rom, testimoni di Geova, disabili e comunisti), metto nel conto anche altre eliminazioni fisiche di intere popolazioni.

C’è qualcosa che mi spinge a farlo: ad esempio, il fatto quel che è accaduto esattamente trent’anni fa in Ruanda. Scommetto che c’entri qualcosa con la “grande rimozione” con cui evitiamo di accorgerci di questa “terza guerra mondiale a pezzi” di cui parla papà Francesco.

In quel ‘94 dagli inizi di aprile alla metà di luglio «su una popolazione di circa sette milioni e mezzo di persone in appena un centinaio di giorni ne sono state eliminate almeno 800mila». Forse addirittura un milione, secondo altre stime assai diffuse nel microscopico Paese africano, grande poco più della Toscana, incastrato nel mezzo dell’Africa fra Uganda, Tanzania e Congo (ex Zaire). Appena più di tre mesi per ammazzare un abitante su dieci o forse uno su sette, e con una velocità fuori da ogni immaginazione: «In Ruanda i cadaveri si sono accumulati a un ritmo tre volte più rapido di quello dello sterminio degli ebrei durante la Shoah». Ecco, la velocità è un aspetto da sottolineare: «È dai tempi dei bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki che un massacro non riusciva così bene». Con una differenza: nel genocidio africano la minoranza di etnia tutsi (insieme a tanti hutu moderati) è stata praticamente annientata dalla maggioranza di estremisti hutu a mani nude, senza armi se non i machete.

I virgolettati li ho presi da un bel libro di Philip Gourevitch. Buona borghesia intellettuale del Connecticut con padre ordinario di filosofia, madre artista, fratello fisico e suocero sinologo: lui una vita a scrivere per il New Yorker (così come la moglie). Campava tranquillo nel suo benessere da Occidente opulento e democratico. Fino al giorno in cui ha inzuppato gli occhi in questo falò dell’umanità scoppiato subito dopo che il jet del presidente del Ruanda, Juvénal Habyarimana, alla guida di una dittatura ventennale legata agli hutu, viene abbattuto da un missile terra-aria, al rientro da un “colloquio di pace”. Mai davvero chiarito chi sia  stato: se la guerriglia tutsi per sbarazzarsi della leadership avversaria o l’estremismo hutu che rifiutava ogni cedimento nelle trattative. Questa seconda ipotesi è accreditata come «la più probabile» in una nota riservata dei servizi segreti francesi che risale a due mesi dopo il genocidio: ne ha dato notizia “Mediapart”, rivista online di giornalismo investigativo creata da ex di “Le monde”.

Come che sia, nel giro di poche ore parte un pogrom di proporzioni enormi. E dire enorme è già poco: come se a Livorno venissero ammazzate in poche settimane 18-20mila persone, o in Italia 6-7 milioni. Rende l’idea? Un genocidio facilitato dal fatto che l’etnia veniva dichiarata sui documenti, ma anche dal fatto che, guarda caso, erano stati appena importati dalla Cina centinaia di migliaia di machete da distribuire fra i fedelissimi. Senza contare l’incitamento di una radio locale perché ogni bravo hutu andasse casa per casa ad ammazzare i tutsi, neonati e vecchietti compresi. E magari pure gli hutu dubbiosi o recalcitranti a unirsi a questo sabba di sangue.

«Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie»: questo è un passo della surreale lettera che, usando tutte le formule di cortesia del caso in una lettera commerciale, un gruppetto di pastori protestanti di etnia tutsi  scrive ai propri superiori ecclesiastici hutu mentre sono in chiesa assediati da chi vuol fargli la pelle a colpi di machete. Bene ha fatto Gourevitch a farne il titolo del proprio libro; straniante com’è straniante tutta quest’incredibile testimonianza (la trovate nelle librerie online e a Livorno nella Biblioteca dei Bottini dell’Olio, in quella municipale di Collesalvetti e a Pisa nella biblioteca di San Michele degli Scalzi e quella di Officine Garibaldi).  

Mica che l’Occidente sia del tutto innocente: alle spalle della mattanza c’è l’odio etnico perché il fossato fra queste due etnie, entrambe cristiane, l’ha scavato il periodo coloniale tedesco e poi belga: i tutsi, manco a dirlo un po’ meno neri, erano stati prescelti come collaboratori del regime coloniale con qualche privilegio mentre gli hutu erano sbattuti agli ultimi gradini della scala sociale; peggio di loro, solo il piccolo gruppo dei twa, i pigmei.

Potrebbe essere il caso di guardarsi “Hotel Rwanda”, film girato a dieci anni dal genocidio con una produzione in cui c’è lo zampino anche italiano (Luigi Musini, marchio “Mikado” e poi in squadra con Nanni Moretti nella “Sacher”): ha fatto il pienone di nomination fra premio Oscar, Golden Globe, David di Donatello, Nastri d’Argento e chissà cos’altro. Racconta come Paul Rusesabagina si ritrova direttore di un grande hotel di proprietà europea in Ruanda e lui, hutu, con la moglie Tatiana, tutsi, fa il miracolo di salvare quasi 1.300 tutsi e hutu nascondendoli nell’albergo. Una sorta di Schindler africano, cioè: la storia è vera, l’albergo no (quello reale lo ritrovate in altre pellicole come “Accadde in aprile” o in “Shake Hands with the Devil”). Qui il link al trailer della pellicola su Youtube: https://youtu.be/m7eXPY_lnT8?si=ZUtAIdx_Q6gR2HsZ

Per il resto, però, Gourevitch riferisce la “normalità” del genocidio: i codici etici deragliano subito e appena mette piede a terra, eccolo fin dalle prime righe a Kibungo in una scuola parrocchiale dove «il pavimento era ricoperto da non meno di cinquanta cadaveri in avanzato stato di decomposizione»: tante teste sono rotolate un po’ più in là, magari si sono mischiate e non corrispondono al corpo che hanno vicino, ma tutto è come mummificato. Eppure lui arriva con una missione dell’Onu a tredici mesi dalla fine dei massacri. Per quasi 400 pagine andrà avanti con un chiodo fisso: com’è possibile che il droghiere all’angolo e l’impiegato della contea, l’allevatore e la contadina, l’insegnante elementare e forse anche il prete si siano di punto in bianco trasformati in “macchine sterminatrici”? Non nella foga di uno scontro di piazza o d’una guerra civile ma a freddo, dalla sera alla mattina: certo con odio feroce eppure al tempo stesso con una meticolosità da ragioniere. Viene in mente Eichmann al processo per i crimini di guerra (“La banalità del male”, copyright by Hannah Arendt): diceva che non ce l’aveva affatto con gli ebrei ma gli era stati assegnato il compito di toglierli dalla faccia del pianeta e lui era un tipo al quale piaceva completare il lavoro in modo che fosse ben fatto…

Sbaglia mira chi minimizza dicendo che in fondo si è trattato di tre mesi di follia in un ritaglio di territorio che rappresenta a malapena lo 0,08% dell’Africa. In realtà, nel frattempo a qualche migliaio di chilometri, sempre nel continente africano la Sierra Leone, che forse fa gola per le sue miniere di diamanti, è insanguinata da una guerra civile che non risparmia atrocità: la fase più dura comincia agli inizi degli anni ’90 e va avanti per un decennio causando perlomeno 50mila morti (altre fonti indicano cifre anche doppie o triple, fino a 300mila addirittura). È la patria dei bambini-soldato e il “parco giochi” dei mercenari.

Peccato che in quegli stessi frangenti anche l’Europa veda per la prima volta di nuovo la guerra sul proprio suolo: i sussulti dell’ex Yugoslavia la sbriciolano in tante nazioni differenti con un fuoco incrociato di odii etnici. Prendono fuoco i Balcani: a Srebrenica, due ore e mezzo di macchina a est di Sarajevo, si contano più di 8mila morti nel genocidio di musulmani bosniaci. Probabilmente di più: Riccardo Nourt (Amnesty) dice al “Corriere” che le vittime potrebbero essere più di 10mila, tantissime persone risultano ancora adesso catalogate come “sparite”.

Mica che fosse un segreto che l’esercito serbo in tandem con i paramilitari più feroci li avessero nel mirino: ma erano sotto la protezione dei caschi blu Onu olandesi. Peccato che si scansarono al momento giusto, le richieste di altre unità militari si persero per strada, gli alti ufficiali olandesi mandarono in tilt la catena di comando e quelli francesi non si accorsero dell’emergenza, gli aerei americani avevano finito il carburante. Risultato: poi i responsabili serbi erano brutti, sporchi e cattivi, non sapevano le buone maniere li hanno castigati (Mladic e Karadzic). Gli olandesi – che non hanno provato vergogna nel chiudere le porte della base e consegnare ai carnefici chi vi si era rivolto per chiedere protezione – evidentemente contano di più: a loro hanno tirato le orecchie e fatto una ramanzina, anzi in patria gli hanno dato pure una medaglia.

Del resto, non era andata diversamente in Ruanda: anche lì la comunità internazionale si era imbambolata. Almeno finché, lo ricorda il magazine “Focus on Africa”, non arrivò papa Wojtyla a rompere il silenzio: paradossale, se pensiamo che perfino molti preti parteciparono ai massacri di confratelli di parte avversa. Ma il mondo decise di chiudere gli occhi e rubricare i massacri come la solita incomprensibile faida tribale fra selvaggi. Eppure erano stati tedeschi, belgi e francesi a soffiare sul fuoco di teorie nazistoidi in anni lontani, a sfruttare i contrasti etnici e a giocare il risiko geopolitico sulla pelle dei ruandesi. A massacro iniziato, è prima il Belgio a ritirare i propri “caschi blu” senza nemmeno interpellare l’Onu, poi è pure l’Onu a richiamare l’ultimo spicchio di contingente: si massacrino fra loro e non ci rompano tanto le scatole…

Sì, qui abbiamo spalancato una porta: il Novecento come il “secolo dei genocidi”. Meglio: se «la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi» (cit. Carl von Clausewitz, stratega militare prussiano), figuriamoci il genocidio. Lo è al quadrato. Ma questo è già un altro post: intanto, vediamo se il 6 aprile, anniversario n. 30 del via a questo indicibile sterminio di massa qualcuno lo ricorderà sui giornali o in qualche talk show così pieni di argomenti interessantissimi e mai ripetitivi che potrebbe essere difficile ficcarci il ricordo di quei mesi in cui l’umanità è stata un po’ meno umana. Lo dice, nel film “Hotel Rwanda”, un disincantato cinereporter al direttore nero dell’hotel che ancora confida nell’intervento del mondo: «Quando lo vedranno in tv diranno: “Oh, mio Dio, è orribile: e continueranno a mangiare».

DALL’ ARCHIVIO DEL BLOG: ANCORA AFRICA, MA COL SORRISO (IN MEZZO ALLA GUERRA CIVILE)

Nelle foto, dall’alto: sotto il titolo la foto-simbolo dei massacri in Ruanda, il volto di un hutu anti-pogrom colpito alla testa con il machete, è una immagine magnifica di un grande fotoreporter come James Nachtwey. Le altre tre immagini sono tratte dal film “Hotel Rwanda”. Le ultime due sono dedicate al massacro di Srebrenica (le immagini sono state rintracciate in rete, in caso di problemi relativi ai diritti segnalatelo nei commenti e provvederemo a rimuoverle immediatamente)

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