Il ciclismo al tempo dei nostri nonni: quei campioni livornesi dimenticati erano superstar al Tour de France

Venerdì 8 marzo alle 16 a Villa Fabbricotti (sala Badaloni della Biblioteca Labronica) la presentazione di un libro dedicato a Rodolfo Muller, pioniere labronico alla prima edizione della corsa francese. L’odissea di altri campioni di casa nostra raccontata online dal club ciclistico ultracentenario di Vicarello (Usv1919)

di Mauro Zucchelli

Mi ci è voluto un po’ per mettere in moto le sinapsi (il carburatore non è più quello di una volta) ma alla fine mi ci sono raccapezzato: la sensazione che quella foto mi dicesse qualcosa ma senza capire cosa, anche perché i tipi erano di inizio Novecento. Risposta: anch’io avevo parlato di Rodolfo Muller, pioniere livornese del ciclismo dei primordi, che corre il primo Tour de France (ed è pure il fratello di Alfredo, livornese pure lui, un nome che ha molto da raccontare nell’arte a cavallo fra Ottocento e Novecento).

La foto me l’ha inviata un amico via Whatsapp per ricordarmi che venerdì 8 marzo alle 16 è in agenda nella sala Badaloni della Biblioteca Labronica di Villa Fabbricotti la conferenza in cui le edizioni degli Amis d’Alfredo Müller presenta – in una iniziativa in tandem con il Comune di Livorno, l’Istituto Italiano di Cultura di Strasburgo e l’associazione Livorno delle Nazioni – il libro che traduce in italiano delle cronache riguardanti la singolare storia di questo sportivo livornese: era l’unico italiano a prender parte a quella carovana di squinternati che è stata la prima edizione del Tour. Titolo: “Un tour prima del Tour. Le prime pagine della leggenda di Rodolfo Müller”, prefazione del sindaco Luca Salvetti.

Muller era davvero un pioniere: nel luglio dell’anno prima si era arrampicato in bici sulla salita di Montenero, a 26 anni decide di affrontare in sella alla sua bici questa gara che organizzano in  Francia e lui, che con la famiglia si era trasferito a Parigi, si fa una prima girata di “esplorazione” tanto per vedere se ce la può fare e poi si butta nell’avventura. Arriverà quarto: mica male, visto che non aveva alle spalle niente se non la propria determinazione e le proprie gambe. Aveva anche un taccuino e per “L’auto” firmerà di quel Tour le cronache, gli aneddoti, le note pratiche, i consigli turistici…

La figura di Muller l’avevo incontrata in una gallery di amarcord che avevo trovato nelle pagine online di un glorioso club di appassionati delle due ruote. Ma proviamo a raccontarla dagli inizi: da quando cioè su un giornale neozelandese scovo anni fa il mugugno per il fatto che non era stata resa giustizia a un loro campione. Un pasticciaccio brutto alle Olimpiadi del ’72 a Monaco: Bruce Biddle, questo il suo nome, è arrivato quarto nella gara iridata di ciclismo su strada vinta da Hennie Kuipert, un olandese che si farà conoscere anche al grande pubblico. Come mai se ne riparlava a distanza di quasi mezzo secolo? Perché Biddle era transitato sotto lo striscione del traguardo come quarto ma già da subito si era capito che in uno dei medagliati qualcosa non quadrava. Bruce chiede di fare il test antidoping, glielo negano perché non è previsto. Poi squalificano il bronzo ma le autorità olimpiche si rifiutano di riassegnarlo a Biddle perché non aveva fatto l’antidoping…

Cosa c’entra una non-medaglia neozelandese con un cronista labronico? L’articolo dei colleghi dall’altro capo del mappamondo chiudevano dicendo che Biddle era finito in Italia, per la precisione in Toscana. Qui potrei fare il figo con il fiuto del cronista e altra roba, invece è semplicemente per un ingarbugliato intrecciarsi di fortunate coincidenze che due chiacchiere con un tizio impallinato di ciclismo d’antan mette in moto un flipper di rimbalzi finché l’amico mi richiama tempo dopo e dice: «Guarda che quel Biddle di cui mi dicevi ce l’hai sotto il naso a Livorno, anzi a Vicarello». Finirà che ci conosciamo mentre esce dal lavoro da magazziniere alla “Giorgio Gori”, una sventagliata di ricordi di una vita inseguendo il sogno della bici. La medaglia olimpica negata gliela daranno l’allora sindaco di Collesalvetti, Lorenzo Bacci, e la sua vice, Libera Camici.

In platea qualche ex del ciclismo di casa nostra come Antonio Salutini. Incontro anche Guido Carlesi, certificato di nascita targato Collesalvetti, classe 1936: a 25 anni arriva quinto al Giro d’Italia e secondo al Tour battuto solo da un fuoriclasse come Anquetil. Scopro un mondo sommerso di talenti che hanno fatto sacrifici incredibili nel nome della passione sportiva. A questo punto voglio saperne di più, anche se la mia unica confidenza con il mondo del ciclismo era stata fin lì solo l’estate da dirimpettaio di pianerottolo dei fratelli Pettersson (Erik, Sture, Gosta e Tomas), che dopo aver vinto per tre volte di fila il titolo mondiale di cronometro a squadre passano professionisti in Italia e vengono messi sotto contratto con la maglia Ferretti.

So che mi lascerò per strada Mauro Simonetti e Roberto Ballini, solo per dirne un paio: so poco anche di Ivo Mancini da Guasticce, un campionissimo che fra i dilettanti nel ’35 arriva addirittura al titolo mondiale. È il frutto del proprio talento individuale ma dev’esser stato anche figlio di questa passione che è propria di un territorio. Scopro l’Us Vicarellese, era quello il «glorioso club» del centenario. Sono attratto da una storia così straordinaria: anche perché Maurizio Zicanu va alla scoperta di figure del nostro ciclismo che fu e le racconta online sul sito web del gruppo (www.usv1919.it).

Eccolo, ad esempio, Olimpio Bizzi: è il “morino di Livorno” che s’infila nella rivalità Coppi-Bartali del dopoguerra al punto. Fra le imprese da leggenda ce n’è una che spicca per la strategia folle: è la straordinaria Parigi-Roubaix del ’47, se oggi la conoscono tutti come una gara ammazza-ciclisti per via del fondo stradale allucinante, figuriamoci cos’era allora subito dopo la guerra. Non solo: quella volta il meteo è da incubo e si corre in mezzo alla tempesta. Cosa fa Bizzi? Decide di tentare la fuga dopo una dozzina di chilometri quando ne mancano più di duecento al traguardo. Basta così? No che non basta: a un bivio un poliziotto lo spedisce sul percorso sbagliato, lui non si arrende perché dare una piccola rivincita a quei minatori italiani che lungo il tracciato lo incitano. Riparte ma a 17 chilometri dal velodromo di Roubaix cade per colpa di una stramaledetta buca, il gomito è in tilt ma il problema è la ruota spaccata. Nel ciclismo di oggi comparirebbe l’ammiraglia ad assisterlo con un meccanico-mago ma qui siamo in una favola alla rovescia: è una maschera di sangue e le ossa sono ammaccate, lo raggiungono a un niente dallo striscione d’arrivo. Sul podio più alto sale il belga Claes ma la “Gazzetta” francese rende omaggio a quel campione italiano dal cuore indomabile: non vi sembra l’anteprima della sconfitta di Franco Bitossi, toscano anche lui, ai Mondiali del ’72?

Ho ascoltato il bel racconto che il sodalizio vicarellese dedica alle gesta di Muller, Carlesi e Bizzi in terra di Francia, ma la storia ancor più incredibile è quella di un altro ciclista livornese: Ottavio Pratesi era il “falco di Macchiaverde” (dal nome di un grappolo di case a un passo da Castelnuovo Misericordia), poi diventerà antignanese. Il calvario di questo corridore senza squadra lo svela un giornale sportivo francese di allora.

Devono sbarrargli la strada perché il predestinato al successo è un talento francese sostenuto da una squadra che si avvale di una grossa sponsorizzazione:  prima il bullismo in corsa con gregari pagati per coinvolgerlo in rovinosi capitomboli; poi il tentativo di corromperlo con un pacco di quattrini; infine, l’intervento di un “sicario sportivo” che “compra” chi ha in custodia la bici del campione livornese manomettendo la catena e segando un pedale perché si rompa durante la gara. Non è finita: all’arrivo al Parco dei Principi lui, venuto dal niente e armato solo di passione, pregusta l’ingresso fra quelli che campano di ciclismo nei grandi squadroni e invece lo indirizzano su un percorso sbagliato. Al tirar delle somme, però, questo “cicloturista” mette a segno una carriera mica male: vince la classifica dei “senza squadra” al Tour sia nel 1923 che l’anno successivo in due delle cinque edizioni disputate. Quanto al Giro d’Italia, ne corre sette e può dire di essere finito fra i primi dieci nel 1914 (settimo) e nel 1924 (nono).

Ai racconti di Maurizio Zicanu sono debitore anche per un altro aspetto della storia delle due ruote: in campo nazionale ora si tributano omaggi a Alfonsina Strada, la donna che negli anni ’20 corse il Giro d’Italia, compresa una pazzesca tappa di 415 chilometri da Bologna a Fiume che la vide in sella per 21 ore filate. In realtà, si chiamava Alfonsina Morini e Strada era il cognome del marito. La faceva correre la miseria, quel che riusciva a mettere insieme come sarta non bastava mai. In una intervista al “Guerin sportivo”, disse di rendersi conto che la fatica in bici la rendeva un mostro («ma tanto bella non sono mai stata»). E poi la confessione dritto per dritto: «Ma che dovevo fare? La puttana? Ho un marito al manicomio che devo aiutare; ho una bimba al collegio che mi costa 10 lire al giorno». E poi, ricordando che «i pubblici di tutta Italia (specie le donne e le madri) mi trattano con entusiasmo», rincara: «Ho avuto delle amarezze, qualcuno mi ha schernita ma io sono soddisfatta e so di avere fatto bene».

L’ho tirata in lungo perché Alfonsina, pur correndo più contro la miseria che per l’emancipazione femminile, è diventata una icona. Ma noi livornesi abbiamo una nostra “Alfonsina prima di Alfonsina”: si chiamava Ivona Del Bravo, era di Vicarello e, come ho raccontato sul “Tirreno”, «grossomodo in quegli anni faceva vedere i sorci verdi ai corridori maschi che gareggiavano sulla pista, interamente in legno, che allora esisteva a Vicarello, proprio dove adesso c´è lo svincolo per la Fi-Pi-Li». L’ho fatto riportando le parole di Enrico Simonelli, che vede in questa antesignana delle campionesse del ciclismo la testimonianza di cosa è stata la centenaria passione di Vicarello per le due ruote: a quell’epopea locale ha dedicato un ottimo libro il sodalizio vicarellese grazie alla cura di Alessandro Marchi. Qualcosa del genere ha riportato anche Mario Orsini parlando con Umberto Del Signore sull’ “Almanacco dello Sport”.

Bisogna tornare indietro di un secolo e immaginarsi che Livorno aveva un velodromo là dov’è ora la Terrazza Mascagni e in qualche cronaca c’è traccia anche di uno in piazza Mazzini e uno dalle parti dei Salesiani. A Vicarello ce n’era uno in legno a pochi passi dall’abitato. Poi la modernità è stata incarnata dalla “600” e dalla “Topolino”, ma quella è un’altra generazione.

Nelle foto, dall’alto: la partenza di una corsa ciclistica nel 1908, nell’immagine è presente anche Rodolfo Muller; riguardano Muller anche le due foto successive mentre le altre due sono relative a un duello fra Gino Bartali e Olimpio Bizzi e, da ultimo, una illustrazione riferita a Ottavio Pratesi (tutte sono tratte dalla magnifica gallery che il sito online dell’Us Vicarellese (www.usv1919.it) dedica alle memorie del ciclismo del tempo che fu.

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