Il curioso bestseller (qui da noi sconosciuto) che ha raccontato ai ragazzi siberiani e vietcong il volto di Livorno

Il titolo originale allude a un insetto, in Italia strizza l’occhio al gossip (“Il figlio del cardinale”): l’ha scritto una romanziera irlandese, figlia di un genio che ha anticipato nell’Ottocento la logica delle ricerche online e moglie di un bibliofilo che ha scovato il manoscritto più misterioso del mondo, indecifrato da secoli

di Mauro Zucchelli

Al di qua e al di là della linea del fronte è la stessa cosa: per Vladimir Fedorov, prof ucraino di scuola superiore con radici nell’oblast di Donetsk, così come per Dmitri Zagorodnev, ex ingegnere proveniente dalla Siberia. A tre fusi orari di distanza Jamshid Abdullaheev, tecnico uzbeko tornato in patria dopo anni di lavoro all’estero, i combattimenti in Ucraina li vede (di rado) su Achborot 24, il tg di Mtrk, una sorta di mamma Rai che in un moulinex di cirillico, calligrafia araba e lettere latine. Ma per tutti loro, e anche per Artem Terteryan, funzionario armeno che la guerra la conosce bene ed è imbufalito perché le guerre altrui richiamano l’attenzione del mondo e quella che gli rovina la vita non vale una breve a pagina 28.

Non so se facciano il tifo per Putin o per Kiev e anche chiederglielo non servirebbe granché, non so neppure se sognino l’Occidente come la terra promessa o se lo ritengano un inferno di vizi. Di sicuro però c’è che in qualche momento della vita loro o dei loro genitori si sono fatti nella mente una idea di cos’è questa Livorno in Italia, lontana migliaia e migliaia di chilometri. Il motivo? Non sta né nella passione per la geografia o per le sorti del magico Livorno Calcio, che un tempo aveva ovunque nel mappamondo club di tifosi che ne facevano una bandiera rossa più che amaranto, uno stendardo politico comunista un po’ come il St. Pauli di Amburgo. No, cercatevelo semmai in un libro: si intitola “The gadfly”, che paripari vuol dire “Il tafano” ma siccome l’editore non è un bischero l’ha ribattezzato “Il figlio del cardinale”, che strizza l’occhio a qualcosa di strano, ambiguo, sicuramente eterodosso visto che al cardinale che ha fatto voto di castità un figlio potrebbe darlo solo lo Spirito santo, ma sarebbe tutta un’altra storia (oltretutto Castelvecchi lo manda in libreria pochi mesi dopo il gossip sul fatto che uno dei principali ecclesiastici dell’era Ratzinger avesse un figlio…).

Mai sentito di questo strano libro? In effetti, in Italia non è stato un bestseller: oltre che in libreria anche online è reperibile a Livorno (Biblioteca dei Bottini dell’Olio), nella vecchia edizione del ’56 a Pietrasanta (Biblioteca Carducci ma senza prestito) e, in inglese, a Bagnone (Massa). Invece altrove è stato popolarissimo, e parlo di un “altrove” particolare: i nostri quattro interlocutori l’hanno intercettato quasi per forza come molti che hanno alle spalle gli anni nei banchi di una qualche scuola ai tempi dell’Unione Sovietica. Anzi, non solo nell’ex Urss ma anche in Cina, in Albania e in buona parte della galassia sotto il segno della falce e martello quando i mulini erano bianchi e Maigret lo faceva Gino Cervi: ai quattro che abbiamo citato potrei aggiungere, ad esempio, le facce di Ngoc Thuan Nguyen (vietnamita) o Arlen Xhepa (albanese), Peng Zhou (cinese) o Reydel Morgado (cubano). Talmente importante che da questo romanzo sono nati uno sceneggiato trasmesso dalla tv albanese e quattro film (non solo targati ex Urss ma anche cinesi) e una sfilza di produzioni per il teatro o la danza, in genere anch’esse moscovite, anche un fumetto per mano di Lu Yanshao negli anni ‘50. Perfino un monumento della musica del Novecento come Dmitri Shostakovich è stato chiamato in causa per comporre la colonna sonora di uno dei film dedicati a questo libro: su Youtube trovate qui la suite op. 97a (https://youtu.be/QDW4VJGKLAQ?si=vaaNFlySflYIb59I), sette milioni e passa di visualizzazioni nella sfilza di versioni pubblicate che attestano una certa qual notorietà di quest’opera del compositore di San Pietroburgo.

Beninteso, non si tratta di un testo edificante messo nero su bianco da qualche oscuro funzionario in un sottoscala del Cremlino, magari per ordine di Stalin: il titolo in inglese è quello originale perché l’ha scritto nel 1897 Ethel Lilian Voynich, scrittrice irlandese. E a leggerselo, nell’ex Urss per precetto scolastico come da noi i “Promessi sposi”, non sono stati solo gli studenti della metà “rossa” del mappamondo: avessero avuto Google, gli avrebbero dato una recensione da cinque stelle anche D.H Lawrence, Bertrand Russell e Jack London. Dice l’editore italiano che in patria pure gli astronauti-leggenda Jurij Gagarin e Valentina Tereskova l’hanno decantato come una pietra miliare. Come sottolineano gli organizzatori del convegno pisano dedicato a questo «romanzo sul Risorgimento fra storia e mito»: paradossalmente lo utilizzano tanto i protagonisti delle proteste contro i governi liberticidi quanto la propaganda del sistema dittatoriale sovietico.

Voynich era la firma ma, a dirla tutta, da ragazza il cognome faceva Boole. State pensando a “quel” Boole? Esattamente: George Boole, un genio matematico come pochi, fondatore di un diverso approccio alla logica matematica così innovativo da risultare utile un secolo più tardi negli “operatori booleani” che ci servono nelle ricerche dentro i cataloghi on-line così come nelle metodologie di calcolo utili per i circuiti elettronici. Detto per inciso, un genio sfortunato che muore prima di compiere cinquant’anni: lui si intestardisce a fare lezione zuppo di pioggia dopo un acquazzone, peggio ancora la moglie che gli cura la polmonite con omeopatia e acqua diaccia marmata…

Quel padre-mito Ethel non lo conoscerà mai: nel 1864, quando in Irlanda non si era ancora spento il ricordo della tremenda carestia che aveva spazzato via un milione di abitanti (uno su sette…), a maggio nasce la piccola e in dicembre muore lui.

Apro l’ennesima parentesi: anche il cognome da sposata dovrebbe dirci qualcosa. Non sto a ravanare una ingarbugliata storia di date e distinguo fra matrimonio civile e matrimonio religioso, fatto sta che lei finisce sposa con un nobiluomo polacco (manco a dirlo, cattolico ma poi agnostico). Ecco: Voynich è l’aggiustamento british del casato polacco, e da lungo tempo identifica con il cognome del marito di Ethel, mercante di libri rari, quello che viene definito «il manoscritto più misterioso del mondo».

La ragione è semplice fino a un certo punto: è scritto in una lingua sconosciuta con un alfabeto sconosciuto e con disegni di qualcosa di simile a vegetali ma non esistenti fra quelle catalogate nei secoli. Si sa solo che la datazione al radiocarbonio lo fa risalire agli inizi del Quattrocento e che ora è all’università di Yale (Usa). Voynich marito l’aveva acquistato dai gesuiti che da Roma l’avevano fatto sparire nella biblioteca di una villa  nella campagna laziale, le tracce riportano a un alchimista e il resto pare “Il nome della rosa”. Forse sarà il caso di farci un post in seguito, la divagazione la chiudo qui anche se la curiosità sarebbe tale da farla spalancare…

Il libro del Tafano lo scrive che ha appena varcato la soglia dei trent’anni. Aveva alle spalle – l’ha ricordato Stefano Villani nel circolo di lettura nella casa pisana di Viktoriya Kolp e Franco Angiolini – una famiglia tanto straordinaria quanto complicata: a cominciare dalla dimensione così religiosissima e così eterodossa di chi ce l’ha col cattolicesimo ma, dopo aver sognato di farsi prete anglicano, si sposta nell’arcipelago del socialismo cristiano, con la vedova che diventa una sorta di “missionaria” animalista e vegetariana e vuol far conoscere gli aspetti religiosi della visione matematica del marito. La affidano bambina a uno zio tanto sadico quanto iper-religioso: Ethel si salva perché pianta lì un bell’esaurimento nervoso infantile ma dev’esser lì la radice di quel che, prima di ritornare a una visione panteista, chiamerà «un furioso ateismo», di cui si sente traccia nel “bestseller sconosciuto”. Lo definiranno «un Vangelo capovolto».

Siamo alla metà dell’Ottocento. Per esser precisi: si parte dal 1832 e da Arthur, diciottenne, è il rampollo di una famiglia di armatori britannici che a Livorno (e Londra) ha il quartier generale, al punto che anche il giovane ha “Livorno” sul certificato di nascita. In pratica, poco prima dell’epopea risorgimentale, poco prima di quel ’48 che diventerà simbolo di rivoluzione. Ma in Toscana parecchio fuori dagli schemi dei libri scolastici: da un lato, il granduca Leopoldo è meno infame di altre teste coronate e pare venga quasi “accompagnato” all’esilio con tutti i riguardi anziché esser cacciato a pedate e forconi; dall’altro, quando la repubblica si radicalizza, figuriamoci se Livorno non diventa più ribelle delle altre città (e nel maggio 1849 cerca di resistere con quattro fucili alle armate austriache, le più potenti al mondo).

Il romanzo è ambientato in Italia, in parte in Romagna ma soprattutto fra Livorno e Pisa: anzi, inzuppando i personaggi nella comunità britannica che ha forti radici a Livorno. Così come i personaggi: non è pura coincidenza se Livorno è citata nel testo almeno una trentina di volte.  Ad esempio, per dire che Arthur se ne va «a piedi verso Livorno» (all’inizio del capitolo 5). Montanelli l’aveva invitato invece «a andare lontano da Livorno», pochi capoversi dopo essersi rimproverato di non aver insistito per «farti rimanere a Livorno» (capitolo 1). Montanelli è il cardinale, personaggio-chiave, ma il protagonista è Arthur Burton  “britannico labronico” quanto Gemma, la tipa che lui amava (e che era «così diversa dalle altre ragazze inglesi di Livorno»). Lui ha anche incontrato Carlo Bini: la romanziera, fervente mazziniana, ne fa il capo della “Giovine Italia” a Livorno. Puntualizziamo: quella era l’accusa degli 007 del granduca: a dire il vero, non mancavano le critiche di Bini a Mazzini, lo rimproverava di voler guidare l’insurrezione da lontano (comunque, già il fatto di citare Bini significa che Voynich qualcosa dev’essersi studiata, non è il primo intellettuale che potrebbe venire in mente a una irlandese parlando dell’Italia risorgimentale).

Livorno non appare per nulla sfavillante e tirata a lucido: il ritratto che Voynich ne fa non è per nulla lusinghiero. Il giovane abita «in via Borra», e se noi immaginiamo potesse essere chic, invece la romanziera irlandese lo cita per dire che la galera non gli faceva tanta paura perché era abituato al degrado. Non solo: «Arthur lo seguì per un labirinto di canali tortuosi e di vicoli bui e stretti, erano i bassifondi medievali chiamati dai livornesi “Venezia Nuova”». Di più, sempre lì: «Qua e là, tra case squallide e cortili sudici, si ergeva un palazzo cupo, vecchio, solitario che pareva abbandonato in mezzo a due canali fetidi». E ancora: «Alcuni vicoli erano ben noti covi di ladri, sgozzatori e contrabbandieri, altri invece erano semplicemente squallidi, abitati da povera gente».

Se pensiamo che, perdipiù, ‘sta tipa fa dire a uno dei suoi personaggi che Pisa è una «cittadina così antica e graziosa, mi sembrava quasi di essere nell’Arcadia». In effetti, Pisa è diventato il cuore degli studi su questa incredibile romanziera irlandese e sulla strana fortuna che ha avuto il suo testo principale: nel 2015 è stata dedicata una giornata di studi proprio a Voynich e al suo Tafano.

La descrizione continua ma avete capito la solfa. Ricordo di aver letto Charles Dickens che se la prende con i vicoli labronici gonfi di ladri e assassini, ma c’è anche Marie Staehelin Vischer che, in “Il mio viaggio in Italia negli anni 1844 e 1845” pubblicato dalla Nuova Fortezza a fine anni ’90: «Non posso descrivere l’impressione che mi ha fatto questa città, credevo di essere a Algeri, tutto mi sembrava così estraneo, così sporco; alcuni gruppi di galeotti, con vestiti rossi gli assassini, gialli i ladri, erano occupati a pulire il porto. Con le loro barchette ci venivano così vicini che alzavano le mani verso di noi per chiederci l’elemosina». Eppure in quegli stessi anni parte la “costruzione del lungomare” come elemento immaginifico prima ancora che edilizio: si afferma come destinazione della nuova mondanità fra i Casini di Ardenza, le bagnature agli Scogli della Regina, i nuovi Regi bagni Pancaldi immortalati da Giovanni Fattori.

DALL’ ARCHIVIO DEL BLOG UN LINK E UN’IDEA:

Nelle foto, dall’alto: un primo piano dal film sovietico del ’55 dedicato al libro di Voynich, un fotoritratto con la firma della scrittrice irlandese, la copertina del cd con la colonna sonora di Shostakovic per la pellicola, la locandina di un altro film dell’ex Urss dedicato al romanzo, il manifestino della giornata di studi organizzata a Pisa in onore di Voynich, la scrittrice in età avanzata (le immagini sono state rintracciate in rete, in caso di problemi relativi ai diritti segnalatelo nei commenti e provvederemo a rimuoverle immediatamente)

Una replica a “Il curioso bestseller (qui da noi sconosciuto) che ha raccontato ai ragazzi siberiani e vietcong il volto di Livorno”

  1. Avatar lucyluxλουτσια
    lucyluxλουτσια

    Veramente curioso: cercherò di leggere il romanzo perché l’articolo mi ha molto colpito. In tutta franchezza vi sono troppe parentesi e incisi, lontani dallo stile giornalistico. Se reso più snello, MERITA DI ESSERE PUBBLICATO SU U A RIVISTA O SU UN QUOTIDIANO SEZIONE LIBRI. complimenti per la ricchezza della documentazione!

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