Ardeatine/1: I quattro martiri livornesi ci insegnano che l’antifascismo è un arcobaleno di soggettività differenti

Un avvocato socialista ebreo (poi comunista), un prof azionista, un ufficiale di parà di fede monarchica e un sottufficiale che voleva fare il postino ma fu richiamato. Chi sono i livornesi morti nell’eccidio di 80 anni fa. Le bufale della propaganda fascista

di Mauro Zucchelli

Quartiere Coteto, esterno giorno. Il più illustre fra i “figli del rione”, il Conte Max Allegri, professione allenatore di “cortomuso”, l’ho visto un bel po’ di tempo fa al “suo” bar Ughi parlare con gli avventori come fosse ancora il figliolo di Augusto il portuale, finché a un certo punto, come se fosse tutt’al più che un autista di bus o un operaio di raffineria: «Beh, ragazzi, s’ha a dì d’andà un po’ a lavorà…». No, il bar è davanti alla chiesa: qui cammino dalle parti di dove aveva il negozio il fotografo Carlo Casadio, dove c’è la Madonnina di Coteto come mito fondativo. Cammino e, senza un perché, mi si gira lo sguardo sul marmo di una via: è intitolata a Odoardo della Torre. Vattelapesca chi sarà mai, fatto sta che c’è scritto “martire Fosse Ardeatine 1894-1944”.

Mai sentito. D’altronde, non so nemmeno chi siano Ugo Conti o Pietro Colletta, che dànno denominazione toponomastica tutt’attorno: googlando scoprirò che l’uno è stato alla guida della Cassa di risparmio di Livorno e l’altro era metà generale e metà storico ma soprattutto gran propugnatore dell’istituzione di una Cassa di risparmi. Dell’istituzione bancaria locale c’era traccia anche nell’attuale via Oberdan Chiesa (partigiano), che inizialmente era intitolata a Tito Torelli, anch’egli figura-guida dell’istituto bancario. La “Cassa” ha lo zampino da tutte le parti perché Coteto nasce là dov’erano i terreni d’una fattoria che a un certo punto della telenovela finisce in mano alla Cassa di risparmio.

Mi aspetto che anche Della Torre sia uno dei maggiorenti della città che avesse deciso pure lui di infilarsi nel Gotha della banca. Invece no: anzi, basta che consulti la sterminata banca dati del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec) per capire che è un ebreo che non è sopravvissuto all’Olocausto. Il babbo si chiamava Cesare e la mamma Virginia Baruch, la scheda riferisce che è «nato a Roma il 24 luglio 1894». Mi chiedo perché Livorno dovrebbe rendere omaggio a una sola delle vittime delle Fosse Ardeatine e scopro che per una volta questo maxi-archivio si sbaglia. Me lo dicono dall’Anpi, gli ex partigiani: l’origine non è romana bensì livornese, la data è il 24 febbraio 1894.

Ho preso la rincorsa dalla toponomastica per cominciare a unire i puntini e a segnalare che, a ottant’anni esatti da quel maledetto giorno, l’anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine potrebbe avere qualcosa da dirci – addirittura forse da insegnarci – se solo, per una volta almeno, si uscisse da dubbi e polemiche inventate per sminuire la portata gigantesca di quell’abisso di vergogna. Come sappiamo, si è trattato della rappresaglia del comando nazista che uccide 335 persone dopo l’attentato partigiano in via Rasella che aveva fatto 33 vittime fra i militari della forza di occupazione tedesca. Il revisionismo ce l’ha messa tutta per provare a sbriciolare la disumanità di quel massacro: d’altronde, per mettere tutti sullo stesso piano e fare della “guerra civile” un match di rugby al termine del quale c’è il terzo tempo della pastasciuttata insieme, bisogna picconare lo stragismo nazista che si avvale dell’appoggio dei repubblichini di Salò (e di una parte degli uomini dello Stato). Anche alle Fosse Ardeatine c’è lo zampino dei tagliagole della banda Koch.

Guardando le “bio” delle vittime della strage balza agli occhi che sono stati messi nel mucchio tanti ebrei (più di una settantina) ma cristiani, comunisti e comunisti dissidenti, monarchici e anarchici, militari, industriali e manovali, brillanti professionisti e poveri operai: unico obiettivo rastrellare il numero sufficiente di vittime per “sfamare” la rabbia di Hitler.

Figurarsi che i colpevoli cercheranno di discolparsi a metà dicendo di esser riusciti a ridurre al “minimo” (minimo?) l’entità della rappresaglia perché il Führer in persona aveva ordinato di ammazzare 1.600 italiani. Cinquanta ogni vittima tedesca. Non l’hanno fatto soprattutto perché volevano dare una risposta immediata e ci sono state difficoltà anche a raggiungere quota 335. Comunque, cinque in più di quanto previsto dalla rappresaglia dieci a uno.

I vertici dell’apparato nazista a Roma avevano comunque ben chiaro di compiere un crimine di guerra: al pari di quanto faranno con lo sterminio di ebrei, rom, gay e oppositori politici hanno fatto di tutto per evitare di lasciare traccia. Del caso dei campi di sterminio ho già parlato in un altro post, in questo caso romano si è utilizzata una cava di pozzolana nei pressi dell’Appia Antica, qualche chilometro più giù delle terme di Caracalla. Mentre in altri casi anche qui dalle nostre parti i cadaveri oltraggiati erano stati tenuti appesi lungo strade principali a imperituro monito dello strapotere hitleriano, qui invece il cumulo di poveri morti deve rimanere nascosto e a una squadra di genieri viene ordinato di far saltare gli accessi alla cava.

Non so se risponda al vero che sia stato un gruppetto di religiosi salesiani ad accorgersi prima di tutto quel caos di automezzi militari e poi dell’esplosione che avrebbe dovuto nascondere tutto. Non sapevano che questi frati erano esperti del sottosuolo della zona, visto che portavano i fedeli nelle catacombe lì in zona (Domitilla, San Sebastiano e San Callisto). Dunque, nel giro di poche ore si diffonde fra i romani la notizia, i giornali del 25 pubblicano un comunicato del comando tedesco in cui si precisa di aver eseguito la rappresaglia («l’ordine è già stato eseguito»).

Basterebbe questa tempistica a sgombrare il campo dalla solita tiritera della pubblicistica neofascista: tutta colpa dei partigiani che, infischiandosene dell’appello nazista a consegnare gli autori dell’attentato, avrebbero di fatto la responsabilità indiretta dell’eccidio. L’appello nazista (o ci date i colpevoli o facciamo la rappresaglia) non c’è mai stato: l’attentato di via Rasella avviene il 23 marzo attorno alle 16, due ore dopo parte il rastrellamento di italiani da ammazzare, alle 14 del giorno seguente i camion li trasferiscono alle Ardeatine. L’equivoco sulla “liceità” dell’attentato partigiano nasce dall’orientamento dei tribunali militari intervenuti nella vicenda: l’atto è fuori regola perché compiuto da una formazione non riconosciuta, cioè non da un esercito “ufficiale”. Ma è un singolare atteggiamento, e risente del fatto che è una istituzione militare a pronunciarlo. Le corti civili hanno invece sempre accolto l’interpretazione della piena legittimità della guerra di liberazione condotta dalle brigate partigiane. Non è tutto: erano stati gli alleati a chiedere ai partigiani di occuparsi di sabotaggi e attacchi all’interno di Roma così da fiaccare gli occupanti e facilitare l’avanzata degli alleati. Per dirne un’altra: l’avrà pure detta la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Ignazio La Russa, ma è una panzana che il Terzo Battaglione del Polizeiregiment Bozen fosse una allegra brigata di musicanti di mezz’età tutti birra, panzona e marcette trash.

Ci sarebbero mille altri spunti da guardare. Ad esempio, il fatto che nell’operazione di via Rasella muoiono anche qualcuno che passa per caso, come un apprendista di 12 anni o come un tale che però risulta pure essere partigiano combattente di Bandiera Rossa (comunisti dissidenti). Ad esempio, risulta che il gruppo di nazisti prescelto per l’esecuzione su scala industriale dentro la cava avesse l’obbligo di ammazzare, ma uno di loro, il sottotenente 38enne Gunther Amonn, sarebbe riuscito nel bailamme a evitare di sparare perché gli faceva umanamente troppo schifo, nonostante ne avesse già viste di tutti i colori.

Mille e millemila spunti possibili, ma a me per ora interessa ritornare a Odoardo Della Torre. Al mausoleo delle Fosse Ardeatine c’è traccia della scheda compilata dalla moglie Giuseppina Della Torre De Sanctis nel settembre ’44 per l’Associazione Famiglie martiri fucilati dai nazifascisti. E’ la n. 55 e spiega in modo scarno l’odissea di un intellettuale ebreo socialista (che poi pochi mesi prima di morire si iscriverà al Partito comunista).

Lauree in giurisprudenza e in filosofia, è insegnante di liceo a Roma e avvocato cassazionista. Non solo: affianca Giacomo Matteotti nelle lezioni all’Università Proletaria. Nella prima fase del fascismo squadrista, quando è da poco laureato e sta facendo un giro di conferenze di propaganda politica, viene sprangato: lo ricoverano a Pontedera ma, inutile dirlo, la polizia del regime invece di dare la caccia agli aggressori intima al prof di sparire dalla circolazione e non farsi più vedere in Toscana. Poi arriva la vergogna delle leggi razziali e, da un lato, gli sottraggono la cattedra di insegnante, mentre, dall’altro, lo sbattono fuori anche dall’ordine professionale così che non può più fare nemmeno l’avvocato.

Basta? No che non basta: con l’entrata in guerra (giugno ’40) scatta l’arresto e l’invio al campo di concentramento di Urbisaglia. Ulcera, tbc e nevrastenia lo mettono in ginocchio, tanto che allentano le condizioni di detenzione passandolo al campo di Camerino, un po’ meno duro. Lo liberano dopo un anno, la famiglia si arrangia a sopravvivere con i risparmi messi da parte. Nel marzo ’44, cinque giorni prima dell’eccidio, viene arrestato di nuovo: stavolta dalle Ss, ma per smplice sopruso, senza cioè né interrogarlo né formulare accuse.

Adesso che mi sono buttato a capofitto nell’oceano di dolore di questa strage, però, inciampo anche nelle impronte di altri livornesi. Eccoli: a parte Della Torre, ecco Umberto Lusena, ecco Ilario Zambelli e ecco Pilo Albertelli. Al pari di via Odoardo Della Torre, esistono strade per ricordare questi martiri: via Lusena è in zona stadio, via Zambelli sbocca su viale della Libertà, via Albertelli è a fianco di  villa Fabbricotti (e proprio in quella via si affaccia una scuola elementare intitolata al prof-partigiano. Può darsi che nella lista dei morti mi dimentichi qualcun altro legato a Livorno: non di tutte le vittime sono stato in grado di verificare la data di nascita, non di tutte ho tutti i dettagli biografici per cui potrebbero aver lavorato e/o abitato a Livorno ma non lo so. Fatto sta che già questi nomi dicono molto: vediamolo.

Lusena è figlio d’arte: il padre è stato un generale ebreo del Regio esercito e lui è un brillante maggiore dei parà del reggimento Nembo. Si racconta che il babbo sia stato un legionario al fianco di D’Annunzio a Fiume (però nella lista ufficiale che ho trovato al Vittoriale figurano altri 21 livornesi ma lui no), lui si rivolta contro i tedeschi in nome di una certa idea dell’onore militare della patria e prima schiera il battaglione dei suoi arditi paracadutisti per provare a impedire l’occupazione di Roma, poi si unisce ai partigiani con il Fronte militare clandestino costituito da alti ufficiali monarchici agli ordini di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, uno dei principali collaboratori di Badoglio, quello dell’armistizio con gli alleati.

Ilario Zambelli è semplicemente un sottufficiale telegrafista: più elbano (di Rio) che livornese (ma a Livorno arriverà in servizio). Se la traiettoria dell’identità militare di Lusena è abbastanza complessa, quella di Zambelli lo è il doppio. Anche perché, a quanto mi pare di poter ricostruire, non era uno di quelli che impazziscono per il fascino della divisa: si vede perché prova a vivere una vita da civile (con il solito tran tran da impiegato di ufficio postale), senza tanti giuramenti di fedeltà al Duce. Rifiuta la tessera del fascio e lo sbattono fuori dalle Poste, al tempo stesso lo Stato fascista ne ha bisogno e lo richiama in servizio come radiotelegrafista (inizialmente per i fari elbani, in seguito nella Capitale). Una delle fonti segnala un suo avvicinamento al Pci, in realtà il suo approccio alla Resistenza è dall’interno della Marina e per farlo sceglie il Fronte filo-monarchico di Montezemolo. Anche lui viene preso pochi giorni prima dell’eccidio: nella sua stessa via abita un figuro della X Mas che lo pizzica in piazza San Pietro mentre volantina testi sovversivi. A Regina Coeli gli aguzzini si divertono ben bene a spappolare un uomo inerme: difficile dire se è solo agiografia da martirologio la sottolineatura che abbia fatto con le ferite ancora sanguinanti l’ultimo viaggio, quello verso le Fosse Ardeatine.

Pilo Albertelli è un prof che arriva da Parma: sarà uno dei fondatori del Partito d’Azione (e delle brigate partigiane di Giustizia e Libertà), il padre è un deputato socialista. Qui da noi arriva nel ’32 per una cattedra al liceo classico (pare avesse poi anche un incarico al Sacro Cuore). Se pensate che questo raffinato studioso di filosofia greca fosse uno bravo a perdersi solo nei suoi pensieri, vi sbagliate di grosso: dopo l’armistizio (e l’inizio delle ostilità con i tedeschi e i repubblichini), piazza l’ordigno per far saltare in aria in zona Parioli la caserma della milizia. Quando lo pizzicano, lo affidano ai torturatori della banda Koch al cui confronto le Ss sono la Fatebenefratelli: dopo quattro settimane di atrocità, è talmente malridotto che non lo riconoscono nemmeno i compagni di cella. «Un uomo senza ideali non è un uomo ed è doveroso sacrificare, quand’è necessario, ogni cosa per questi ideali»: l’aveva scritto lui a Lia, a quel tempo fidanzata e poi moglie.

Non c’è da menar il can per l’aia, è di immediata evidenza che il dato saliente di queste biografie è l’estrema varietà delle posizioni: i quattro livornesi sono un prof azionista, un avvocato socialista e poi comunista, un ufficiale monarchico e un sottufficiale che non voleva esserlo e che alla fine fa il partigiano con la Marina e i monarchici. Insomma,  un puzzle di caratteri e idee politiche. È stata questa la forza dell’antifascismo nel Ventennio di un regime autoritario che nelle spie dell’Ovra esprimeva una capacità professionale nel giostrare la ferocia.

In anni lontani la storiografia ha costruito una narrazione tutta centrata sulla guerra di liberazione dallo straniero (nazista): è il teorema della Resistenza come Secondo Risorgimento. Non senza motivo, se è vero che quello originario è stato amputato di tutta la parte filo-democratica ed è stato sotto l’egemonia di Cavour. Al pari dell’amnistia togliattiana, della mancata epurazione dei gran commis statali e dell’affidamento della prima presidenza della repubblica a un monarchico (Enrico De Nicola), si può dire che questo schema rispondesse all’idea di “assolvere” in massa quella grossa fetta di popolazione che era rimasta fascista nel cuore. Tutta l’Italia si era liberata dallo straniero nazista. Sarà poi uno studioso del calibro di Claudio Pavone, ben prima dei bestseller di Giampaolo Pansa, a riaprire il caso con la categoria della “guerra civile”: non c’era stato solo da mandar via lo straniero, ci si era combattuti anche fra noi italiani.

Il lavoro degli storici non ha diminuito l’importanza del ruolo dei comunisti nella lotta partigiana (le formazioni combattenti sarebbero state forse cosa ben meno efficace se non ci fosse stata una leva di comandanti e combattenti comunisti), ma ha allargato lo sguardo a tutto il puzzle. Ad esempio, guardando il fatto che non tutti quanti si davano alla macchia diventavano di punto in bianco partigiani combattenti: spesso erano giovani che si rifiutavano di rispondere alla chiamata di leva e fare il soldato per i repubblichini, dunque soprattutto renitenti alla leva e disertori, diciamo così, con la maturazione di una consapevolezza politica che sarebbe arrivata magari in seguito. Ad esempio, accorgendosi del fatto che numericamente il gruppo più rilevante è quello dei militari delle regie forze armate che si rifiutano di schierarsi al fianco dei tedeschi o di Salò, anche se questo lo pagano con la prigionia in Germania (con lo status di “internati militari”, Imi, che negava loro i diritti di prigionieri di guerra). Ad esempio, dando rilievo all’ “acqua del pesce”, cioè tutta quella galassia di aiuti e complicità che non sfociano nello status di combattente in armi ma sono ugualmente indispensabili per la sopravvivenza delle bande partigiane: il prete che accoglie ebrei, il contadino che fornisce cibo, la donna che segnala l’arrivo del rastrellamento, il medico che cura i feriti, il commerciante che nasconde i volantini, eccetera.

Il fascismo, che pure a metà anni ’30 aveva raggiunto l’apice del consenso, perde tutto nel giro di pochi anni perché un arcobaleno di soggettività mette la sabbia nel motore del regime e lo fa saltare. Bisogna ricordarsene: la libertà, la democrazia e la giustizia sociale nessuno te li serve su un piatto d’argento, nessuno li regala a un piccolo gruppo sparuto, per quanto ganzo, eroico e combattivo possa essere.

Aggiungo un aspetto extra, ha a che fare con il “dopo” e cerco di raccontarla senza aggettivazioni (ma anche senza metter tutto sullo stesso piano): semplicemente così, con tutta la forza che questa narrazione mi sembra abbia in sé.

Il primo elemento riguarda il regno della casualità: come in molte vicende dell’esistenza (individuale e collettiva), la trama è un castello di destini incrociati, avrebbe detto il Nostro. Chiamatélo caso, io penso che potrebbe esserci il “dito di Dio” (anche se per Saramago, comunista com’è, sarebbe ben strano per un cristiano ringraziare Dio che l’ha salvato facendo morire nel terremoto quelli della casa accanto). Come che sia, il caos del rastrellamento per fornire più di 300 persone da condurre al macello è una babele di tizi che non si trovano nelle celle e altri che vengono presi al posto loro benché siano fuori lista, prigionieri aggiunti a casaccio perché il conto era stato fatto male, i cinque in più che vengono ammazzati ugualmente perché hanno visto tutto. Quella lista di future vittime è tutta un aggiungi e cancella: avessero avuto più tempo si sarebbe potuto ipotizzare anche un po’ di “mercato nero”, mazzette per farsi cancellare o anche per evitare di essere inseriti.

Tutto questo lo aggiungerei a qualcosa che ho già accennato: ad esempio, il ragazzino ucciso per sbaglio nell’attentato, un partigiano di Bandiera Rossa (comunisti eretici) ucciso non so se dalla reazione dei militari tedeschi in via Rasella o dal “fuoco amico” oppure anche lui come uno di passaggio. Ma c’è anche un ufficiale nazista che non ce la fa ad ammazzare a sangue freddo e sviene, mi pare non abbia avuto punizioni (ma è solo per una fatalità, visto che i vertici avevano minacciato: chi si tira indietro può mettersi in fila con i condannati).

C’è da sottolineare un secondo elemento: i nazisti non erano da soli, questo male assoluto non sta fuori dai confini. Da tradurre così: c’è chi fra gli italiani (repubblichini fascisti) ha collaborato a mettere in piedi gli ingranaggi della “macchina” dello sterminio. Potrei riferirmi alla banda Koch, cioè a una sorta di gang di torturatori agli ordini di Pietro Koch, un altro dei tanti senz’arte né parte che trovano nei bassifondi del fascismo una ragione di vita facendo dei propri istinti più infami il proprio mestiere. Fuochino: la banda Koch, quasi una spin-off dell’analoga banda Carità, era lo “squadrone della morte” al quale venivano affidati i lavori sporchi perfino per i nazisti e per le istituzioni del regime. Compreso il blitz nel convento della basilica di San Paolo, che si sapeva nascondere ebrei e antifascisti: d’altronde, al fianco di Koch lavoravano anche preti e frati. I metodi erano talmente disumani da essere disprezzati anche dall’interno del fascismo così come delle Ss, ma c’era Kappler che li copriva.

Ma più che la dimensione psicotico-delinquenziale, mi interessa invece la “normalità” delle istituzioni fasciste in quei giorni del ’44 a Roma. In risposta alla bomba partigiana di via Rasella, Hitler vuole una ecatombe di 1.600 italiani, il comando nazista a Roma vuol cavarsela con più di 300: ma bisogna trovarli. Ci si affida alle autorità romane del settore sicurezza: il questore, ad esempio, o il direttore del carcere.

Il questore – che, detto fra parentesi, aveva guidato anni addietro anche la questura di Livorno – capisce che compilando la lista dei nomi diventa un macellaio che li condanna a morte, al tempo stesso non è affatto un nemico dei tedeschi: svicola, ritarda, ne manda meno, va dal ministro e quello lo riceve appena risvegliato nella suite del grand hotel e lo liquida in poche battute, lui prende altro tempo ma una mezza lista la manda e poi collabora. Finché le Ss si stufano e acchiappano chi capita dove càpita. Non la faccio tanto lunga perché non è il questore che mi interessa: semmai i riflettori li punto sul direttore del carcere che invece è sì dentro le istituzioni dello Stato fascista ma, quantomeno perché vede crollare tutto intorno (e gli alleati avanzare dal Sud), fa da sponda agli antifascisti e al Cln. Quando la conquista di Roma da parte degli angloamericani era ormai vicinissima, aveva fatto fuggire dal suo carcere una sfilza di prigionieri politici, forse proprio perché aveva visto cosa era accaduto dopo l’attentato di via Rasella e voleva evitare il bis.

Nel settembre ’44, con Roma ormai liberata ma le ferite della guerra ancora sanguinanti e dolorosissime, si apre il processo in cui il questore fascista è alla sbarra perché accusato di aver collaborato a mandare a morte quell’apocalisse di poveracci alle Fosse Ardeatine. Ma c’è un “ma”: nella fuga dalla Capitale perde la colonna tedesca e finisce con l’auto contro un albero. Gamba spaccata e stanzetta-infermeria in tribunale, proprio mentre fuori dal tribunale preme una folla che vuol farsi giustizia da sé. Il tumulto di piazza rompe gli argini, entra e si avventa su quel che c’è: il direttore del carcere. Lui mostra il salvacondotto firmato dal leader socialista Pietro Nenni per l’aiuto ai partigiani, la gente vuol fare a pezzi lui e qualsiasi cosa possa avere a che fare con quel che hanno patito.

Lo portano fuori per metterlo sulle rotaie del tram e farcelo passare sopra: il tramviere – racconterà la giurista Zara Algardi, morta nel ’94 dalle parti di Pistoia, testimone oculare del linciaggio – si è rifiutato di farlo, di fronte alle grida ha sventolato la tessera comunista, si è preso la manovella bloccando il veicolo ed è andato via. Questo non ha salvato il direttore del carcere: è stato allora preso e buttato nel fiume, siccome era riuscito ad aggrapparsi a pezzi di legno e a una barca, era stato finito a colpi di remo. Poi il corpo era stato preso per essere agganciato alle finestre di Regina Coeli.

E il questore? L’ho lasciato nella stanzetta con la gamba rotta, mentre la furia della folla esplode pochi metri più in là. Non basta a salvargli la vita: dura solo quattro giorni in più. Quanto basta per esser condannato a morte (ma dalla giustizia legale) ed esser fucilato a Forte Bravetta. Lo stesso luogo dove è stato fucilato Costantino Ebat, per tutti Costanzo, livornese, ex alunno del Nautico, poi tenente colonnello di artiglieria.

Questa fortificazione della Roma ottocentesca appena fatta capitale, fra il Gianicolo e il Corviale, l’avevano individuata nazisti e repubblichini come il luogo delle fucilazioni: la “fabbrica della morte”, come la definisce il saggista Mario Avagliano. Adesso c’è un parco dedicato ai martiri di Forte Bravetta, un memoriale neanche troppo bello né granché artistico ricorda una settantina di fucilati in 18 occasioni differenti. L’ultima, quella del militare livornese. Proprio l’ultimissima: l’indomani gli alleati avrebbero liberato Roma, l’ufficiale nazista che comanda il plotone d’esecuzione neanche aspetta la fine della fucilazione e scappa con i suoi. Secondo alcune fonti, in extremis tenta una disperata evasione anche il tenente colonnello livornese: ha appena compiuto 33 anni. Lo riacciuffano e, appena prima di salire sul camion della loro fuga, lo fucilano. L’ultimo fucilato a Roma.

Nelle foto, dall’alto: sotto il titolo un primissimo piano di Pilo Albertelli; foto di gruppo con Odoardo Della Torre (credo sia il più alto); il torturatore Pietro Koch; il mausoleo costruito sul luogo dell’eccidio; la scheda segnaletica di Albertelli; Umberto Lusena e, più in basso, Ilario Zambelli (le immagini sono state rintracciate in rete, qualora vi siano problemi per il loro libero utilizzo da parte mia segnalatemelo nei commenti e provvederò a rimuoverle immediatamente)

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3 risposte a “Ardeatine/1: I quattro martiri livornesi ci insegnano che l’antifascismo è un arcobaleno di soggettività differenti”

  1. Avatar bianchimassimo
    bianchimassimo

    Una pagina drammatica della nostra storia. Oggi anche Rai Storia l’ha ricordata naturalmente con le consuete omissioni.Quali ?.Sono stati ricordati gli ebrei ,i militari,due sacerdoti, gli antifascisti. Mi sarebbe piaciuto anche che venissero ricordati i 19 massoni trucidati dai nazisti e sepolti nel Mausoleo Ardeatino.Si chiamavano Teodoro Albanese,Carlo Avorio,Umberto Bucci,Silvio Campanile,Salvatore Canalis,Giuseppe Celani,Renato Fabbri,Fiorino Fiorini,Manlio Gelsomini,Umberto Grani,Mario Magri,Placido Martini,Attilio Paliani,Giovanni Rampulla,Umberto Scattoni,Mario Tapparelli,Angelo Vivanti,Giulio Volpi,Carlo Zaccagnini.Mai si fà riferimento alla loro appartenenza alla massoneria che dal 1925 era in esilio a Pariigi ,parte della concentrazione antifascista ,con un Gran Maestro Aessandro Tedeschi ebreo e medico livonrese che morì poche ore prima che la Gestapo lo andasse d arrestare.Conosco la toponomastica e sopratutto avevo memoria della presenza di Pilo Albertelli e dei martiri livornesi nella lotta di Liberazione. Il tuo articolo dovrebbe essere fatto conoscere nelle scuole dove questa parte della tragica vicenda nazionale non è materia di studio.In genere ci si ferma si e no alla seconda guerra mondiale. Grazie come sempre e scusami se ho approfittato di questo spazio per rendere omaggio ai miei fratelli.

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    1. Grazie per la tua attenzione e la tua gentilezza. La massoneria non è il mio forte, dunque grazie due volte per aver aggiunto elementi di conoscenza che non avevo. Non ho i titoli e le competenze per fare lo storico: me la cavo meglio a fare il cronista, magari facendo l’andirivieni nella nostra storia più o meno recente

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  2. Avatar Leonetti anita Monica Cuzzocrea
    Leonetti anita Monica Cuzzocrea

    grazie di questo interessantissimo articolo e mi riprometto di presentare agli studenti questi nostri livornesi che non sapevo fossero legati all’ eccidio delle Fosse Ardeatine di cui parlo sempre! Si potrebbe fare un evento cittadino per parlare pubblicamente e far conoscere ai più. Ancora grazie e buona serata

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