Ardeatine/2: il prete eroe del film cult con la trama aggiustata (e la morta in più che faceva cicoria)

L’eccidio nazista delle Fosse Ardeatine è un gallery di umanità oppressa e di storie incredibili: riprendo il filo per raccontarne altre. Compresi i due morti in meno (salvi miracolosamente) e quella in più (era sorda e non aveva sentito le urla delle sentinelle)

di Mauro Zucchelli

La vecchia talpa scava ancora in quell’inferno di orrore che è il massacro delle Fosse Ardeatine. L’ho sentita definire come la più enorme strage metropolitana nella seconda guerra mondiale: francamente non mi interessa se ha fatto il record o se al fotofinish c’è qualche altro abisso nero di disumanità che sorpassa l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Ne ho già parlato qui: https://wp.me/pekT6o-hy (e lo diamo per acquisito).

Semmai mi pare utile riprendere il filo e riannodarlo per raccontare altri flash. A cominciare dalla fine di don Pietro Pappagallo, barese, figlio di un artigiano senza beni né fortune: l’abbiamo visto con il faccione così umano, troppo umano, di Aldo Fabrizi al fianco di Anna Magnani nel film di Roberto Rossellini “Roma città aperta”. È noto, per ammissione degli stessi sceneggiatori in continuo scontro politico fra loro, che il prete interpretato da Fabrizi riassumeva sotto una sola tonaca le figure di don Pietro Pappagallo (morto alle Fosse Ardeatine) e di don Giuseppe Morosini (ammazzato a Forte Bravetta con quasi tutto il plotone di esecuzione che finge di sbagliare bersaglio, l’ufficiale nazista si infuria e ci pensa lui).

Don Pietro non è di quei pretini che si rinchiudono a sentire l’odor di incenso in sacrestia e sbaciucchiano i crocifissi di legno perché hanno paura della vita dove i crocifissi sono povericristi di carne e di ossa (la crocifissione era la morte dei delinquenti, mica quella dei principi). Al processo Kappler dirà che l’avevano arrestato per le sue «attività comuniste». Comunque, è l’unico sacerdote cristiano nella fila dei condannati a morte già dentro la cava romana. Si alza una voce di uno che sa cosa accadrà fra poco: «Padre, ci benedica». Don Pappagallo lo raccontano come un tipo piuttosto robusto, chissà se è la rabbia o la forza della fede, fatto sta che si rompe la corda che lo tiene attaccato agli altri e alza le manone sopra la folla dei quasi-morti e prega come sa pregare lui ma di certo nemmeno il Dio degli ebrei o quello di altri cieli s’arrabbia. Lui, prete di Terlizzi, con quella tonaca ormai cenciosa, alza infine la mano e dà l’ «ego te absolvo»: i tuoi peccati sono stati perdonati. Credo anche da qualunque altro Dio con cui magari don Pietro aveva meno pratica.

Il don Pietro di Aldo Fabrizi in “Roma città aperta”, però, muore altrove: a Forte Bravetta. Dietro c’è un motivo: il film nasce per parlare di don Pappagallo e delle Fosse Ardeatine. Ma questo diventa motivo di scontro politico all’interno della troupe: la storia – che avrà anche l’apporto di Federico Fellini – si trasfigura, si occultano i riferimenti alle Fosse Ardeatine perché richiama troppo da vicino l’attentato di via Rasella e pare fosse un nervo scoperto anche per una parte dei comunisti. Fatto sta che il don Pappagallo del film trascolora pure lui e assomiglia sempre di più a don Morosini. Non solo: siccome il focus della trama resta troppo focalizzato sul prete, c’è tutto un tira-e-molla con gli sceneggiatori “rossi” per riequilibrare la cosa con qualche ruolo edificante dei combattenti comunisti. È un miracolo, diciamolo, che alla fine dal ring ideologico in sede di scrittura sia uscito un film che resterà nella storia del cinema: merito anche della celebre corsa di Anna Magnani, colpita a morte mentre insegue il camion sul quale viene deportato il suo uomo.

Il don Pappagallo vero rompe la corda nella cava prima di morire. C’era legato un tipo singolare: lui si chiama Joseph Raider. Spoiler: è un austriaco che fa il militare nei ranghi delle truppe naziste, diserta e sparisce a Anzio, riesce a ottenere una falsa identità italiana ed è sotto quel nome che viene arrestato e sbattuto nel mucchio dei prigionieri da mandare a morire nella cava trasformata in tomba. Raider è legato a don Pappagallo, quando la corda si spezza vede un cumulo di pietre dietro le quali nascondersi: ma lo smagano, poi chissà come si salva.

L’ho trovato nel libro “Morte a Roma” che per Editori Riuniti (vicina al Pci) scrive nel ’67  Robert Katz, giornalista e saggista statunitense, che finirà nel 2010 i suoi giorni in Toscana fra le 260 anime di Pieve a Presciano: da quel testo uscirà a metà anni ’70 il film “Rappresaglia” (reperibile nella app di La7) che, accusando papa Pio XII di aver fatto quasi niente per fermare i nazisti, sarà querelato dai parenti del pontefice e darà vita a una interminabile vicenda giudiziaria. Nota:  il libro “Morte a Roma” è reperibile nelle librerie online in successive edizioni (e, in quella vecchia, in tante biblioteche della provincia di Livorno, a cominciare da quella a Villa Maria). Quel fortunoso salvataggio potrebbe farci domandare se quel tale fosse una spia o un confidente dei nazisti: su un’edizione del giugno ’48 del “Corriere della Sera” ho letto della sua deposizione al processo a Kappler. Come confermato anche dal quartier generale del mausoleo dell’eccidio, è l’unico sopravvissuto.

C’è però anche un altro scampato: si chiama Alberto Sed ed è una figura notissima. La sua straordinaria storia l’ha raccontata uno scrittore che noi livornesi abbiamo conosciuto bene: Roberto Riccardi, ex comandante provinciale dei carabinieri e ora generale alla guida del nucleo che protegge i beni culturali. Sed era finito fra gli arrestati che avrebbero dovuto esser trasportati alle Ardeatine ma non l’hanno trovato: al momento dell’arresto il carcere di Regina Coeli era strapieno e lui lo avevano “appoggiato” provvisoriamente altrove, ma poi se ne sono dimenticati. Non si dimenticheranno però di portarlo ad Auschwitz. Sopravviverà al lager, poi per mezzo secolo vorrà essere lui a dimenticare: dimenticare la madre passata subito per il camino e la sorella vittima degli esperimenti del medico nazista Mengele.

Questi due ce l’hanno fatta a non finire nel mucchio di cadaveri nel sottosuolo della cava romana: due in meno. Ma c’è anche una morta in più, e non c’entrava niente con i rastrellamenti, l’attentato di via Rasella, i nazisti, gli ebrei o i partigiani: Fedele Rasa era una popolana di 74 anni e, a dirla tutta, era di Gaeta. Era sfollata al Villaggio Breda – fra Tor Vergata e Tor Bella Monaca –  e andava a far cicoria nei campi per avere qualcosa da mangiare: quel giorno si avventurò 15 chilometri buoni verso ovest, fin oltre il Quadraro. Troppo vicino a quelle cave dove c’era tutto quel caos: le sentinelle probabilmente le urlano qualcosa, ma lei è sorda come una campana e ha trovato la sua cicoria. Urlano ancora, lei non sente. Quel segreto deve restare segreto: parte la raffica e della sua cicoria Fedele non può farsene più nulla. È una storia rimasta segreta anche questa per tantissimi anni: l’ha fatta emergere un ex cronista di giudiziaria del “Corriere”, Cesare de Simone.

L’ho già detto e mi ripeto: in questa storia c’è “un baule pieno di gente”, come avrebbe detto Antonio Tabucchi. Ma qui non sono eteronimi di un genio della letteratura come Fernando Pessoa, qui sono tutte storie di gente che strilla, piange, mangia, prega e si arrabbia davvero. Ho già detto anche che dentro chi scriveva il soggetto di “Roma città aperta” c’era uno scontro politico: del resto, era iniziato praticamente subito, sulle colonne dell’ “Osservatore romano” il teorema per cui la colpa delle Fosse Ardeatine era dei partigiani che in via Rasella si erano resi protagonisti di un gesto avventurista. Quel tipo di narrazione ha fatto breccia benché infondato, lo ha detto anche Corrado Augias su La7 rievocando l’anniversario dell’eccidio romano.

L’ho spiegato che non è mai esistita l’offerta nazista di evitare la rappresaglia se gli autori di via Rasella si fossero consegnati. Ma c’è anche un altro genere di controprova che, quand’anche si fossero consegnati, ben difficilmente i nazisti avrebbero rinunciato all’eccidio. Gli ebrei romani lo sapevano bene quanto ci si poteva fidare della parola dei comandanti nazisti: Kappler a fine settembre ’43 dà alla comunità ebraica 36 ore di tempo per consegnargli 50 chili d’oro, se non arrivano deporterà 200 ebrei. Glieli trovano, e gli ebrei deportati diventeranno duemila.

Ma l’avevano dimostrato a Boves, colline a sud di Cuneo: non sono passate neanche due settimane da quando l’armistizio ha capovolto la logica delle alleanze e i partigiani fanno prigionieri due soldati nemici. Il comandante tedesco chiama il parroco e lo manda a trattare con i partigiani: o ci date i due nostri ragazzi o la facciano pagare cara al paese. I partigiani restituiscono i due e un attimo dopo parte la mattanza: paese completamente cancellato da un rogo, 23 morti a cominciare dal parroco-mediatore e dal suo vice. Tempo tre mesi e c’è il bis: un’altra sessantina di morti.

Consiglio vivamente un’occhiata alla doppia mappa che accompagna il libro dal titolo “L’armadio della vergogna” scritto da Franco Giustolisi, l’inviato speciale dell’ “Espresso” che scoprì i faldoni nascosti relativi alle stragi naziste. La doppia mappa prevede semplicemente un puntino per ogni strage nazista, e ce n’è un pulviscolo: principalmente in Toscana. Colpa del fatto che per mesi e mesi da fine estate ’44 a primavera ’45 regge la doppia barriera sulla quale i tedeschi si attestano (la Linea dell’Arno da Pisa a Fano e la Linea Gotica da Massa a Pesaro). Come chiarisce lo storico Mimmo Franzinelli (“Le stragi nascoste”), stiamo parlando di un continuo susseguirsi di eccidi e stragi: per un complessivo «dalle 10mila alle 15mila vittime». Altro che l’esplosione improvvisa di rabbia incontrollata dopo un attacco partigiano: è una strategia preventiva di terrore che, studiata a tavolino, senza troppo rischiare si accanisce contro popolazioni indifese e ogni tot ore  stermina una famiglia o un paesino.

No, non è un refuso: ho detto proprio “ore”. Niente lo racconta meglio dell’ “Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia”: lo trovate all’indirizzo  http://www.straginazifasciste.it, è un progetto che porta la firma dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia (Insmli) e degli ex partigiani dell’Anpi. La griglia di ricerca consente di vederne l’identikit: in dettaglio, visto che una per una ne sono state individuate 5.884 (con 24.436 vittime). Di queste, 827 sono in Toscana (con 4.476 assassinati). Quasi tutte concentrate negli otto mesi del ’44 da inizio marzo a fine ottobre: 783 episodi (con 4.340 morti). Una strage ogni sette ore e mezzo solo in Toscana. Lo capisce anche un bambino che si tratta di una pianificazione, non di un accidente fortuito capitato per sbaglio.

Rieccoci al don Pietro con il volto di uno straordinario Aldo Fabrizi, che pure fino ad allora era conosciuto come macchiettista e poeta buffo vernacolare. Ultima scena: come detto, non siamo alle Ardeatine per quella sorta di autocensura del team di sceneggiatori, lo fucileranno fra poco. Al confratello che lo consola come da rituale, lui risponde: «Oh, non è difficile morire bene: difficile è vivere bene». Finirà che si trova pur sempre un infame (l’ufficiale nazista) che gli spara alla nuca, eppure anche in quel momento di tragedia e di rassegnazione il film mette in fila tre gesti di speranza. Non tutto è perduto: i bambini della parrocchia, pur malconci, sono al di là della rete a salutare il loro “don” a suon di fischi; con un tocco di surrealtà, il plotone d’esecuzione disobbedisce e spara a vuoto. E il terzo? I bambini quando se ne vanno da quel posto maledetto: all’orizzonte, ai piedi della collina e dei ragazzini) si stagliano il Cupolone di San Pietro e una sfilza di caseggiati anonimi della Roma palazzinara che verrà. Non c’è Rossella O’ Hara a dire che «dopotutto domani è un altro giorno», ma il tono è quello. Ma se però ricapitasse ora, forse a fischiettare il saluto al “don” ci ritroveremmo semmai una congrega di settantenni, acciaccati pure loro ma settantenni.

DALL’ARCHIVIO: UN’ALTRA STORIA DAL BLOG

Nelle foto, dall’alto: la fucilazione del prete di “Roma città aperta” e la locandina del film; la lista della questura di Roma con i nomi delle persone da ammazzare alle Fosse Ardeatini (e tante cancellature e aggiunte); la locandina del film “Rappresaglia” (con Marcello Mastroianni) basato sul libro di Katz; l’opera di Renato Guttuso dedicata all’eccidio nazifascista; la mappa dei principali eccidi nazifascisti in Toscana e Emilia (dal libro di Franco Giustolisi, “L’armadio della vergigna”)un primo piano di Aldo Fabrizi nei panni del prete ispirato a don Pietro Pappagallo e don Giuseppe Morosini (le immagini sono state rinvenute in rete e ritenute di libero uso come libero è l’uso di questo blog, qualora vi fossero problemi vi sollecitiamo a segnalarlo nei commenti: le rimuoveremo immediatamente).

Una replica a “Ardeatine/2: il prete eroe del film cult con la trama aggiustata (e la morta in più che faceva cicoria)”

  1. Avatar bianchimassimo
    bianchimassimo

    Una storia drammatica che dovrebbe essere insegnata nelle scuole.Purtroppo non è così.Bravo e Buona Pasqua
    Inviato da Outlook per Androidhttps://aka.ms/AAb9ysg ________________________________

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