Il genio di Tabucchi: i mille identikit di Pessoa e il dittatore che non seppe di esser stato cacciato

Il grande scrittore di “Sostiene Pereira” è stato il Pasolini degli ultimi decenni. Lo si capisce solo guardando alla “confederazione di anime” che compongono l’inquietudine di Pessoa e l’incredibile storia della fine di Salazar fra finti giornali e false leggi

di Mauro Zucchelli

Avrebbe potuto essere uno dei tanti studenti che, innamorati di tutto e di niente, bighellonano nei viali di quel che vorrebbero prendendo una strada dopo l’altra per non essere mai costretti a sceglierne una. Viaggiava in Europa il giovane Tabucchi Antonino da Vecchiano (Pisa), del quale in questi giorni si ricorda il 12° anniversario della scomparsa: era nato subito dopo l’armistizio del ’43, in quel limbo di giorni in cui in piena guerra si capovolsero le alleanze mentre i Savoia scappavano e le istituzioni si spappolavano.

Era venuto al mondo in un mese in cui era già tanto riuscire a restare vivi galleggiando e galleggiando come un sughero sulla sua gioventù se l’era cavata: nell’attesa che saltasse fuori il momento giusto per orientare la bussola sul futuro. Intanto si arrangiava con i libri che aveva scovato nella biblioteca dello zio.

A questo punto, fosse stato un personaggio dei suoi – con quella faccia un po’ così quell’espressione un po’ così – avrebbe tirato fuori una scena sul lungosenna: il solito narratore onnisciente giura che fossimo in zona Gare de Lyon ma io mantengo i miei dubbi. Eccolo lì a scartabellare nei banchi di libri dei bouquinistes finché ne trova uno che pensa gli possa piacere. Forse a casaccio, magari per via di quella copertina strana: solo che alla fine, quando è ormai arrivato a casa, si accorge di averne preso un altro. Quanto basta, per chi crede al dio esigente della lettura, per mettersi a leggere quella roba francamente sconclusionata: ora gli sarebbe stato sufficiente googlare il nome di Álvaro de Campos per capire che era uno dei principali “altri” Pessoa dentro Pessoa. Facile adesso ma a quel tempo pochissimi lo conoscevano, nessuno si sarebbe immaginato uno scrittore-matrioska che ha la propria interiorità spezzettata in comparti: una folla di “sotto-scrittori”, ciascuno con un proprio carattere, un proprio stile, una propria idea del mondo, una propria poetica.

Ci voleva uno bravo a disegnare la cartografia dell’anima più profonda di Pessoa? Sì, ma non sarebbe bastato: bisognava trovare qualcuno che, dal punto di vista intellettuale, si “innamorasse” di quel che aveva lasciato la mente rimpiattata dentro l’esistenza fragile di un signor nessuno che faceva l’ impiegato – anzi, il corrispondente in lingue estere – in ditte altrettanto anonime. Nessun sussulto esistenziale se non la relazione, talvolta apparentemente incomprensibile, per l’impiegata Ophelia Queiroz. Abbiamo innanzi a noi il genio portoghese della letteratura del Novecento europeo che, nel carteggio con Ophelia pubblicato da Adelphi, si lascia prendere la mano da paroline bischere e chiacchiericcio da love story: su Facebook avrebbe postato tonnellate di gattini e puffi (e chissà come faremo in futuro, visto che oggi il “carteggio” sarebbe su WhatsApp con emoji e meme).

Meglio tornare a Tabucchi, e intuire che quel libro di Álvaro de Campos (che esiste solo nel reame della letteratura ma non in ciccia e ossa) gli trasforma la vita riscrivendogliela daccapo: 1) lo porta a voler imparare il portoghese così da apprezzare Pessoa in lingua originale; 2) lo attrae alla conoscenza di quel che era il Portogallo; 3) lo conduce all’incontro con Luciana Stegagno Picchio, che miracolo vuole insegni all’università di Pisa e sia la maggior studiosa di una letteratura di “margine” com’è quella lusitana; 4) lo guida non solo a laurearsi ma anche a mettersi in gioco per avere una borsa di studio che gli consenta di vivere per un periodo a Lisbona; 5) gli fa incrociare Maria José de Lancastre, la donna portoghese che gli sarà accanto per la vita e gli farà da guida nella scoperta di quanto si muove nella cultura portoghese di quegli anni.

Stiamo parlando di un Paese che negli anni ’60 è ai margini del Vecchio Continente non solo dal punto di vista geografico ma anche sotto il profilo politico-culturale e socio-economico. Non è per un accidente della storia o per sfiga cosmica: Antonio Salazar è un economista che cristallizza il Paese attorno a una dittatura fondata su un cattolicesimo ipertradizionalista, un modello corporativo autocratico e una potenza coloniale tanto strampalata quanto anacronistica.

Il Portogallo che Tabucchi scopre, niente lo spiega meglio della storia relativa agli ultimi anni del regime totalitario che sarà spazzato via dalla “rivoluzione dei garofani” esattamente cinquant’anni fa: non saprei dire se è davvero parecchio di più di una leggenda metropolitana, fatto sta che la dittatura era finita talmente sotto naftalina che si racconta di un Salazar reso sostanzialmente inabile da un banale incidente domestico.

Si tratta di questo: il 3 agosto ’68 nella residenza estiva dell’Estoril, durante una seduta con il callista per curare i seri problemi ai piedi, cade rovinosamente dalla sedia e batte la testa e va in coma. Sembra spacciato ma non muore: siccome però il guaio perdura, come si fa a evitare un vuoto di potere? Non è semplice: tutto il potere era nelle mani del capo e ora che il capo è ko, le massime istituzioni lusitane decidono di inventarsi una transizione che, seppur in assenza di morte, punta su Marcelo Caetano come premier. Il problema si pone quando, sorprendendo tutti, Caetano esce dal coma. Dovrebbe tornare al timone del governo ma ha quasi ottant’anni, una salute malferma, Caetano ci ha preso gusto e anche pezzi di società civile si sono stufati del piccolo mondo antico del dittatore. Il risultato è ancora più sorprendente dell’uscita dal coma: il Palazzo decide che Caetano resta alla guida del Paese, per Salazar si costruirà una “bolla” di finzione che gli farà sembrare di essere tornato al comando e invece gli viene recitata tutt’attorno una commedia: finte edizioni di giornale, false visite di diplomatici stranieri, fasulli provvedimenti da firmare. È la vicenda messa nero su bianco da Marco Ferrari in un bel libro di Laterza dal titolo “Antonio Salazar, il dittatore che morì due volte”. La seconda, la morte vera, arriverà due anni più tardi.

Qualcosa del genere è accaduto anche in Spagna con il generalissimo Franco: per mesi si è detto nel ’75 che era morto ma l’agonia veniva fittiziamente prolungata perché non c’era accordo su come gestire la successione.

L’ho tirata in lungo e faccio mea culpa. Ma a metà: credo sia complicato capire qualcosa di Tabucchi senza guardare questo contesto. E non credo di esagerare se ne paragono a quello di Pasolini l’impatto sulla coscienza collettiva: l’uno ne è stato l’espressione a cavallo fra gli anni ’60 e ’70 (l’ascesa del consumismo e la “cetomedizzazione” diffusa fino alla fine del boom); l’altro lo è stato nella Seconda Repubblica, a partire da “Sostiene Pereira” (dopo Tangentopoli e l’esplosione del berlusconismo).

Resta il fatto che c’è un filo rosso nella figura di Tabucchi uomo e scrittore: è la voglia raccontare con gli occhi degli vinti o comunque di quanti non stavano dalla parte dei vincenti. Ci riesce perché frequenta Parigi ma è nella periferia che abita: Lisbona nelle mappe della grande editoria vale Pisa-Vecchiano. Ma non è forse vero che, oltre a Pessoa, in una Europa dove sembravano contare solo Parigi, Londra e Berlino, il segno l’hanno lasciato Kafka (a Praga) e Joyce (a Dublino)? Non bastasse, c’è un testo poco conosciuto ma alquanto illuminante sotto quest’aspetto: “Gli zingari e il Rinascimento: vivere da rom a Firenze”, appassionato atto d’accusa contro la disumanizzazione del turismo nella capitale del Granducato, frutto del viaggio con una antropologa nei campi nomadi per conto di un giornale tedesco (e pubblicato solo da piccoli editori).

Lo raccontavo così sul “Tirreno” in occasione del decennale della morte: «Tabucchi è stato anche la voce di un mondo che non si è rassegnato al berlusconismo, al suo “Drive In” esistenziale, alla “corte di nani e ballerine” che era già un paesaggio umano prima ancora della discesa in campo di Sua Emittenza. Una posizione morale prima che politica: proprio per questo Tabucchi può essere visto come la coscienza civile dell’Italia – almeno d’una certa parte d’Italia – che prende l’eredità di Pier Paolo Pasolini. Con il poeta regista di “Accattone” la parabola corsara della “scomparsa delle lucciole” per narrare la mutazione antropologica del Paese che perde l’antica matrice proletaria; con lo scrittore di “Sostiene Pereira” l’apologo feroce della tv plastificata per spiegare la contaminazione batteriologica di una Italia rimbambita. Non è un caso se l’ultimo articolo è su un giornale straniero ed è dedicato al “sollievo” per l’uscita di scena di Berlusconi».

Quell’articolo però si conclude con una avvertenza: «Non sarà facile deberlusconizzare l’Italia e sradicare il microbo che ha diffuso in tutta Europa». Aveva ragione: noi di sinistra avevamo visto in Berlusconi un fattore di arretratezza del sistema politico italiano, era invece l’apripista di una nuova ondata di destra (moderata ma destra) che sarebbe culminata nelle vittorie di Trump (Usa), Bolsonaro (Brasile) e Duterte (Filippine) alla metà del decennio scorso.

Dicevo che senza mettere fra le quinte della scenografia il clima portoghese e l’identikit di Pessoa è come mettersi gli occhiali sbagliati: si vede qualcosa di Tabucchi ma come sfuocato. Lo sottolinea Tim Parks presentando la riedizione che due anni fa Sellerio ha fatto di racconti brevi come “Notturno indiano” e “Donna di Porto Pim”: nella schermaglia di paradossi con i suoi personaggi e nei suoi personaggi fra loro, è come se Tabucchi scoprisse di essere un “altro da sé”. C’è qualcosa di più pessoano?

Quanto al grande scrittore portoghese, ben venga che gli esecutori testamentari si siano rifiutati di obbedire alla volontà del loro amico Pessoa che aveva ingiunto di bruciare le carte di quel baule di scritti: è diventato uno scrigno di tesori. Anzi, un “baule pieno di gente”: si intitola così un bel libro di Tabucchi che illustra come «dietro l’esistenza bigia e stralunata di quell’omino con curiose attitudini fra oroscopi, gnosi e saperi iniziatici – scrivevo – c’era una folla di oltre cento Pessoa (…). Figuratevi cosa succede se alla fin fine nel “baule” si infila anche un altro romanziere: José Saramago entra senza chiedere permesso e si mette a giocare con qualcuno (Ricardo Reis) dei tanti Pessoa rimpiattati dentro i suoi “alias” in un gioco di specchi senza fine».

No, non è finita: i conti con Pessoa il nostro scrittore pisano li fa anche in “Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa” datato ’94. sarà perché penso che sia una meraviglia il disilluso e solitario giornalista vhe ne è il protagonista, ma “Sostiene Pereira” è veramente un “libro del cuore”. A maggior ragione dopo che Marcello Mastroianni, nel film di Roberto Faenza, gli ha dato occhi, volto e corpo in maniera così straordinaria (vedi come cambia la postura del corpo fino all’epico finale). Pereira s’imbatte) nel teorema della “confederazione di anime”: glielo enuncia il dottor Cardoso che lo mette allo specchio di fronte a «un nuovo sé che spunta in mezzo a tanti altri sé».

DALL’ ARCHIVIO: UN’ALTRA STORIA DEL BLOG

Nelle foto, dall’alto: un ritratto di Tabucchi, che ricompare anche in altre due immagini; la locandina del film “Sostiene Pereira” con Marcello Mastroianni; un gruppo di libri di Tabucchi; un primo piano di Fernando Pessoa (le foto sono state rinvenute in rete e ritenute di pubblico dominio; qualora vi siano problemi al riguardo, siete pregati di segnalarlo nei commenti in modo che provvederemo immediatamente alla rimozione)

Una replica a “Il genio di Tabucchi: i mille identikit di Pessoa e il dittatore che non seppe di esser stato cacciato”

  1. Io rimpiango lui, altro che Berlusconi: https://wwayne.wordpress.com/2019/08/18/un-grande-uomo/. Te lo ricordi?

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